Diario in coronavirus

Diario in coronavirus con grani di scrittura – 6°

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Diario in
coronavirus
con grani di scrittura

6°
Domenica di Lettura
19 aprile 2020

Indice

Proponente FUIS – Natale Antonio Rossi
6° testo FUIS:
Gli italiani sono patrimonio artistico culturale dell’umanità

La diffusione dell’epidemia del coronavirus in qualsiasi parte dell’universo-mondo, interessando i sistemi sanitari di ogni Paese, li ha diversamente qualificati come impreparati. E’ stata evidenziata l’attenzione istituzionale che ogni paese riserva ai propri cittadini in fatto di cura sanitaria della persona.
Alcuni governanti hanno mostrato una limitata sapienza fingendo che il problema non li riguardasse, ma il coronavirus non li ha risparmiati: ha svolto una funzione di verifica terribile, costringendoli a contare gli infetti, i ricoverati, i defunti.
Il virus è diventato una sorta di cartina di tornasole sia nei confronti di chi si è trovato a gestire la funzione pubblica della politica, sia riguardo ai sistemi di gestione della cosa pubblica, a cominciare da quelli sanitari. E tuttavia l’epidemia del coronavirus dichiara che
– deve far meraviglia, se un governante dichiara che i propri cittadini si devono rassegnare a far morire padri e nonni,
– deve far meraviglia se si dichiara che si potranno contare due milioni di morti,
– deve far meraviglia se si dispone che non siano presi in cura pazienti anziani, affetti da altro,
– deve far meraviglia se si dichiara che coloro che dovessero risultare infetti dal virus con un età superiore ai 65 anni, non saranno curati e saranno lasciati a se stessi,
– deve far meraviglia la diffusione delle morti solitarie e la messa a dimora dei cadaveri in fosse comuni,
– non illumina la civiltà anche la proposta, pur utile, di vaccinare tutti coloro che hanno un’età superiore a 65 anni:
Il problema:
E’ IL VIRUS CHE DOCUMENTA CHE VIVERE E’ DIVENTATA UNA COLPA?
o è colpa dei sistemi politici e dei loro governanti che snaturando la natura del pianeta, che innacquando di veleno l’acqua, plasticando la terra e il mare di rifiuti, infuocando ampissimi territori e foreste fino ad incenerirli, favorendo il riscaldamento dei ghiacciai…
E’ IL VIRUS CHE DICHIARA CHE E’ COLPA VIVERE SECONDO NATURA?
Gli scrittori italiani, pur non essendo loro compito e non avendo soluzioni salvifiche, invitano a riconsiderare le nostre società occidentali, a metterle in discussione perché è evidente che l’effetto abnorme che l’epidemia ha messo in evidenza è la distruzione di ogni ipotesi di comunità (potevo scrivere social-comunismo?) documentando che, poiché non siamo stati capaci di stare insieme, adesso bisognerà stare a distanza. Un metro e poco più è oggi la misura dell’intelligenza.
Rimane un dato: gli italiani sono patrimonio dell’umanità e sapranno trovare soluzioni: si prospetta un’epoca di nuovo umanesimo, sarebbe meglio dire un’epoca di NUOVA UMANITA? E’ bene rendersi conto che, lo si voglia o no, è già attivo il TEMPO DEL RIMEDIO a cui deve corrispondere una FILOSOFIA DEL RIMEDIO che possa a vivere.

Questo DIARIO IN CORONAVIRS, come si potrà notare, ha avviato le mosse per coinvolgere nelle ns. riflessioni scrittori di tutto il mondo.

Filippo La Porta
Va bene, è tutta colpa nostra.

Va bene, è tutta colpa nostra. Il Covid-19 è conseguenza della urbanizzazione, della deforestazione, del sovraffollamento, degli allevamenti intensivi, della velocità degli spostamenti, della distruzione sistematica dell’ambiente, della civiltà industriale (che tanto piaceva a Marx ed Engels, al netto dell’ingiustizia sociale), del turbocapitalismo. Ce lo meritiamo. E anche se ho letto in Rete che per qualche virologo il salto di specie del virus (lo spillover zoonotico) esiste da sempre, che il coronavirus si è sviluppato da un antenato che potrebbe circolare tra noi da un secolo, etc., è evidente che la globalizzazione non può che alimentare fenomeni del genere. Ora, non ho dubbi sul fatto che noi siamo la prima civiltà apparsa sulla faccia della Terra a non avere elaborato un senso del limite, a coltivare l’idea perversa di crescita illimitata (per l’economia i beni della natura sono gratis e illimitati, come leggo nell’utile libretto Biosfera, l’ambiente che abitiamo, di E.Scandurra, I.Agostini, G.Attini). Però vorrei sommessamente ricordare a chi dice che noi umani costituiamo una minaccia per il pianeta, che dunque non siamo la soluzione ma il problema, etc., che anche il pianeta è da sempre una minaccia per noi, e per tutte le specie che nel tempo si sono estinte! E che, soprattutto, la natura è un ecosistema fondato non solo un equilibrio dinamico ma sulla guerra di tutti gli organismi contro tutti! Il Covid-19 ha pur sempre origini naturali, non nasce da manipolazioni di laboratorio. E la natura, come sappiamo noi italiani che abbiamo studiato a scuola Leopardi, è indifferente agli individui e causa di infelicità per tutti gli esseri; oltre ad avere la sgradevole propensione a eliminare brutalmente i deboli e i meno adatti. Proviamo a rileggere la pagina dello Zibaldone, del 1826, sul giardino ridente, e proprio nella più mite stagione dell’anno: “voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che non vi troviate del patimento”. Da qui Leopardi passa a un elenco impietoso: “Là quella rosa è offesa dal sole che gli ha dato vita;si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, nelle sue parti più sensibili, vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone e virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un formicaio, quell’altro da bruchi, da mosche, da lumache, da zanzare; questo è ferito nella scorza e e cruciato all’aria o al sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco, o nelle radici; quell’altro ha più foglie secche; quell’altro è ròso, morsicato nei fiori; quello trafitto, punzecchiato nei frutti. Quella pianta ha troppo caldo, questa troppo fresco”; troppa luce, troppa ombra; troppo umido, troppo secco. L’una patisce incomodo e trova ostacolo e ingombro nel crescere, ello stendersi; l’altra…” concludere che “ogni giardino è quasi un vasto ospitale (luogo ben più deplorabile che un cemeterio”(Zibaldone, 4175). Cui si aggiunge, certo, anche l’intervento della “donzelletta sensibile e gentile”, che “va dolcemente sterpando e infrangendo steli”

Ecco, un brano del genere, del pessimista-vitalista Leopardi, andrebbe fatto presente a chi si commuove sul canto festoso degli uccellini al mattino e poi durante il giorno si abbandona a violente geremiadi contro la colpevole hybris umana (cioè contro la donzelletta gentile, che in fondo non fa altro che adeguarsi al quadro generale) Ripeto: al mondo può anche far bene fermarsi per un po’, e certo l’economia, ancor prima del capitalismo, non considera tra i suoi costi la distruzione delle risorse naturali (limitate), come sottolinea il libro prima citato ( e il fatto che in Italia i Verdi sono al 2% la dice lunga sulla nostra coscienza ecologista). Però meditiamo sulla pagina leopardiana: la natura è un ospedale permanente, fatto di distruzioni, stragi, patimenti, offese, strazi. Ora, per mettere in sicurezza il pianeta, almeno in modo definitivo, occorrerebbe l’estinzione della specie umana (come auspicano i torvi antinatalisti, discendenti degli antichi gnostici). Siamo probabilmente noi il virus principale e più invasivo. Ma, statene pur certi, il pianeta che lasceremmo incontaminato non sarebbe un giardino ridente.

Franco Campegiani

Tutti a casa

Tutti a casa, dunque, ma cos’è una casa? l’abbiamo dimenticato. Abitanti del mondo e dispersi nel villaggio globale, naufraghi in mare aperto, viviamo, o fino a un mese fa vivevamo, in spazi vastissimi, in quartieri anonimi che comprimevano le mura domestiche. Casa, un termine caduto in disuso. Non sapevamo più abitare una casa. Al più pensavamo che fosse un luogo dove poter dormire e farsi la doccia, rubare bocconi dal frigo e andare al cesso, farsi la barba e cambiarsi d’abito. Frettolosamente, perché la vita ci chiamava fuori. Nulla era dentro e tutto era fuori, dal lavoro al divertimento, dagli affari al sesso. La vita contemporanea – vita di tutti e di nessuno – aveva cancellato l’intimità, la familiarità e ognuno viveva fuori di se stesso. Sparite le quattro mura, la protezione dei piccoli ambienti, la distensione delle quiete piazzette, la compagnia delle fontane chiacchierine, l’accoglienza degli antichi borghi.

Svaniti l’orto e il giardino, il pollaio e la vigna, la cantina e il cortile, il giardino e il granaio, la soffitta e il camino, l’osteria, il rione, la strada… Luoghi dell’anima, dell’humanitas, della certezza dell’amore materno, luoghi dove circolava da sempre il buon senso. E tutti proiettati all’esterno, privi di interiorità, in una dimensione sostanzialmente fallica. A farne le spese, l’universo femminile, la dimensione uterina, la sfera segreta e raccolta del grembo, dell’alveo, della casa appunto. Un mondo fallico, per giunta astuto e diabolico, benignamente disposto ad accettare le quote rosa, l’emancipazione del gentil sesso. Una presa per i fondelli, checché possano pensare le donne di tanta e tale cortese indulgenza. Basti pensare al femminicidio che magnanimamente accompagna così raffinata considerazione della donna, sostituendosi alla zotica cavalleria di un tempo.

Per non dire dello stato pietoso in cui versa Gaia, la Madre Terra, archetipo femminile per eccellenza, squassata dalla cultura mascolina e belligerante, degenere e prevaricatrice, offensiva e dissacrante dei tempi attuali. Tempi di globalizzazione, d’irriverente stupro del globo, di violenza nei riguardi del generoso pianeta che ci accoglie e ci ha dato i natali. Ma non vorrei venire frainteso. A parer mio, le due polarità – Femminile e Maschile, Yin e Yang – dovrebbero interagire tra di loro in un felice interscambio. Il Chiuso e l’Aperto, due concezioni del mondo alternative, due universi inconciliabili, dovrebbero diventare complementari e fondersi tra di loro per il bene della comune specie umana. Purtroppo si preferisce viaggiare in un binario soltanto, con danni e squilibri che ricadono su tutti indistintamente. Sul maschile e sul femminile nello stesso tempo.

Da qui l’importanza di valorizzare la visione, per così dire claustrale, seppure squisitamente sociale, del grembo nell’orizzonte parolaio e babelico, prettamente mondano del fallo, illusionista abilissimo nel confondere comunità e camarilla, eticità e settarismo partigiano. Si dirà: cosa c’entra tutto questo con la pandemia che ci sta colpendo in maniera così tragica e con la minaccia di una recessione economica senza precedenti a livello planetario? Ebbene, tutto ciò sta facendo emergere le lacune di un modello civile sofisticato e monco, obbligandoci a riscoprire il valore delle cose semplici, essenziali. Il coronavirus, quest’invisibile molecola senza vita e senza intelligenza – di essa così dicono (sic) – ci ha posto agli arresti domiciliari, modificando in un battibaleno gli esasperati stili di vita e i frenetici ritmi cui eravamo abituati.

In questo periodo di isolamento obbligato può capitare tra le mani un libro che avevamo dimenticato, come è accaduto al sottoscritto con il rinvenimento di “Piccolo è bello”, Mursia 1973, dove l’autore, Schumacher, metteva in discussione il modello economico dominante, imperniato sul centralismo finanziario, industriale e tecnologico, proponendo un’idea di lavoro spirituale e creativo che anticipava alcune tematiche ecologiste, poi fiorite nei decenni successivi. Un testo che mi è sembrato di grande attualità, da riproporre oggi, sia pure in maniera correttiva e non più alternativa alla macroeconomia imperante. Un riequilibrio doloroso, ma necessario, con un prezzo da pagare altissimo, come lo è già stato e per molto tempo ancora lo sarà. Purtroppo, come scrivevo nel precedente intervento in questo diario, senza sbattere la testa e senza farci del male, noi umani difficilmente riusciamo a comprendere di dover cambiare direzione.

