Letteratura

Gian Mario VILLALTA, L’APPRENDISTA, edito da SEM 2020* presentazione di Franco Buffoni

Parrebbe beckettiano l’attacco de L’apprendista, il nuovo romanzo di Gian Mario Villalta, con due uomini maturi che, come Didi e Gogo, parlano meccanicamente nel freddo d’una sacrestia. Il settantaduenne Tilio è l’apprendista e diventerà sacrista titolare solo alla fine del libro, alla morte dell’ottantaquattrenne Fredi. Ma dopo poche pagine ci accorgiamo che i due parlano davvero e che i loro racconti, e soprattutto i loro pensieri, più che a Beckett rispondono al precetto balzacchiano e poi joyciano: la giornata qualunque di un uomo qualunque diventa il più interessante dei romanzi se nulla viene taciuto, se tutto viene sviscerato. E i discorsi e i pensieri di Tilio e Fredi ci fanno attraversare il Novecento, da Salò al Giappone fino a Veronika – la badante ucraina della moglie morente di Tilio – della quale l’uomo si invaghisce.

E’ centrifugo il movimento del romanzo sia in senso spaziale, sia in senso temporale: dal luogo angusto – la sacrestia – alla chiesa con le sue liturgie sempre più stanche e disertate, all’intero paese, alla regione, al mondo fino al Giappone. E dalla primavera ancora gelida all’esplosione improvvisa dell’afa già a maggio, siamo al seguito dell’anno liturgico fino all’estate, all’autunno e di nuovo alla stagione fredda.

Ma come diceva Céline: non sono le storie che contano, di storie sono piene le strade, pieni i commissariati. Per fare un vero romanzo occorre uno stile di scrittura. E Villalta, che già in precedenza ci aveva dato ottime prove narrative – ricordiamo soltanto Tuo figlio e Vita della mia vita – qui trova la sua misura stilistica d’eccellenza: profonda e accattivante.

Nelle storie dei due umili (memorabile la Giorgia che nello splendore dei suoi vent’anni aveva irretito Tilio diciassettenne, e che l’uomo incontra ancora truccata ma esausta mentre si sostiene col deambulatore), abbiamo contezza, certo, del tramonto d’una civiltà culturale legata alle liturgie post-tridentine, ma anche del fatto che non esistono gli umili, che siamo tutti unici e irripetibili, e che chi crede d’essere in prima fila, di contare qualcosa, si illude infantilmente.

Si giunge così alla chiusa del romanzo, che solo apparentemente consiste nella morte di Fredi, nella promozione di Tilio e nell’apparizione del nuovo apprendista sacrestano, Riccardo; in realtà la vera chiusa si manifesta nella contraddizione di quello che pareva l’assunto iniziale. Se lo chiedeva già Philip Larkin nella poesia Church Going: chi sarà l’ultimo a entrare in questo luogo (la chiesa) per la ragione per cui è stata costruita. E lì, in quell’edificio che pare ormai interessare solo a qualche sparuto gruppetto di turisti per la pala di Tiziano che vi è custodita, avviene che Tilio alla fine si chieda che cosa vogliano dire – e che cosa vogliano dirgli – davvero le parole dei Vangeli, troppe volte ascoltate e meccanicamente ripetute. E qui si apre la dimensione escatologica del romanzo, che pare voler dare un’indicazione di speranza filosofica all’occidente. Quelle parole sono importanti, tanto più se spogliate d’ogni credenza misterica e sovranaturale.

*Volentieri ospitiamo il commento di Franco Buffoni al romanzo “L’apprendista” di Gian Mario Villalta che potrà essere scelto per la cinquina del Premio Strega.

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