“Nessuno si augura il male”, aggiungevo, e la speranza è che il prezzo da pagare si fermi qui. Tuttavia, se il male esiste, esso ha una sua ragione di essere ai fini dell’equilibrio. Traiamone dunque profitto. Questa sbalorditiva e dolorosa frenata mondiale dei nostri squilibrati modelli di vita si trasformi in una lezione, in una benedizione, in un’opportunità”. Qual’è il rovescio della medaglia di questa dolorosissima e allucinante situazione? Ebbene, la reclusione forzata ci ha spinto innanzitutto a riscoprire il piacere della vita familiare, della cucina casalinga, del giardinaggio domestico, della lettura di giornali e di libri, della visione di film, dell’ascolto di musica, ma soprattutto della compagnia di figli e partner, di genitori e nonni, facendo anche esplodere, come era giusto che esplodessero, le situazioni familiari insostenibili.

In pochi giorni è cambiato il mondo, con gli agglomerati urbani deserti e le polveri sottili sparite dalle città. Risolto il problema del traffico, disinquinati i cieli per assenza di voli e ripuliti i mari per carenza di navigazione. In un attimo abbiamo compreso che l’ossigeno è molto più importante del potere e dell’accumulo di beni materiali; che i muri non servono (contro il virus non sono fortezze) e che i ponti vanno chiusi per ostacolarne la corsa (chissà se è per questo che continuano a crollare). Le guerre sono state sospese per non diffondere il contagio, i migranti hanno allentato la loro pressione, il consumo di petrolio è sceso enormemente e siamo riusciti a dare al calcio la sua giusta valutazione. La malavita ha subito un considerevole tracollo e siamo tutti diventati più ligi alle regole, più solidali e desiderosi di rapporti con il prossimo. Il mondo è decisamente più bello, con cori festosi di uccelli e di altri animali, come non capitava di ascoltare da secoli.

La natura ci ha messo in gabbia e ci sta dicendo con sottile delicatezza che non siamo necessari, non lo siamo stati mai. La vita, la terra, l’aria ed il mare godono di ottima salute e stanno benissimo senza di noi, possono farne tranquillamente a meno. E’ bastato un virus, uno schiaffetto della natura, per porci all’angolo e farci vergognare della nostra boria, della nostra dissacrante presunzione. Per ora, la Madre che da sempre offendiamo si limita a immobilizzarci soltanto. Lei non ci vorrebbe eliminare, ma lascia a noi la scelta, per cui dobbiamo assolutamente comprendere di essere i suoi ospiti, non i suoi despoti e neppure i suoi proprietari. Sta qui la lezione che dobbiamo apprendere, e dobbiamo farlo il più velocemente possibile per non vanificare il sacrificio delle decine di migliaia di vittime cadute per indicarci un diverso cammino.

C’è, per la verità – come sappiamo – una lettura diversa di questa tragica e allucinante vicenda, che fa risalire l’esplosione del coronavirus ad una sorta di complotto internazionale orchestrato da poteri fortissimi, interessati a destabilizzare il sistema attuale per subentrarvi con regimi violenti e dittatoriali. Naturalmente non si può escludere nulla, anche perché non sembra esistano prove contrarie, ma se così stessero realmente le cose, a maggior ragione la possibilità di un reale cambiamento dovrebbe essere affidato alla natura e non agli umani, dal momento che troppo debole sarebbe la reazione e la protesta dei bastian contrari contro un potere inarrestabile cui tutti – nessuno escluso – si dovrebbero infine piegare. Soltanto lei, la Madre, a questo punto può metterci le mani, e non v’è dubbio che lo farà, come lo sta già facendo, costringendo il figlio degenere ad un’autocritica salutare.

Sylvie NTSAME*
Poema

Ahaaa !
Je pleure les jours passés où j’étais libre,
Libre de rester à la maison,
Libre de sortir,
Libre de voyager,
Libre de me retrouver avec ma famille, mes amis,
Libre d’organiser une fête,
Pour rire,
Pour boire,
Pour manger,
Pour chanter en choeur :
«Joyeux anniversaire 🎂💐🍾»

Ces jours…
Sont lointains,
Jours de bonheur,
Où nous étions heureux de partager le gâteau,
Heureux de lever les verres,
Heureux de boire le champagne,
Heureux de nous enivrer,
Heureux de se toucher,
Heureux de partager un fou rire des retrouvailles,
Heureux de nous embrasser !

Ohooo!
Le passé était-il si près ?
Le passé c’est donc hier ?
Je pleure les anniversaires que je n’ai pas fêtés
Pendant que j’étais libre.

Maudit coronavirus!
Maudit confinement!
Quand donc ai-je perdu l’humanité ?

Où les gestes les plus simples me sont interdits:
Serrer une main,
Toucher quelqu’un
Chuchoter à une oreille?

16 avril, jour de mon anniversaire!

Tout me manque
Mes enfants,
Ma famille,
Mes amis,
La rue,
Le vrombrissement des moteurs.

Demain !
Oui, il y aura demain.
Ne dit-on pas que le jour finit toujours par se lever,
quelle que soit la durée de la nuit?

Demain !
Le coronavirus passera.
Il sera, lui, inscrit au passé.

Ce jour-là !
J’irai chanter et danser
Sur la grande place avec vous tous.
Pour témoigner mon Amour à l’Homme!
Que L’Amour soit ce que nous partagerons désormais ensemble.

_____________
* Scrittrice di romanzi e testi di poesia. E’ presidente dell’Associazione degli Scrittori del Gabon E Presidente dell’Associazione degli Editori dell’Africa.

Antonio Filippetti
Il coronavirus e l’era dell’incompetenza

L’esplosione dei social networks ha comportato, oltre che una rivoluzione del modo di comunicare, una vera e propria liberazione dell’ignoranza. La nuova opportunità del mezzo, infatti, che garantisce a tutti la possibilità di esprimere le proprie idee e convinzioni, è stata associata a una forma di vidimazione di verità assicurata dalla stessa universalità del sistema mediatico. In altre parole grazie ai social non si ha soltanto la possibilità di esprimere le proprie opinioni ma di diffonderle con il crisma della verità assoluta. Per dirla con Tom Nichols abbiamo assistito alla santificazione dell’ignoranza che ha sancito anche la fine della conoscenza scientifica e culturale inaugurando quello che lo stesso studioso etichetta come l’era dell’incom-petenza. Questa nuova età ha avuto proprio grazie all’epidemia del coronavirus la sua più patente certificazione.

In questi giorni e mesi dominati dalla presenza del Covid 19, hanno avuto libera circolazione non solo le banalità e idiozie diremmo della gente comune inebriata dalla possibilità offerta dal web di esprimere la propria opinione, ma più e peggio ancora siamo stati investiti da uno spaventoso ciclone procurato dalle incursioni di migliaia di cosiddetti esperti che, attraverso le televisioni, i social media ecc., hanno dato vita ad un carosello di invenzioni di ogni tipo, ovvero di pensieri in libertà “venduti” tuttavia come proclami inattaccabili, una specie di novelle tavole delle legge a cui richiamarsi da qui in poi. Quando si faranno i conti (se mai si faranno) si vedrà, insieme con le cifre totali del disastro, come sono andate le cose e forse si capirà anche come occorreva agire e cosa fare per l’avvenire. Un dato al momento sembra incontrovertibile, al di là delle tante chiacchiere sparse al vento e cioè che dell’epide-mia nessuno aveva (ha) capito nulla e i cosiddetti esperti, trincerandosi dietro la propria sicumera, hanno solo sparato a vuoto frottole prive di senso ovvero di conclamata verità. La prova più semplice ed evidente è che nessuno si è mostrato in grado di fare previsioni attendibili, tenuto conto che parlavano tutti di una cosa che ignoravano.

Purtroppo occorre ammettere che in questo caso (ma non è evidentemente il solo se si pensa che l’OMS non ha saputo decidersi sulla necessità dell’uso delle mascherine!), la scienza (e la protezione civile) hanno brancolato nel buio incassando un’atroce sconfitta, perché si parla di migliaia di morti, senza nemmeno contare le conseguenze economiche e sociali. Alla fine insomma bisogna riconoscere che siamo ancora al palo; e che palo! Se si vanno a rileggere i comportamenti suggeriti in occasione della peste del 1630 (quella a cui si riferisce Manzoni, tanto per capirsi, ne “ I Promessi Sposi”) si vedrà che le precauzioni assunte sono più o meno le stesse. Anche allora cioè si vietavano gli assembramenti, i malati venivano arieggiati con i ventagli (al posto degli odierni ventilatori) e si faceva uso dei fazzoletti per proteggersi come oggi si fa con le mascherine (quando ci sono). Tutto uguale per il resto, compresa la ricerca del primo contagiato (“il portator di sventura”), il far fronte ai bisogni allestendo in quattro e quattr’otto strutture di emergenza per ospitare “quattromila pazienti” e la nomina di un super commissario (Felice Casati) con pieni poteri. E sono trascorsi quattrocento anni. Lo stesso scenario si è ripetuto poi un secolo fa in occasione della terribile “spagnola”.

Oggi semmai dobbiamo ringraziare i tanti operatori sanitari che magari non ci hanno messo la faccia ma hanno rischiato (e perso) la propria pelle per aiutare i malati e poi i tanti precari e volontari che si sono assunti responsabilità non richieste ovvero “imposte” dallo spirito di solidarietà e fratellanza. Per il resto sarebbe meglio tacere, magari andandosi a rileggere (per farne tesoro) quanto sostenuto da un grande scienziato e filosofo come Jacques Monod il quale, richiamandosi a Democrito, ammoniva che “tutto ciò che esiste nell’universo, è frutto del caso e della necessita”.

Lucia Marchi
Post pandemia

Post pandemia
Se volessimo
Oggi potremo ricominciare
Una vita nuova
Senza intossicarci l’esistenza
Tra frasi dette e progetti mai sviluppati
Cercando di trovare
Un ambiente naturale
Ove lasciare andare i pensieri
E insieme riprendere fiato
Sapendo che non siamo soli
E rispettare l’universo
Per la sopravvivenza di tutti.

Domani

Prenderò le tue mani
Insieme
Torneremo a camminare
Sulla strada della città
Ed io e te
Non saremo che
Due esseri che s’incontrano
Con la voglia
Di ricominciare a sognare

Oblio

Animali avvinghiati

Nella della lotta

Senza sosta

Abbiamo attraversato il tempo

E gli spazi

Dimenticando che per vivere

Basta semplicemente

Respirare a pieni polmoni

Nella luce del giorno

O al chiarore delle stelle.

 

Guido Barlozzetti
Il calore dell’inconscio

Volle sdraiarsi lui sul divano. Prima, e gli anni erano passati, lo aveva fatto una sola volta, quando l’avevano sistemato in quella stanza in cui riceveva i pazienti e vedendolo lì, aveva voluto provarlo, come il futuro sposo che entra nella camera da letto la sera prima del matrimonio e si distende sul letto per provare da solo una sensazione che d’ora in poi dovrà condividere.

Ricordava l’emozione di un’avventura che cominciava e di aver pensato a chi vi si sarebbe accomodato e a quale carico di problemi, conflitti, complessi, turbe e deliri gli si sarebbe scaricato sopra, fino a schiantarlo.

E invece no, il divano era ancora lì, con la sovraccoperta di velluto marron, quella sì un po’ lisa, solo che adesso c’era una novità che veniva a complicare parecchio le cose. Nella città non si poteva più uscire, ordine tassativo, per questioni di sicurezza, e per i suoi pazienti/clienti sarebbe stato impossibile raggiungere lo studio, abbandonarsi sul divano e aprire il rubinetto dell’inconscio. D’accordo, c’era il telefono e qualcuno dei dottori analisti già lo usava e trovava la situazione comoda, persino più intima. Lui no, si rifiutava di diventare l’addetto al call-center della psiche altrui.

E allora, si domandò, cosa può fare un esploratore delle contorsioni mentali seduto accanto a un divano vuoto? Cosa può fare nella solitudine priva della parola che qualcuno viene lì a rivolgergli e senza la quale la sua non serve a nulla?

Gustavo Carlo Sigis provò a darsi delle risposte. E intanto, mentre rimuginava, si era spostato in cucina e preparava un caffè, l’acqua nella caldaia, la miscela arabica nel filtro e poi la moka sul fornello del gas che quando aveva avvicinato l’accendino aveva avuto un paio di tremiti, con la fiamma azzurra che si era gonfiata e con una specie di soprassalto si era spenta. Aveva dovuto riaccendere. Non era la prima volta che succedeva, quel fornello doveva farlo vedere.

Allora, cosa fare? Ascoltare il silenzio? No, il silenzio lo amava, ma solo nell’intervallo che passa fra una confessione e l’altra.

Ascoltare sé stesso? Per carità, c’erano ancora un sacco di cose che doveva scoprire negli anfratti della testa, ma forse era meglio non scavare troppo.

E se invece si fosse disteso lui, abbandonando la posizione da cui gestiva il confessionale? Se fosse passato dall’altra parte, rovesciando la prospettiva come l’avvocato che diventa imputato o il professore che si siede fra i banchi? Convenne rapidamente che era il modo migliore per rilassarsi e aspettare che la testa, svuotata delle ansie, producesse una qualche idea.

Non dovette passare troppo tempo perché sprofondasse in un dormiveglia nel quale si assopiva ma non al punto da addormentarsi, sul bordo del sonno ma al tempo stesso ancora sveglio. Un bordo misterioso su cui lui stesso aveva provato a orientarsi, dovendo però confrontarsi con quell’insolubile oscillazione.

Galleggiava sul confine quando cominciò a sentire una voce con un vago accento russo, russo? chissà… insomma, l’accento con cui si pensa parlino i russi. Raccontava che, era notte, si trovava nel letto davanti a una finestra da cui si vedeva un albero di noci. All’improvviso, la finestra si spalancava e sui rami dell’albero non si sa bene come e perché s’erano sistemati dei lupi bianchi, ma la coda sembrava più di volpe e le orecchie erano ritte come quelle di un cane. E per la paura di essere mangiato aveva iniziato ad urlare.

Ma il russo non aveva fatto in tempo a dire che si era svegliato. La scena era cambiata e al posto dei lupi era apparso un cavallo e la voce stavolta diceva di avere paura. Era la voce di un bambino e confessava di non poter sopportare le coperture che si mettono sugli occhi dei cavalli e il bordo nero che circonda la loro bocca.

I lupi che forse non erano lupi, il cavallo che era un cavallo e, un istante, stacco di montaggio, al loro posto c’erano dei topi e non stavano più sui rami del noce. Parlava di un qualche supplizio un uomo che si poteva immaginare professore, medico o avvocato, un supplizio che diceva essere praticato in Oriente e a cui temeva potessero venir sottoposti il padre e anche la donna lui che stava per sposare. Solo che il padre era morto già da alcuni anni! E il supplizio era tremendo, si sentiva dal tono della voce, perché i topi sarebbero penetrati nel loro corpo attraverso l’accesso che sta in fondo alla schiena, oddio, basta, pure i topi che accedono dal posteriore!

Nemmeno il tempo di percepire l’orrore e si era fatta viva una ragazza che a sentire la voce non era messa bene, tosse così insistita da far pensare a un tic nervoso, respirazione faticosa. Raccontava che il padre, parecchio agitato, le diceva di alzarsi perché la casa stava andando a fuoco, gridava di uscire e se la prendeva con la madre che voleva salvare un cofanetto di gioielli, via, la casa sta bruciando!

E in effetti la casa bruciava, bruciava davvero e Gustavo Carlo sentì il calore che lo avvolgeva tutto e lo fece uscire dal dormiveglia. Solo per constatare che lo studio stava andando a fuoco e anche la sovraccoperta di velluto marron.

Furono lunghe e accurate le indagini per appurare il motivo dell’incendio che aveva distrutto la palazzina in cui si trovava l’appartamento-studio dello psicoanalista Gustavo Carlo Sigis.

Determinante fu la testimonianza di un barista e di un giornalaio che dissero di aver sentito un forte odore di gas seguito da un’esplosione.

I pompieri sul pavimento della strada raccolsero una moka.

Il guardiano del supermercato

Al supermercato si poteva andare e lui era andato.

Aveva aperto di prima mattina il frigorifero e gli era apparsa una natura morta di mele, qualcuna con incipiente baco, un vetusto barattolo di minestra di fagioli e una depressa scatoletta di tonno.

Il quadro era così disperante che l’aveva convinto ad uscire.

Nel quartiere vuoto quasi come il frigorifero, ce n’era soltanto uno degli immensi tabernacoli che custodivano tutto ciò che serviva alla sopravvivenza, pronti a soddisfare ogni desiderio, pure quelli che gli si accendevano lì, abbindolato e sedotto dalle promesse in mostra sugli scaffali.

Non c’era nessuno, fino a quando s’era accorto di un giovanotto che era fermo e più che masticare ciancicava una gomma e davanti a lui un altro, un poco più in là con gli anni e con un carrellino appresso, e davanti una signora elegante e vistosa, con lenti nere, un foulard azzurro e un giacchino giallo che dava negli occhi, e ancora davanti un pingue ragioniere, ma sì, uno che stava seduto a tempo pieno, tutti con il telefonino incollato all’orecchio, meno la signora che lo teneva in mano e annunciava al mondo circostante che il disgraziato del marito non era voluto venire e lei adesso stava lì a fare la fila. La fila? A Ermete Zagno bastò poco per capire. Lui, impiegato in uno sportello bancario, le file le conosceva bene.

Quei tipi uno davanti all’altro erano solo l’inizio di una catena che svoltava l’angolo, proseguiva, attraversava un incrocio, sfilava un altro isolato e poi un altro, scendeva già a sinistra, prendeva il corso, attraversava una piazza con la fontana che zampillava senza entusiasmo e arrivava davanti al supermercato.

Così gli era sembrato e invece no, perché il serpentone non era finito, continuava infilandosi nella strada accanto, faceva un giro attorno a tutto il perimetro del supermercato per tornare sulla piazza e a quel punto dirigersi verso l’ingresso.

Ermete era di fronte al dilemma: accontentarsi della natura morta o fare la fila, quel ghirigoro che non finiva di arrotolarsi per mezzo quartiere e che naturalmente gli sarebbe toccato di cominciare dall’ultimo posto? Come quel mezzofondista americano che correva sempre nell’ultima posizione, ma poi scattava sulla dirittura finale e magari per un centesimo di secondo vinceva la medaglia. Solo che lì non c’era nessuna medaglia da vincere, c’erano solo l’ultimo posto e tutto il tempo che serviva – vai a sapere quanto… – per arrivare all’ingresso, alla porta delle merci. E anzi, nel frattempo, la fila si era ancora allungata ed era risalita all’indietro per un paio di palazzine e i nuovi arrivati, mentre lui gli passava accanto per prendere il suo posto, lo guardavano chi con indifferenza, chi con la soddisfazione di stargli davanti, anche se di poco, ma sempre davanti. Tiè.

Si piazzò nella posizione che gli toccava e iniziò l’avanzata, lenta come in quegli ingorghi che, prima di quel casino sciagurato che nessuno s’attendeva, riempivano la città. Non c’era da fare altro, se non seguire quell’ordine ineluttabile, un passo dopo l’altro, a debita distanza sia davanti che dietro, e anzi questa era una delle preoccupazioni che più lo agitavano e lo facevano voltare in continuazione per vedere se la misura della sicurezza venisse rispettata. Per esempio, quel tipo in calzoncini corti e una felpa con scritto “me piace la carbonara” che non smetteva di avvicinarsi e espandere fiato.

Preso in questa torsione con ansia, Ermete procedette con la fila.

Un’ora dopo l’altra, il mattino, poi il mezzogiorno, quindi il pomeriggio, fino alla sera, quando fu chiaro che la mèta era ancora lontana e non s’intravedeva ancora la piazza del supermercato. La fila a quel punto si era bloccata e annunciava uno stop che sbucava sulla notte.

Che fare? Riprendere la strada di casa? E domattina? Significava ricominciare da capo e rinunciare a tutta l’avanzata che aveva compiuto. Stanco, con una voragine nello stomaco, sempre infastidito per quell’irsuto che lo tampinava, decise di insistere, come del resto tutti quelli che lo sopravanzavano.

Passò la notte e la mattina riprese la transumanza del gregge in fila indiana verso il supermercato. Di quello che era accaduto nella notte nessuno volle parlare, ma nel buio possono succedere tante cose.

Di sicuro, Ermete non era più lo stesso, la barba lunga, il bisogno di una doccia che lo rinfrescasse, la bocca impastata, un raffreddore che cresceva e neanche un fazzoletto di carta. E non bastasse, una fitta alla schiena a cui non aveva fatto per niente bene quella processione.

E tuttavia sperava e confidava di arrivare e finalmente entrare.

Così quando, attraversata la piazza e consumato l’ultimo giro, si trovò di fronte all’ingresso il cuore esultò e gli saltò in gola. Senza tenere però conto che il countdown dell’orologio si stava avvicinando pericolosamente al Big Ben della chiusura.

Glielo fece capire la mano alzata del guardiano che lo bloccò proprio un attimo dopo che era entrato il giovanotto che lo precedeva.

Era un uomo con una strana pelliccia addosso, un gran naso a becco, una lunga e sottile barba nera all’uro tartaro.

Gli raccontò che lui era solo il primo guardiano e che dopo di lui ce n’erano tanti altri, sempre più potenti di lui, e che, anche se l’avesse fatto entrare, lo avrebbero bloccato. A Ermete venne da immaginarsi il guardiano dell’ortofrutta, quello degli insaccati, e poi il custode delle prime colazioni e dei biscotti, e così per la carne, i sottoli, i detersivi e i fazzoletti di cui aveva tanto bisogno. Possibile che il mondo fosse diventato così complicato?

Era un uomo dai modi molto gentili il guardiano, ancorché inflessibile, e pareva quasi volerlo consolare.

Ermete, tra uno starnuto e l’altro e il muco che colava impetuoso, le provò tutte, disse della natura morta nel frigo, raccontò una barzelletta che non sapeva raccontare, gli fece vedere un santino di Sant’Alfonso protettore dei portieri e degli uscieri, gli promise, la ricompensa che avesse voluto, ma se ne vergognò subito perché il guardiano non era proprio il tipo, puntò sulle lacrime per impietosirlo, ma il guardiano non aveva sentimenti, gli disse della schiena rotta, dello stomaco vuoto e del bisogno almeno di un pacco di fazzoletti… Non ci fu verso.

Doveva avere il carattere che può avere uno con il naso a becco e la barbetta da tartaro, testardo, certo, e però anche con ii sottile piacere che gli veniva dal proferire quel diniego ed osservare, sprezzante, le capriole maldestre di chi veniva escluso. Altrimenti, non si spiegherebbe la risposta che gli dette, che quella porta era riservata soltanto a lui, a Ermete Zagno, e che oramai non c’era nulla da fare, adesso l’avrebbe chiusa.

Z. non era certo al massimo della forma e a dirla tutta faceva anche un po’ schifo, ma raccolse tutte le poche forze che gli erano rimaste, gli occhi gli si illuminarono come a Maradona prima dell’ultimo dribbling davanti alla porta. Fece una finta da una parte e scattò dall’altra sfilando il guardiano che stava tirando giù la saracinesca.

E finalmente entrò.

 

Luciana Vasile
SOLO

In questi giorni di pandemia si sente parlare molto, e giustamente, della solitudine della morte, soprattutto per quanto riguarda gli anziani. Isolati, confinati nelle case di cura, a difesa di se stessi e degli altri, senza alcun conforto della presenza di familiari e amici.

Nonostante, io sono convinta che, con o senza coronavirus, l’essere umano nasce e muore SOLO, senza poter dividere questi trapassi con alcuno, neanche con la madre che gli dà la luce.

Alla morte di papa Giovanni Paolo II mi capitò di riflettere alla vista del lungo serpentone di fedeli che si articolava come labirinto nell’abbraccio del colonnato di Piazza San Pietro.

Scrissi queste parole che ripropongo ora, sembrandomi adeguate al tempo che stiamo vivendo, dove alcune domande urgono più che mai, per fare chiarezza, senza illusioni, nelle menti e nelle anime.

Solo*

Solo sei

quando la vita ti prende

nel grido di pianto si intende

la tua ignara paura di vivere

Cammini, corri e insegui

Cerchi, elemosini e chiedi

Solo

se monca è la mano

che tendi al fratello

Solo

se arida è la bocca

ansiosa di baci

Solo

se muto batte il cuore

sordo all’ascolto

Ma quando con pale d’amore

riempi quel vuoto glaciale

scopri e gioisci d’incanto

che Solo nel mondo non sei

Solo sei

quando la vita ti lascia

nella tua ultima umana battaglia

di morire hai cosciente paura

Là nelle piazze

le folle condannano

le folle plaudono

Uomo sei Solo se ti fai buio

Uomo sei Solo se ti fai luce

Senza gridare e senza piangere

Solo il silenzio ti onorerà

* 3 aprile 2005 alla morte di Papa Giovanni Paolo II

Carlos Oriel Wynter Melo da Panama

Las ficciones que retratarán una pandemia
que parece ficticia

En estos días de encierro disfruté, una vez más, la película Historia de un matrimonio. Quienes la hayan visto saben que trata de la separación de una pareja. Ese es el conflicto central y único. Además de las cualidades de su facturala dirección, actuaciones y guion, por mencionar sus aspectos más impecables, el largometraje tiene el mérito de mostrar la vida matrimonial de un modo tan diáfano que impacta. Sin embargo, a diferencia de las veces anteriores, ciertas escenas y diálogos fueron ahora irreales para mí. Siempre algo de la película me pareció mentira, para ser sincero, pero la calidad general era tan vigorosa que no me detenía mucho en ello. Un ejemplo: la quiebra declarada por el protagonista, Charlie, encarnado por Adam Driver, me hizo sospechar desde el principio. Estoy en quiebradice él, así que tuve que aceptar dirigir dos obras mediocres. Y agrega: Además, puedes olvidarte de que Henry (su hijo) vaya a la universidad. Siendo yo un latinoamericano que camina en la cuerda floja de su clase media, no pude identificarme con este pasaje. Cuando un latinoamericano dice que está en quiebra, es porque está en quiebra. Entiéndaseme bien: en nuestra región siempre trabajamos en lo que se pueda, no nos damos el lujo de calificar de mediocre una fuente de ingresos y rechazarla, menos si eres artista o te dedicas a la cultura. ¿Un fondo para la universidad de nuestros hijos? Por supuesto que no. Vivimos, la mayoría de las veces, al día. Así que Charlie, para mí, no estaba en quiebra; su vida era apenas normal. Sin embargo, también tengo que decirlo, ubicar su realidad en Los Ángeles y Nueva York cambiaba mi perspectiva y los personajes terminaban siendo verosímiles.

No sé si se ha caído en cuenta sobre el profundo impacto del Covid 19 en el arte. Ha incidido en la credibilidad de las ficciones. Ha alterado nuestras realidades, sin duda, pero también habrá de cambiar los principios en que basamos las historias que escribimos y nuestras narraciones audiovisuales. No creeremos ya en argumentos que muestren un orden estricto porque ya nada está perfectamente organizado. Hoy el gran Nueva York es el epicentro de la epidemia en los Estados Unidos; los neoyorkinos más afortunados no pueden salir de sus casas o abrazar a sus seres amados. La economía del mundo, incluidas las ciudades estadounidenses más importante, ha sido golpeada tan duramente que no sabemos cuánto tiempo le tomará recuperarse. Si Charlie Barber, el protagonista de Historia de un matrimonio, fuera una persona de carne y hueso no podría dirigir ninguna obra, mediocre o grandiosa, actualmente. Ninguna. ¿Asegurar la universidad de su hijo? Improbable. No necesitaría de un divorcio para llegar a taL situación; bastaría con ser víctima de las circunstancias, como lo son hoy millones y millones de personas.

Así como se están haciendo pronósticos variados sobre lo que ocurrirá en los próximos años, me atrevo a hacerlos sobre las ficciones que se crearán:

Los autores ya no podrán recurrir a apocalipsis imaginados y pandemias imparables para sorprender a su público; historias como estas parecerán fraudulentos calcos de la realidad. La tecnología se apropiado tan decididamente de las sociedades que el género de Ciencia ficción tendrá que redefinirse. La Ciencia ficción reciente, en estos días, ya es simplemente Ciencia.

Los personajes principales tendrán un desencanto encantador, forjado por las aventuras de llevar el pan a sus casas o mantener sus hogares a flote, y no perder sus viviendas a manos de banqueros que se han cansado de esperar.

Los conflictos no necesitarán escenarios extraordinarios. Olvídense de viajes interestelares, guerras en países extranjeros o ambientes futuristas. Los conflictos podrán ser escenificados en apartamentos de pocas habitaciones, con dos conyugues como únicos protagonistas, o en edificios grises con peleas entre vecinos.

Finalmente, así como la cinematografía, desde hace años, se hizo eco de campañas de protección sexual incluyendo el condón en sus momentos amorosos, de ahora en adelante los guiones hablarán de mascarillas y guantes. Nadie creerá, por mucho tiempo, que los personajes no tomaron las precauciones mínimas para mantenerse seguros.

En síntesis, el Covid 19 ha podido cambiar no solo lo que nos rodea, sino las presunciones con que interpretamos lo que nos rodea. Después de todo, si los matrimonios tipo Charlie Barber no son iguales a los de antes, los que aparezcan en películas de plataformas streaming tampoco podrán serlo.

Silvana Cirillo
18 aprile 2020: LA PIU’ BELLA STORIA D’AMORE.

Che dire caro Tonino?
Ieri pomeriggio ho rivisto in televisione La gabbianella e il gatto, cartone animato per bambini, sì proprio quello, ma senza le nipotine, sola, di pomeriggio, mentre il mio amico Mino li vedeva dall’altra parte di Roma ( quanto calma e rassicura, paradossalmente, sapere che siamo tutti in casa a difenderci e a disperderci insieme.., a disperdere le vecchie abitudini e i tanti pensieri, le attività forsennate e a ripensarci – bene o male- un po’ tutti..! Nelle stesse ore, nelle stesse settimane) e così ho riletto nelle immagini e in quelle figurine doppiamente poetiche, il libro di Sepulveda…Proprio tre settimane fa, non so se lo hai in mente, il mio diario per Fuis parlava proprio di animali  e, meglio ancora, di gatti e gabbiani..: gli uni la mia passione di sempre, gli altri la mia compagnia rumorosa e familiare di questi giorni passati a camminare in terrazza; ambedue simpatici eppure così diversi…A proposito di questi ultimi, un tizio con scopa ha provato a scacciarli dal comignolo – le loro effusioni lo disturbavano si vede – sono subito arrivate tre cornacchie petulanti a rimpiazzarli, li spiavano invidiose da un pezzo! ma loro dopo giravolte e borbottii espliciti, sono tornati e hanno ripreso il proprio posto. Ogni giorno lui ci prova e i gabbiani tornano arrabbiati: come si permette l’omino un poco grasso e pelato di trattarli da abusivi? penseranno. Quella é casa loro ormai, per usucapione, si intende… Torno alla favola di Sepulveda che davvero sulle ali della gabbianella ha attraversato il mondo intero… Mi colpisce sempre e  ancora il modo semplice, poetico ma efficacissimo con cui passa il messaggio sull’ambiente da custodire, la natura da rispettare, che  sono la nostra casa , la nostra famiglia, non solo lo sfondo, o una qualunque abitazione; e così quello sulla solidarietà, l’uguaglianza, e mi piace pure come traghetta garbatamente e senza giudizi velenosi  tutti i vizi umani sui tanti animaletti parlanti…Mi affretto a mandare un sms a mio figlio: Fai vedere i cartoni a Bianca e Alice. Sono belli, poetici, sornioni, educativi.., e lui mi dice: Ma mamma, abbiamo il dvd e li conoscono a memoria... Come non detto!
Mi ricordo invece quanto mi divertii vari anni fa a scrivere un lungo saggio sulla Favola moderna iitaliana a partire da fine 800. Quando arrivai al  secondo ‘900, quella di Rodari, di Calvino, di Zavattini, di Malerba, di Landolfi..,  così radicata nella società contemporanea, nelle sue problematiche, nella sua etica ( o non etica, meglio!) ecc. ecc;  così umoristica, “leggera” sorniona, originale, a volte pure filosofica, piena di giochi, paradossi, sogni e  fantasie che altro non  sono che i risvolti sottili del quotidiano e delle sue regole, la chiamai  “favola d’autore”. Lì l’affabulatore gioca dietro le quinte e non fa cadere la morale dall’alto (  il lettore – piccolo o grande che sia – se la deduce e se la introietta senza accorgersene), lì i valori sono quelli che il mondo contemporaneo, globalizzato e omologato, rischia ogni giorno di dimenticare: uguaglianza, solidarietà, rispetto per le cose del mondo ( compreso l’uomo, che ,presuntuosamente, crede di essere superiore )... Favole d’autore le definii, senza più modelli antichi, ma  evidentemente legate alla poetica del loro autore, riconoscibili cioè, come sue: il genere  Sepulveda, dunque. Che però non era inserito fra questi artisti,  perché non era italiano! E come mi fa piacere poterlo nominare qui, ora.

E Sepulveda poeta?  Ti ricordi Tonino, questa sua meravigliosa dichiarazione d’amore fatta alla moglie, perduta per anni e ritrovata? Che quando la leggiamo noi vorremmo quasi avere tutti un amore nuovo, per dedicargliela? Anche se parte da un Addio, che però suona come una invocazione al ritorno…E così fu nella vita! te la trascrivo, se non te la ricordi…

L’ultimo suono del tuo addio,
mi disse che non sapevo nulla
e che era giunto
il tempo necessario
di imparare i perché della materia.
Così, tra pietra e pietra
seppi che sommare è unire
e che sottrarre ci lascia
soli e vuoti.
Che i colori riflettono
l’ingenua volontà dell’occhio.
Che i solfeggi e i sol
implorano la fame dell’udito.
Che le strade e la polvere
sono la ragione dei passi.
Che la strada più breve
fra due punti
è il cerchio che li unisce
in un abbraccio sorpreso.
Che due più due
può essere un brano di Vivaldi.
Che i geni amabili
abitano le bottiglie del buon vino.
Con tutto questo già appreso
tornai a disfare l’eco del tuo addio
e al suo posto palpitante a scrivere
La Più Bella Storia d’Amore
ma, come dice l’adagio
non si finisce mai
di imparare e di dubitare.
E così, ancora una volta
tanto facilmente come nasce una rosa
o si morde la coda a una stella fugace,
seppi che la mia opera era stata scritta
perché La Più Bella Storia d’ Amore
è possibile solo
nella serena e inquietante
calligrafia dei tuoi occhi.

Non voglio parlare oggi del Coronavirus, Tonino: ormai per me è diventato il primo oggetto di rimozione, per fastidio verso radio televisioni giornali, chiacchiere e comunicazioni; Europa, accordi, disaccordi, politici,  politicanti, incoscienti, incapaci, esperti e inesperti..:artefici del nostro DESTINO ; perché non voglio cedere al pensiero martellante che ci sia qualcosa di più grosso ed efferato dietro tutto questo..; e per paura, quella sì  concreta, di qualcosa che ci pende sulla testa, ma da quale parte arrivi ignoriamo!
Oggi uscirò e farò i 200 m. attorno al palazzo per 10 volte almeno: mi girerà la testa? Prima finisco di leggere il quarto dei libri candidati allo Strega: sai Tonino che quest’anno mi sembrano di qualità? Tecniche e strategie convincenti, così vai fino in fondo e senza fatica. Anzi! E intanto ieri sera – televisione zero, voglia di leggere anche dopo cena, zero, voglia di dormire neanche a pensarci – mi sono ripresa l’album di foto da condividere con te. Riflesso condizionato, sapendo che oggi non avrei resistito all’ input di scriverti? Non so. Voglia di ripercorrere senza nostalgia bei momenti della vita e incontri irripetibili? Forse! Ma sai che  trovo di meraviglioso e ormai quasi sommerso da 40 anni di altra vita? Il periodo in cui Silvana, la studiosa di letteratura e comunicazione, già giornalista/pubblicista a fine anni ’70, già studiosa e amica di Zavattini e collaboratrice Rai, ( settore culturale Radio 1, poi Rai 3), Silvana, innamorata di linguaggi artistici e teatro, non ti stupire! fece la critica di danza contemporanea per riviste e giornali. Linguaggio artistico completo, corpo e musica in simbiosi, gesto e suono, anima trasfusa nella materia, piedi riscattati dalla bassezza, mani che parlano come nel Mudra orientale..,nudità delle membra e libertà della psiche, simbologie e desideri, parodie e irrisioni…così guardai e interpretai in quegli anni lontani la grande danza contemporanea, da Maurice Béjart a Pina Bausch a Amedeo Amodio… Ma allora, anni 80, la danza era un vero oximoron! Ancora snobbata dai più come  un’arte minore e insieme da pochi coltivata come arte d’elite. Pensa che quando scrissi un libro di interviste e riflessioni sull’arte di tre fra i primi coreografi di  allora, Maurice Béjart, Roland Petit, e Felix Blaska ( Corpo teatro danza, ora nella biblioteca del Beauburg di Parigi), un italianista famoso mi redarguì e mise in guardia: Tu, così, vorresti fare carriera accademica? Scordatelo. Gli risposi che nella vita bisogna fare quello che piace, perché viene meglio, e che sono mille le strade che portano al cielo…Da allora tutto ho fatto, tranne che inchinarmi alle regole  verticistiche di qualunque accademismo monosemico…E pensare che ora ovunque si inneggia alla Interdisciplinarietà..! Allora invece, caro Tonino, qualcuno mi propose anche di fare la critica di danza per un quotidiano, ma era nato come gioco, serio e con le sue regole, ma gioco; non poteva diventare la mia vita. Torniamo al libro, a corredo dello scritto avevamo allegato delle splendide foto di scena di Le Pera : le mie, pensa, raccolte in una cartella, me le rubarono tutte durante un trasloco. Raffinato il traslocatore o solo guardone? Non so, certo danzatori e danzatrici tutti erano assai ben disegnati dalle calzamaglie rosa, mentre  alcune fanciulle danzavano proprio a seno nudo…Mi sono rimaste invece alcune foto scattate nel castello di Bari, dopo una serata con Maurice Bejart e il “Ballet du XXe siècle” al Petruzzelli prima del famoso incendio… Ti racconto un aneddoto. Sai che in Puglia si mangiano frutti di mare crudi,quella sera ne offrirono in quantità, visti gli ospiti di eccezione…Qualcuno del gruppo sollevò la questione rischio di epatite : io fifona, e altri tre altrettanto castrammo la gola e mangiammo solo ricci di mare, Bejart si proclamò inamovibile fatalista e ne fece una scorpacciata, molti risero degli scrupoli dei loro amici, per giunta baresi : ebbene, Bejart fu baciato dalla fortuna, noi quattro ci salvaguardammo da soli, tutti gli altri dopo una settimana più o meno si trovarono gialli di ittero …. Fu in quegli stessi anni anche la splendida avventura dello storico Festival della danza di Nervi . Mi ricordo ancora con quale attenzione e gusto mi scelsi in una boutique fantasiosa ( la stessa dove allora acquistava mantelle e altro anche Renato Zero) vestiti e pantaloni di stile orientale da indossare nelle dirette delle serate per Rai tre che era appena nata, sotto la direzione di Fabio Storelli, e che era tutta dedicata alla cultura. Un poco come Radio tre oggi. Nella foto, allegre e gasatissime, belle, Emanuela Giordano, oggi regista teatrale famosa ed io, a presentare le dirette: lei come conduttrice ed io come giornalista esperta. Chissà se nelle teche rai ancora ci sono quelle riprese? Quanto ci divertimmo e che belli quelle danzatrici e quei danzatori…Tutti giovani, spensierati, entusiasti; inconsapevoli che nella nostra vita di viaggi e popoli avremmo incontrato una tragedia globale come quella che stiamo vivendo…

Ciao Tonino caro, dal tre maggio ci mancherà proprio il nostro appuntamento!
Silvana

Giulia Morgani*
DIARIO IN CORONAVIRUS – parte III

GIORNO 31

È passato molto tempo dalle ultime pagine. In realtà il tempo vola. In un attimo è già sera, e non è solo colpa della mia percezione alterata, è che non ho mai avuto un buon rapporto con il tempo.

La notte è il momento peggiore, in cui tutto si ferma. Mi sveglio sempre più spesso, a volte a causa di rumori misteriosi, a volte per assenza di rumori e, tra le due, ascoltare il silenzio è la cosa più terrificante.

Il tempo è volato ma non è solo questo. Mi ha avvolto una stanchezza cronica, una pigrizia sorda, un disinteresse grigio che mi ha impedito di avere pensieri interessanti da ricordare. Sono assuefatta agli innumerevoli decreti, alle ipotesi, alle file davanti al supermercato, alla scortesia, al restare a casa, alle serrande chiuse. Sono assuefatta persino alle morti.

Una sera mi è capitato sottocchio il bollettino del giorno con i morti in crescita. Mi sono meravigliata del numero ancora così alto e ancor di più mi sono meravigliata del senso d’irrealtà che mi ha dato il mio distacco, come se tornassi da un lungo viaggio, ma non è passato tanto tempo e non sono stata altrove, o forse sì. Mi sono chiusa nella mia testa. È che ho smesso di leggere le notizie e non guardo la televisione. Non vedo perché prendere questa brutta abitudine proprio ora. La televisione ti piaga il cervello, basta un telegiornale per andare in piena paranoia.

Il mio distacco si propaga anche ai mei rapporti personali: rispondere alle telefonate, parlare, anche solo ascoltare messaggi vocali, mi costa fatica, fatica fisica, e a volte il suono del telefono mi esaspera al punto da spegnerlo. A chi mi propone una videochiamata rispondo in modo antipatico, in molti si allontanano. Non è snobismo, è che non è facile spiegare che in questo periodo è come se avessi mascella e lingua di piombo e muoverle per parlare è un’impresa sfiancante.

Per i social la questione è diversa. Se li apro mi viene la nausea, non è un modo di dire ma una nausea vera. Non mi perdo niente di sicuro. Una delle ultime volte si stavano accanendo contro uno che indossava la mascherina FFP3, fino a poco fa ambitissima e ora considerata “egoista”, messa al bando da quelli che hanno sempre un’etica per tutto, anche per le mascherine.

Comunque ad alcuni messaggi e a qualche telefonata rispondo, quelle sono le mie finestre sul mondo. A tutti chiedo “che si dice lì fuori?”.

La sensazione che mi lascia tutta questa assurda situazione è quella di occasione persa, e non parlo di quello che avrei fatto se il mondo si fosse conservato normale, del lavoro che ho perso, dei soldi che presto finiranno, parlo di questa quarantena che è essa stessa un’occasione persa. Avrei potuto creare, fare un sacco di cose e invece sono giorni che sono immobile.

E’ dalla crisi, dalla privazione che parte l’evoluzione; nella crisi nera ci sono ma non riesco a entrarci abbastanza. In linea con il mondo, che è già oltre e guarda avanti per tornare indietro a quello che era.

Si pensa alla fase 2 ma siamo ancora in piena emergenza.

GIORNO 36

Ero in fila, la solita fila interminabile intorno ai palazzi dei supermercati. Inviavo e ricevevo messaggi sghembi, di quelli mandati con i guanti che confondono i polpastrelli. Ho sentito un rumore sopra la mia testa e ho visto una bambina che andava instancabile su e giù per il balcone in sella a un triciclo.

Non so perché ne sto parlando. Non sono una sentimentale con i bambini. Non m’inteneriscono né mi strappano un sorriso. Li invidio perlopiù. Ma qualcosa mi ha fatto fermare su di lei. Ho pensato a quanto devono sembrarle strani tutti questi adulti che da un giorno all’altro si mascherano e si mettono uno dietro l’altro sui marciapiedi, o forse non ci fa nemmeno più caso, la curiosità è già diventata abitudine.

O forse gioca semplicemente a schiacciarci la testa con il suo triciclo.

GIORNO 37

Stanotte ho dormito male. Mi sono svegliata che il cuore mi schizzava via. Quel rumore. Ritmico. Qualcosa che colpiva il muro, proprio la mia parete. Leggero ma imperturbabile.

Ho ascoltato il vento. Non ce n’era a giudicare dai campanelli della vicina che rimanevano silenti. Mi sono coperta con il piumone e l’ho abbracciato rifugiando la testa sul suo petto.

GIORNO 40

In giro per il quartiere noto nuove serrande aperte. Poche per la verità. Non avendo altro da fare decido di curiosare. In uno, nemmeno mi fanno entrare ma mi lasciano fuori a interagire con la commessa che vedo attraverso la vetrina e che mi parla in differita, con la voce metallica filtrata dal piccolo altoparlante attaccato sulla porta. La cosa è troppo estraniante, così saluto con la mano e vado al bazar cinese che ha appena riaperto. La merce in vendita è quasi tutta sullo scaffale della cassa. Cartelli e barriere di scotch indicano che quella sugli scaffali e appesa al soffitto è merce non in vendita. Non ne capisco il senso.

Nel cercare una spiegazione m’imbatto in un articolo che anticipa, o ipotizza?, le nuove disposizioni del prossimo futuro tra cinema e teatri chiusi per altri nove mesi (prego perché nel frattempo non scompaiano dai nostri desideri), ristoranti piegati a regole che temo ne annienteranno molti (di cui l’unica cosa a cui do il benvenuto è l’abolizione dei tavoli sociali) e spiagge con divisori in plexiglass e bagnanti in mascherina (che decisamente mi tolgono la poca voglia che ho di andare al mare).

Scorrendo le notizie trovo quella che lancia la linea di mascherine firmata da un famoso stilista.

Il mondo ha cambiato faccia ma non sostanza, in alcuni aspetti resta ancorato al suo vuoto.

M’immagino la tintarella di moda quest’estate: i volti abbronzati per metà e i musi tutti bianchi. Contro il segno delle mascherine i più audaci magari daranno scandalo con un topless facciale.

Fantastico sui canoni di bellezza sconvolti: rifarsi e truccarsi le labbra sarà inutile e allora ci gonfieremo le sopracciglia e le truccheremo con il rossetto.

Potrebbe anche essere.

Chissà.

*Il romanzo di Giulia Morgani “IL PAESE DALLE PORTE DI MATTONE” (HarperCollins) è disponibile da subito in versione ebook e dal 7 maggio in tutte le librerie.

Emanuela Zurli

FUGA DALLA SCRITTURA

(15 aprile 2020, sesta settimana di emergenza da Coronavirus)

Il caldo bacio dell’estate alita intorno a te, preme sulla tua pelle umida, si insinua nella quiete concava della tua mente. Respirano sommessamente gli alberi del viale, mentre il fiume si gonfia, sonnolento, sotto la luce abbagliante del sole. Ronzii opachi si dilatano nell’aria: sono gli echi lontani del pomeriggio appena esploso. Un portone si apre a fatica riversando sul marciapiede assetato il silenzio pesante del buio cortile. Calcati da passi sporadici i resti quotidiani della strada aderiscono all’indolente cedevolezza dell’asfalto. Sulla finestra dell’ultimo piano cala una tenda: qualcuno cerca un po’ di fresca oscurità.

Controlli ancora una volta i lacci delle scarpe. Cominci a correre. Una lieve brezza scivola sulla pellicola lucida della tua epidermide, appena trattenuta dalla tenera peluria d’alga. Sono lisci i tessuti delle tue membra, tesi su quello spazio turgido, denso, palpitante, che si sta dilatando dentro di te e si fonde con l’aria che ti accarezza, con le foglie che ti bisbigliano intorno, con l’acqua che ti lambisce – il fiume è alcuni metri sotto di te, ma ti sembra di sentirlo insinuarsi tra le dita dei piedi, avvolgersi intorno alle caviglie, salire fino ai polpacci. Ti immagini dilatare le pupille come per liberarle dal velo che ti offusca lo sguardo, schiudere le labbra come fossero un varco di seta, ti immagini vigilare sui tornanti che ti conducono il suono, fin nelle volute più nascoste, nelle spirali più sinuose. Immagini di vedere, narrare, di nuovo attentamente ascoltare.

Immagini, mentre ti addentri nel fiato caldo delle ore più pigre, provocandole. Acceleri: è quel torpore estraneo che vorresti scuotere, penetrare, debellare. Lasci che ti inghiottisca, invece, mentre gli sacrifichi l’imponderabile agilità del tuo stesso essere. Nella corsa leggera ti lasci il corpo alle spalle, e con il corpo un fermentare inarrestabile di volti, pensieri, voci. Sono i fantasmi di altrettante figure, luoghi, situazioni, che da tempo domandano ospitalità presso di te, che chiedono un po’ di spazio in cui esprimersi, in cui potersi dare. Avevi creduto di potertene curare. Cos’è, allora, che ti turba? Troppo vaghi, ancora, troppo incerti per poterli valutare (è dentro di te soltanto che si possono formare), troppo discreti per poterli rifiutare, troppo inquietanti per poterli accettare, li consegni all’afa della città deserta, all’oblio dei suoi cortili desolati, all’oscurità delle sue case abbandonate forse per l’estate. Basta respirare più profondamente, tirare in dentro ancora l’addome ed appiattire bene il torace. E poi nient’altro: ci penserà la corsa a farli evaporare.

Il cronometro segna i secondi, i minuti, le ore. E porta via con sé mondi, storie, catene di parole. La velocità aumenta. Ancora, e poi ancora. E con essa dilegua tutto, insieme alla tua stessa fuga. Rimane solo la quiete opaca della città deserta, con la sua afa, i suoi cortili desolati, le sue case abbandonate forse per l’estate, la prima dopo il coronavirus. E rimani tu, che non l’hai voluto raccontare.

Lo sguardo torna sullo schermo del computer. Sul calendario, nel riquadro di sabato 1 agosto, a destra del pallino blu di Google, leggo: 8:30AM Inizio. Mancano centosette giorni, quindici ore e nove minuti alla data alla quale ho nuovamente rinviato l’inizio del racconto sui volti mietuti dalla pandemia. Raccolgo interviste da mesi ma so già che non comincerò, che anche quel giorno non scriverò, che fuggirò di nuovo, correndo a perdifiato per le strade, i vicoli e le piazze della città disabitata, lungo salite e discese, piste ciclabili e percorsi accanto al fiume. Correrò e ancora correrò fino a quando non avrò dimenticato, fino a quando anche il più piccolo ricordo del maledetto virus non sarà svanito.

Cetta Pertrollo
Eppure è Primavera
Diario di una quarantena – 16 aprile


Ieri sono uscita dopo molti giorni che non lo facevo. Con la mia brava certificazione nella borsetta e, finalmente, una mascherina regolamentare, più protettiva rispetto a quelle chirurgiche fortunosamente trovate da mia figlia e da me comperate sul web da un’azienda laziale (e scoprendo poi che tutte le istruzioni erano in lingua cinese).
Sono dunque uscita con maggior sicurezza. E infatti non avevo l’affanno. La giornata era bella, piena di sole. E io a controllare cosa era successo al mio quartiere e poi un po’ più in là andando verso San Pietro,dove non sono voluta arrivare, non sia mai, troppa aria, troppi virus, troppa camminata, troppi passanti.
In effetti di passanti ce n’erano davvero tanti e non tutti civili. Moltissimi senza mascherina, altri a parlare al telefonino, altri con la mascherina portata come una collana, per cui la passeggiata è stata una danza, un minuetto, conseguente all’avvistamento degli imbecilli (egoisti?Onnipotenti?), spostandomi da un lato all’altro della strada quando ne avvistavo uno, scendendo e poi risalendo dal marciapiede, lasciando il passo ai pochi bardati di tutto punto come me, pur di rispettare i due metri di distanza, avendo l’occhio acuto e attento come i cacciatori nelle battute solo che io puntavo gli umani e non gli uccelli o le lepri.
Il controllo della compagine sociale ed economica è andata bene.

Ho visto i miei ristoranti preferiti chiusi ma con un bel cartello fuori (“ Ti portiamo il pranzo a casa. Chiamaci qui”) , ho visto i negozi dei cellulari in piena funzione ma con file di attesa tali da scoraggiare qualsiasi acquisto e riparazione, ho visto i negozi di elettronica desolatamente vuoti, apertissimi i forni trasformatisi in ristoranti e bar ( si può fare?), ho visto le tintorie aperte e deserte, ho visto molte automobili, molte più del previsto. E, soprattutto, in giro, ho visto molti anziani, alcuni dichiaratamente tali per postura, curvatura di spesa, fatica nel passo e mestizia nel volto, tutti con i loro carrelli della spesa a strascico, tutti beneducati, col volto coperto da maschera e occhiali e le mani con i guanti mentre accanto a loro sfrecciavano i giovani imbecilli di cui sopra.
Sono rimasta di buon umore ma, ad ogni passo, il buon umore sulla via del ritorno (a viale Giulio cesare ci arrivo lunedì prossimo con la scusa della Feltrinelli riaperta) lasciava il posto ad un progressivo malumore poi divenuto umor nero quando a casa ho ascoltato le parole della Presidente europea che, con stile prettamente nordeuropeo – lo stesso che fa firmare moduli di rinuncia alle cure ospedaliere agli ultra sessantacinquenni – non si peritava di caldamente raccomandare, col tono di chi chi fa presagire provvedimenti legislativi – agli anziani di restarsene a casa fino a dicembre, certo per non limitare ai giovani la facoltà e la libertà di scorrazzare dappertutto fiatando, respirando e parlando senza mascherine.

Un vecchio non ha molto da perdere, pensano e di conseguenza si comportano. Gli restano pochi anni di vita e può ben starsene recluso in casa. Al vecchio può essere negata la possibilità di godersi la sua seconda casa acquistata con anni di lavoro, di fatiche e di risparmi. Di proseguire le sue attività culturali o ricreative o sociali o assistenziali. Di godersi figli e nipoti. O, molto più semplicemente e banalmente osservare all’aria aperta marina, campestre, montana o cittadina, le stagioni che cambiano, il lento scivolare dei mesi e dei giorni da giugno a settembre e poi da ottobre a dicembre. Un vecchio non ha gli obblighi di tempo del lavoro dei giovani e di anni ne ha pochi davanti a sé. Tutta la vita gli hanno inculcato che dopo, dopo il lavoro, dopo la pensione, sarebbe arrivato il tempo di godere appieno del proprio tempo, di andare al cinema, a teatro, a ballare, in crociera, ovunque la ritrovata libertà lo avrebbe portato.
Invece no. Che si tolgano di mezzo (e penso male, malissimo, quando vedo che il vaccino lo testano solo nella fascia d’età di gente robusta che va dai 18 ai 55 anni il che vuol dire che si dà per scontato che non sia necessario valutare e calcolare gli effetti avversi sugli anziani).
Mi sono informata dalla mia amica Bruna se a Bocchignano sono arrivate le lucciole e mi pento di non aver approfittato di tutti i week end della mia vita per andarci (se mai uscirò indenne da questa pestilenza difenderò strenuamente le mie lunghe giornate in Sabina dal giovedì al lunedì successivo).
Mi ha detto che ancora no. Ho insistito con lei (ma ci sei andata la sera verso le nove, intorno alle mura dove la vegetazione che hanno barbaramente tagliato sarà rifiorita offrendo ottimi ripari al timido, luminoso, esercito?). Ha detto di no. Ha detto che mi viene a prendere per portarmi a vederle quando arrivano. So già che non sarà possibile almeno fino a maggio e le lucciole mica mi aspettano. Ha detto che mi manda una foto e un video non appena le avvista.
Le lucciole della mia casina. Comperata con Elio e con lui vissuta, la mia casina arredata con tutte le eredità domestiche della mia vita, l’unica che è davvero mia perché frutto del mio lavoro.
Mi mancano le lucciole come mi manca l’odore di mia figlia e quello di mio nipote così simile a quello di Elio
Ma la Presidente questo non lo sa.
Forse non le si smuove il sangue. Forse non sente gli odori.
Eppure è Primavera.

Franco Casadei
Un uomo solo in San Pietro

(venerdì sera, 27 marzo 2020)

Piazza San Pietro all’ora del vespro

sottratta alla maestosità consueta,

l’abbraccio del Bernini ad un deserto.

Nel silenzio della solitudine

un uomo prostrato su un altare,

un Papa che prega, solo, sul sagrato,

la piazza di Roma spettrale e immota

un cielo plumbeo che rimanda

al clima desolato del Calvario.

Un’istantanea tramandata ai giorni della storia.

Da settimane navighiamo fra onde indomite

davanti a un nemico che ci scardina la vita,

sperduti su barche alla deriva

come gli antichi naviganti a rincorrere le stelle.

Il Papa col passo malfermo e assorto

lo sguardo smarrito fra riverberi di fuochi

la voce turbata sulla piazza vuota

e pur gremita di un popolo mancante.

La paura si fa grido: Signore, ci sentiamo perduti!

Ma come a Tiberiade – un miracolo –

Dio aleggiava nel sussurro del silenzio,

si avvertiva Dio nell’aria davanti all’ostensorio

dentro il dramma di una sera senza folla.

 

E il grido ripetuto: Maestro, salvaci!

Il Papa ha varcato quel silenzio,

ha baciato i piedi a un crocifisso

che, come un segno, lacrimava

la pioggia che gli irrigava il volto.

Un brivido di speranza ha attraversato noi

alla ricerca di un innesto di luce

per la nostra umanità scossa e ferita.

Nello scoramento di quel grido

abbiamo percepito, rabbrividente,

qualcosa di sublime che incombeva.

Che ne sarà del nostro viaggio?

Il secondo millennio aveva bisogno

di un nuovo imperatore e ha incoronato un virus.

Certo, il coronavirus incute panico e paura,

ma ciò riconferma che, pur confutando Dio,

senza idoli nessuno sopravvive!

 

A noi moderni piace che tutto sia sotto controllo,

presunzione che si ripropone come un inganno:

basta un nefasto invisibile per mandare tutto all’aria.

Chiuse scuole fabbriche aerostazioni e chiese,

ore di fila per saccheggiare i grandi magazzini,

barricati in casa come ci avessero internati.

Assaliti da una insicurezza esistenziale

esorcizziamo l’imprevisto, non lo si accetta

e montalianamente angosciati ci chiediamo:

che ne sarà del nostro viaggio?

Sempre più inconsapevoli della nostra finitudine

ci assale il timore di un ospite inatteso.

Non ci è più familiare la morte, va rimossa.

L’unico antidoto alla paura che ci assale

è tenere aperta la domanda leopardiana

sulla vita ̶ Ed io che sono? ̶ cercando

una risposta di senso al destino che ci attende.

Può esserci di aiuto, nel silenzio delle case,

riascoltare il suono delle campane

ora che le nostre chiese sono vuote.

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Lucio Castagneri, Resurrezione, olio su tela

Lucio Castagneri
XXIV LA DANZA DEL DERVISCIO

Mentre gli veniva da ridere in cima alla scalinata del tempio di Asklepio, facendosi buio e dando giravolte come un danzatore derviscio, ascoltava la musica, come se la stesse suonando lui stesso, e cantava ripetendo le stupidissime parole della famosa canzone, Woolly Bully, che era il nonsense spensierato di quegli anni quando non c’erano pestilenze, ma solo guerre e stragi quasi dovunque, e andava per il meglio e i soldi correvano da tutte le parti. Ad ogni giravolta gli appariva da una parte la struttura di marmo bianco, imponente del santuario, il colonnato solenne che chissà poi gran cosa doveva sostenere se non il tetto, e poi la distesa ampia a perdita d’occhio verso oriente, insomma in direzione di Cnido, e a Borea la sagoma della costa di Alicarnasso, già immersa nella notte. Qualche fuoco tuttavia, per essere la distanza di sole quindici miglia marine, rompeva il buio, ed era di sicuro il faro all’imboccatura del porto militare che illuminava un tratto dell’arsenale e della fortezza romana, e poi quello più piccolo, ma dal magico senso spirituale, che splendeva in cima al pinnacolo del Mausoleo.

Ad ogni giro Kritos si sentiva prendere da una commozione nuova che nessun discorso o trucco magico di Ermogene gli aveva mai procurato. Solo davanti all’universo nero, dove sapeva riconoscere solo alcuna delle costellazioni, tanto per orientarsi, aveva di che riflettere sul perché del rivolgersi degli anni e delle stagioni, mentre il sole, la luna e le stelle facevano da contorno, come un gentile ma satiresco, comico coro danzante su una musica c1he non poteva essere quel dannato banalissimo Woolly Bully che gli risuonava in testa.

Kritos aveva passato da un pezzo i confini convenzionali del tempo a senso unico, e quindi sentiva negli orecchi musiche anche d’altri tempi futuri che per ballare andavano benissimo a seguire la freccia di tempi dionisiaci, suvvia: il minuetto lo annoiava a morte. E mentre girava su se stesso, e un lieve affaticamento si accompagnava a un nuovo ardire verso l’imbocco del tunnel, prese piano a perdere quel residuo di conoscenza che ancora gli rimaneva sospeso tra la terra, il cielo, il mare e la vaga linea d’orizzonte che ancora appariva ad occidente in direzione delle isole.

In fondo era tutto lì, immergersi in quella linea che non era né cielo né mare, linea impossibile perché inesistente, eppur percepibile.
“Questione azzardata immergersi in qualcosa che non c’è” si disse Kritos, ma come aveva sempre rischiato di suo, ne venne premiato, perché si sentì sciogliere la forza dalle ginocchia, come ai supplici scendendo a poggiare le mani e la fronte per terra, e nella sensazione triste della più profonda umiliazione di veder inutili le sue giravolte dervisce, ebbe chiaro che qualcosa stava succedendo, e che per fare quel passo decisivo doveva aver abbandonato quel che credeva importante, anzi essenziale, quel se stesso dello specchio, che s’era non rotto, ma dissolto. Doucement.
Negli occhi guariti e rinnovati del piccolo Ilaros qualcosa Kritos aveva compiuto, cosicché non era più lo stesso Kritos di prima, il terapeuta, aveva perso quel ritmo di buffoncello e adesso non sapeva come farne a meno. Non era forse che scherzando aveva sempre tenuto a bada le sue paure? Come quel giorno che Perifane gli aveva chiesto se la notte aveva sentito il terremoto, che l’avevano sentito tutti e la città intera si era svegliata di soprassalto, ma lui no, ed era vero, a lui non lo svegliavano neppure le trombe e i tamburi di guerra.
Quello che stava accadendo a Kritos era né più e né meno di quel che accade a chiunque stia per attraversare la porta dei sogni, e quindi sapeva che non c’era nulla di cui preoccuparsi, e diede ampio spazio al suo sentimento curioso, tale che lo aveva reso incosciente del pericolo, pure quando andava a fare lo sbruffone di fronte ai suoi maestri, o alla folla sanguinaria di Meropis. Adesso non c’era alcun maestro, eppure di cose grosse ne aveva fatte, ma solo per ridare la vista ad Ilaros, il ragazzino cieco, aveva impegnato qualcosa di un amore nuovo, forse solo curiosità di sé, a vedere se ne era capace, ma ad ogni modo sapeva di rischiare tutto quel che aveva, cioè la sua vista stessa o addirittura la vita. Un eroe.

Anche se uno non ci crede non s’invocano invano gli dèi, perché quelli lì sono molto suscettibili, e giù un’altra risatina del suo solito, ma stavolta gli si spense in gola, mentre il gorgo oscuro lo afferrava, come accadeva a tutti in questi casi, ed aveva già sperimentato anche lui in altre occasioni. Questa volta era lucido, sapeva che era solo uno spostamento, un viaggio, ma senza segnali di sorta, un pò come Ermogene quando navigava di notte sul mare senza stelle nel cielo, né boe di segnalazione, vere o fasulle che fossero, né pesci volanti, né streghe, o nottiluche fosforescenti, e come compagno quel simpaticone dell’archeologo Georghis Keraunopoulos, che aveva conosciuto come persona per bene e se doveva dire una stupidaggine che teneva sulla punta della lingua non si faceva pregare.
Un senso di oppressione si stava accompagnando a visioni intermittenti di luci colorate, a sprazzi, che sapeva bene essere un residuo assolutamente ingannevole come lampi del passato, lichtung, sulla terra dei vivi, – e almeno questo da Ermogene lo aveva capito, cioè di quelli che si credono vivi -, e quindi si andò a rilassare nel pensiero dolcissimo di dover attraversare il buio assoluto della rinascita attraverso sua madre. Un’altra, si capisce, perché ad ogni giro di giostra cambiava tutto, anche la madre, se doveva essere in fondo sempre la stessa storia, in tante diverse salse.

Era dunque Kritos come disteso su di un letto nero ed avvolto di buio, quel dio oscuro che sotto il nome di Kaos era da alcuni considerato come il principio di tutte le cose, ma gli balzò nella mente un dubbio angoscioso: era il Kaos maschio o femmina? Si sa che anche nei momenti più terribili della vita la mente umana può ritrovarsi con dei pensieri che i francesi chiamano simpaticamente bêtize, e comunque si diede la sua risposta che se era maschio si trovava dentro i testicoli di suo padre, verbatim nei canali seminali, e altrimenti si stava giacendo incestuosamente con sua madre, come ben disse Giocasta ad Edipo: “Non ti turbare, Edipo, tutti gli uomini almeno una volta hanno sognato di giacere con la propria madre”. * Terrore estremo. Ma questa volta la risatina era liberatoria e si lasciò proseguire il viaggio nel tunnel. Di sicuro le dolcissime streghe sarebbero comparse quando meno se lo aspettava. O l’uomo nero da uccidere. O i compagni della palestra che sapevano sempre ridere e scherzare.

* Sgombra il timor delle materne nozze. Con la madre giacer credean già molti, e sogno fu. Vive suoi dì felice quegli appo cui son queste cose un nulla. (SOFOCLE, F. Bellotti).

Mariù Safier
Giornate in ordine sparso 4

Nelle ultime settimane, non si parla d’altro che di anziani, della loro fragilità, di quanti ci hanno lasciato per la cattiva gestione di luoghi che avrebbero dovuto essere oasi di benessere e sono diventati campi di Pace. Questo sta spingendo ognuno a fare i conti con la propria età anagrafica: si cominciano a calcolare gli anni, sorpresi che siano diventati di colpo, tanto pesanti. Prima non ci si faceva troppo caso, era un dettaglio che tornava in mente quando qualcuno induceva a notarlo, magari per un confronto vantaggioso, oppure la forzata esibizione, la scadenza prossima di un documento.

Adesso, i dati impietosi sciorinati dai media, impongono la realtà: il tempo è agli sgoccioli, in un paese che prima appariva felice di esibire la longevità dei suoi abitanti, ora diventati merce avariata, con il limite massimo stampato sulla carta d’identità, destinazione terra consacrata.

A prescindere che il termine, è universalmente noto, arriva per TUTTI, la Morte sembra gozzovigliare sul nostro cancello d’uscita, la Paura. Dell’ignoto, della fine.

Le coscienze, nel corso dei secoli, non sono cambiate, tra presente e passato, i dubbi rimangono gli stessi. Al continuo lavaggio del cervello, o ci si ribella, facendo gli scongiuri, o ci si spalma sul divano, in attesa trepidante dell’Evento.

Beato colui che ha vissuto giorni migliori, a noi spetta un traguardo da Coppa dei Campioni.

“Il silenzio è la Parola di Dio” scriveva il poeta persiano Rumi, mistico vissuto intorno al 1200. Per quanto io tenda l’orecchio, non lo sento, forse parla in una lingua sconosciuta, certo incomprensibile. Oppure sono diventata sorda.

Ti lavi le mani e aspetti il domani. Rifletti:

nella vita molto hai corso

basta però il brutale morso

di un virus in volo, a dotarti di ali.

A staccare la spina, resterai da solo.

Lo slancio virtuale

non permette di fuggire dal male.

Senza conoscere il tempo né il luogo

intuisci che ormai davvero manca poco.

Pazienza, la terra si è ristretta

è talmente infetta che è meglio sconfinare

forse sulla Luna, avremo maggior fortuna ….

La foto che ti mando, l’ho scattata al tramonto da Lungotevere dei Mellini, a Febbraio, quasi davanti alla Fuis.Sono le chiese di San Girolamo dei Croati, a sinistra e la cupola colorata di rosa dai raggi del sole, è dedicata a San Rocco, protettore di flagelli quali la peste e le epidemie in genere … ora sembra profetica.
San Rocco e San Girolamo da lgt Mellini

Roma, Le chiese di San Rocco e San Gorilamo da Lungotevere dei Mellini, 33/A sede della FUIS

Salvatore Rondello
STARE TUTTI IN CASA

Sono passati

Tanti giorni

Anelando di

Respirare libertà

Evasa dal chiuso.

Troppe persone

Unte dal destino

Temono il virus

Trasmesso da luoghi

Ignoti nel percorso.

Intanto soffro,

Negli spazi

Comodi, nell’ immutato

Adagiarsi di noia,

Solo, nel caro

Amore per la vita.

Roma, 17 agosto 2020

Franco Carlo Ricci
Spunti di riflessione per governanti o aspiranti tali
durante la pandemia coronavirus

Lo so che non si può e non si deve mai generalizzare; si rischia di allontanarsi dalla verità ed essere considerati poco intelligenti. Qualche generalizzazione, però, si è pur costretti a fare per un minimo di orientamento nelle proprie azioni. Le modeste considerazioni che vorrei proporre, su temi che mi stanno a cuore, mi sono state sempre ben presenti; in questa lunga, forzata e non infeconda clausura “coronavirale”, ho voluto verificarne il valore.

Etica.

Da molti anni sono convinto che numerosi problemi di varia natura che angustiano il mondo moderno (ma non solo) sono legati alla volatilizzazione dell’Etica. Senza principi etici è inutile, ritengo, approvare nuove norme che regolino i concorsi universitari, le nomine dei primari ospedalieri, gli amministratori di enti pubblici e privati e chi più ne ha più ne metta. Non serviranno a nulla perché logiche, spesso inoppugnabili, di diaboliche menti riusciranno sempre ad eluderle per far primeggiare corrotti e inetti.

I Parlamenti di vari Paesi potranno pur affannarsi in questa vana pratica; le sorti del pianeta, però, saranno sempre più compromesse se le azioni e i comportamenti soprattutto di quanti hanno posizioni apicali nelle istituzioni continueranno a non ispirarsi a principi etici.

Ci si potrà chiedere in che cosa consista l’Etica. Non è facile dare una risposta se non si è filosofi. Non dovrebbe essere difficile, però, individuare alcuni fondamenti universali ai quali si rifanno tutte le religioni, le fedi laiche, le istituzioni, per non parlare delle coscienze degli umani quando vengono lasciate libere di esprimersi.

Basterebbe richiamare alla memoria quello che si ascoltava in famiglia, in chiesa, nelle aule di tribunale (“Dal dì che nozze e tribunali ed are”! Cantava il Foscolo), nei nobilissimi programmi elettorali dei politici! Le famiglie, le chiese, i tribunali, persino la scienza sembra però, purtroppo, che non siano più totalmente affidabili e credibili per la frequente e diffusa corruzione dei loro esponenti di spicco. Ne consegue che nel mondo si ha l’impressione che prevalgano corruzione e degenerazione, con grave disorientamento e danno soprattutto dei giovani, dei “poveri di spirito” e di cultura che, senza validi punti di riferimento, rischiano di smarrirsi nella giungla della vita.

Globalizzazione, economia e ansia da prestazione del Pil.

Tutti hanno creduto (o ci hanno fatto credere) nell’importanza della globalizzazione, da vari punti vista. Che aspetti positivi ne siano effettivamente scaturiti in vari ambiti, che non è il caso di richiamare ora, è di tutta evidenza. Desidererei, però, limitarmi a richiamare l’attenzione ad almeno un aspetto negativo che credo comprometta tutti gli altri; mi riferisco alla mitizzata crescita continua del Pil, ritenuto unico garante del benessere di tutta l’umanità. Non si è pensato, però, che la dittatura di tale parametro, squisitamente quantitativo, si fonda su un grave errore concettuale.

Per meglio esprimere il mio pensiero vorrei ricorrere alla metafora di una disciplina sportiva, il salto in alto (diciamo senz’asta). Gli atleti pongono molto impegno nei continui, defatiganti allenamenti e compiono grandi sacrifici per cercare di migliorare record e porre sempre più in alto l’asticella. Ogni tanto si diffonde la straordinaria notizia che un campione ha superato il record mondiale di uno o due centimetri. Non ci vuole un genio per capire che, per quanto si allenino, gli atleti non potranno continuare, all’infinito, a tentare di alzare l’asticella. Non saranno mai in grado di arrivare a saltare cinque metri perché è umanamente impossibile. Sarà necessario, presto o tardi, prendere in considerazione la prestazione atletica non soltanto dal punto di vista quantitativo ma qualitativo, valutando non l’altezza del salto ma la sua qualità, il suo stile.

Le stesse considerazioni dovrebbero valere, penso, per la crescita del Pil che incita l’essere umano a un consumismo smisurato e incosciente, in ogni ambito, con la conseguenza di mettere a serio rischio le risorse del nostro meraviglioso pianeta e nuocere alla nostra salute.

Quando ci si deciderà a pensare alla qualità, appunto, della nostra vita?

Cultura

Mi sono sempre chiesto se la sistematica svalutazione del ruolo delle scuole di ogni ordine e grado, delle Università e dei Centri di ricerca, il ridimensionamento dei fondi concessi alle istituzioni artistiche, da parte di governanti di ogni schieramento politico in molti angoli del pianeta, sia dovuta a cecità e ignoranza (culturale appunto) o a perverso disegno politico. L’abbattimento dei valori della cultura, in ogni caso, quali che ne siano le intenzioni dei promotori, ha lo scopo primario di sottrarre ad ogni individuo le opportunità e gli strumenti per crescere come persona consapevole dei propri diritti, libera, con autonoma capacità di giudizio.

Il vantaggio indubbio, per gli autori di tale misfatto, è la certezza, o almeno la speranza, di essere credibili e affidabili anche quando sono disonesti, ipocriti, fanno promesse che sanno di non poter onorare, propalano falsità, o “fake news”, come si usa dire oggi, per continuare a governare indisturbati.

Regioni (problema particolarmente italiano)

Sono convinto che molti mali italiani (corruzione, dilapidazione di denaro pubblico, accentuazione delle divaricazioni tra nord e sud) scaturiscano, anche se non certo totalmente, dalla istituzione delle Regioni. Le prestazioni sanitarie in particolare (per quantità, qualità e costi) da anni destano scandalo, perché molto diverse da regione a regione con la conseguente, grave discriminazione di cittadini con gli stessi diritti e doveri.

Nei nostri giorni, con la pandemia “coronavirus”, si è manifestato un altro serio problema; dal punto di vista sanitario, infatti, non soltanto vengono prese decisioni diverse da regione a regione ma anche tra regione e stato, con inaccettabili conseguenze per la salute pubblica.

Credo che dopo il superamento dell’attuale crisi, il Parlamento, quanto prima, debba riaffidare l’assistenza sanitaria allo stato centrale.

Stefano Morabito
Nostalgia dei tempi passati

Aprile.

Ormai sono più di quattro mesi che la pandemia imperversa nel mondo e ancora rimangono aperti moltissimi interrogativi. Non abbiamo certezza del principio che ha generato questo caos, non sappiamo quanto durerà e soprattutto ci spaventa affrontare un futuro pieno di novità e limitazioni. Una realtà che diventa quotidianamente più tangibile è, invece, quella di un’economia al collasso. I primi a farne le spese sono le cosiddette “ultime ruote del carro”, ossia i cittadini la cui condizione era problematica ancor prima della crisi. Un’intera categoria che abbraccia lavoratori in nero o estremamente precari, gente che ha sempre cercato di sopravvivere alla giornata con mezzi di fortuna e tanti piccoli imprenditori che versavano in cattive acque.

Il governo certamente, in buona fede, sta facendo il possibile per affrontare l’emergenza. Con estremo rammarico, costatiamo che tutti i provvedimenti presi fino ad ora non sono sufficienti. Basta seguire un tg qualunque per imbattersi in uno dei tanti servizi su poveretti che non riescono ad andare avanti o imprese che probabilmente non riapriranno più.

Manca un aiuto concreto che permetta il risanamento della situazione. Sotto quest’aspetto, per il momento l’Italia non ha fatto grandi passi avanti. Mes, Eurobond, ecc, i politici si scannano su quale provvedimento perseguire. Eppure questi sono strumenti finanziari, per la portata della crisi bisognerebbe applicare un’azione di politica monetaria. Alcuni economisti parlano della teoria di monetizzazione del debito. Questa tesi, che sembra molto interessante, si riferisce ad un soggetto prestatore di ultima istanza, cioè un soggetto che in caso d’emergenza crea il denaro per comprare il debito e subito dopo lo fa sparire. Un po’ come avviene negli Stati Uniti, quando interviene la Federal Reserve.

“Eccolo qua, un altro economista improvvisato che propone la sua teoria!”

Il mondo è interessante perché ognuno può informarsi ed avere una propria opinione. Meglio averne una personale che seguire la scia degli altri. Siamo in uno dei Paesi più corrotti al mondo e questo non è un mistero. Anni ed anni di malaffare, soprattutto in politica, lo hanno svenduto e impoverito, facendolo passare da una posizione dominate a quasi di sottomissione. Non bisogna dimenticare che siamo anche stati il centro dell’orbe e della cultura, nei momenti difficili ci siamo sempre rialzati dando il meglio di noi stessi. Seneca, Cesare, Dante, Leonardo, Michelangelo, potremmo riempire pagine solo con i nomi delle grandi personalità che hanno popolato la nostra terra.

In questo clima d’imminente catastrofe dobbiamo essere coesi, riscoprire l’eccezionale natura e forza che ci ha sempre contraddistinto, mettere da parte gli interessi personali e cominciare a costruire una nuova società sulle orme del glorioso passato.

Vincenzo Ruggero
Sogno? No , sono desto…

“Il piazzale del supermercato Elite sulla Nomentana è enorme e quadrettato da comodi posti-auto, fluido fra gli scaffali per una clientela perennemente di fretta. Questa mattina, però, la fila arriva oltre i cancelli sulla strada, con i nostri visi attenti e fissi sul virusometro.

Eh sì, perché in tempo di pandemia la strumentazione è importante, non solo per informare, ma anche per evitare il peggio. Tale sofisticato dispositivo ad esempio, posto a mo’ di lampione su un alto palo ben in vista, tipo semaforo stradale mutevole nei colori verde-giallo-rosso, dimostra la concentrazione per metro cubo d’aria del Coronavirus: si passa da una relativa tranquillità all’allarme severo, quando esso comincia a lampeggiare in rosso insieme ad un’assordante sirena. Ma non è tutto. Per i palati più esigenti fra noi clienti in noiosa attesa, ancora sul piazzale c’è un maxi-schermo con varie icone colorate, simile al desktop di un PC, che riporta in real time i dati socio-economici del pianeta: il pilometro (in migliaia di miliardi di dollari del PIL), il jobometro (in milioni di disoccupati), l’Indice_ko (il rapporto percentuale di deceduti/contagiati da virus). Ma all’improvviso il globo in vetro del virusometro, sulla punta del lungo palo, comincia a girare e lampeggiare minacciosamente in rosso entro il rumore assordante della sirena. Si sa, le regole sono ferree: in verde, normalità (si fa per dire), devi stare a due metri dal vicino; in giallo, allerta, a quattro; ma in rosso, allarme, si scappa! senza esitazioni, perché le autorità di Polizia sanzionano i trasgressori, con tolleranza zero …

E’ un parapiglia generale, tra urla di paura ed imprecazioni, per prendere l’auto dal parcheggio senza scontrarsi con qualcuno, sennò poi vàttela a pesca con l’Assicurazione… “

Stamattina, di Pasqua, mi sono svegliato bruscamente tutto sudato (per il piumino? leggero ma di troppo nel tepore di questi giorni?), stranamente irrequieto e con i capelli tutti arruffati, quasi comico davanti allo specchio. Cos’è? Ma sì! ho capito. È stato quel sogno di stanotte, terribile. Correvamo come pazzi a prendere l’auto e tornarsene presto a casa: l’allarme rosso, la sirena, il tabellone, le liti per uscire dal piazzale: sembrava tutto vero…

Questa Pasqua fuori da ogni misura prevedibile sarà di grande solitudine, io e mia moglie, le nostre abitudini e qualche telefonata ad amici e parenti a farci compagnia, a pranzo con la fedele colomba per augurio. Il silenzio che regna fuori è surreale ma immanente, una plastica sensazione della diversità che incombe, dal televisore senza le immagini consuete di automobili fuori porta al vocio di famigliole intente già dal primo mattino a preparare barbecue e tavolini all’aperto, nel giardino delle ville accanto. Pur tentato dal fascino del sogno trasmesso da Letterati e Filosofi o Mistici e Scienziati, il peso di quello di stanotte ancora lo sento sulla pelle, come una tuta umida e piombina di temuta premonizione del futuro che potrebbe attenderci.

La giornata che avanza sarà lunghissima, scandita dai soliti pasti e qualche augurio al cellulare, se non fosse che la forte quiete che mi circonda sarà riempita dall’inveterata abitudine di pensare e leggere.

– Dio, ti ringrazio! – mi dico – ché mi dài la forza di capire: il male che facciamo alla Natura, il Bene ad altrui che io cerco di fare secondo le mie capacità, la ricerca del sapere a mo’ di pane quotidiano, l’Umanesimo quale leit-motiv della mia minuscola esistenza.

Oggi non scomoderò né Shakespeare né Freud, tanto meno Schopenhauer e Calderon de la Barca, in quanto mi basterà riprendere in mano un vecchio libricino: il Vangelo in edizione parrocchiale, regalo di mio padre, che fornirà il necessario alla serenità di questa Pasqua altrimenti così triste e angosciante.

Mi affaccio dall’ampio terrazzo di casa, da cui ho il privilegio di un panorama che si estende dal Tuscolo ad un’ampia fetta di area metropolitana romana, ivi compresa, miracolo, una lontana icona in miniatura di S. Pietro. Stamattina, umile beatitudine, l’orizzonte è particolarmente limpido, trasparente alla vista in profondità chilometrica, stupenda rarità se si pensa all’impenetrabile coltre che quando non è nebbia è smog. Allora nel chiarore dell’aria condito di silenzio vorrei riconoscere un dono che da solo paga il duro prezzo di questa quarantena, nell’intimità della casa ma con una stretta al cuore, non libero di vedere chi voglio o di scambiare a Pasqua un abbraccio fra i banchi di una chiesa.

°°°°°

Sento mia moglie che mi parla di là:

– Caro, vedo che stiamo terminando lo zucchero; sarà

mica il caso che dopo Pasquetta tu lo vada a comprare al supermercato? da Elite faresti presto.

– No! ancora lì…ma non era un sogno? – penso – forse è meglio che torni a dormire. Magari stavolta sognerò che tutto è finito. È giorno, c’è un bel sole, ma “buonanotte!” lo stesso, – mi dico, con un po’di malizia, salendo le scale della camera.

– Scusa! mi hai sentito?! – insiste lei, ma io faccio finta di niente, e quella voce cade nel vuoto a rompere il noioso silenzio di casa.

– Spero che si ricordi di chiamarmi, – fra me e me, – ché verso mezzogiorno c’è la benedizione urbi et orbi di Papa Francesco. Va a finire, così, che continuo a dormire fino al prossimo sogno…oddio, non si sa mai cosa vedrò.

casa mia, oggi Pasqua, 12 aprile 2020

 

Laura Massacra
Il moralista

Uno spettro si aggira per l’Europa, uno spettro persino più temibile di queste morti, di queste ore buie e di questo isolamento coatto. E’ lo spettro che alberga nei cuori fragili, che implorano che il virus sia, a grande richiesta, il censore implacabile delle libertà occidentali di cui non hanno saputo far tesoro. Un virus che imponga finalmente dei limiti, con la spranga delle punizioni e l’ascia della paura.

Ma il virus, per nostra fortuna, è un anarchico incallito. Travalica classi sociali, censi, e popoli. Si insinua beffardo tra pubblico e privato. Non fa distinzioni di sesso, età, religioni. Il virus non è ideologico. Non è un prete che ci apre gli occhi sui mali del nostro vivere quotidiano. Non ci viene a raccontare il marciume del capitalismo, visto che altre pandemie dilagarono quando capitalismo e consumi di massa non erano neanche lontanamente prevedibili. Non è un censore di costumi e culture. Solo, forse, mette in guardia su quelle che distruggono pianeta e clima in nome della produzione . Ma probabilmente neanche di quelle. Il virus non è un castigatore di folle postcapitalistiche, non è un monito collettivo perché non è una punizione divina, non è una variante storica dei nostri avi che pensavano ai fulmini come messaggio punitivo degli Dei. Il virus è un virus.

Il virus non è un moralizzatore, non una cartina di tornasole che esprima l’immoralità del nostro vivere dissennato e senza senso. Anche il Medioevo fu colpito dalla peste. Cosi come il ‘900 in guerra, dalla terribile spagnola. Ma dopo queste ondate pandemiche, i popoli vissero come e meglio di prima.

Quello che segue, invece, un elenco di cose vere: il virus ama la folla, come noi. Perché l’umanità ama stare vicina vicina. Ama la promiscuità, ama le orge i carnevali e i festini. Ama, come noi, stare tutti assieme, pigiati nei bar e nei ristoranti all’aperto, al mare in montagna o sulle piste da sci, a scuola e nelle colazioni di lavoro. Il virus ha una sua allegria. E’ libero, aperto, incosciente, con una immensa e incontenibile dose di vitalità. Il virus è un vettore di psicosi collettive e pubbliche virtù. Esercita censura delle libertà a chi non vedeva l’ora di farsi censurare, o di deprecare chi, della libertà, faceva buon e sapiente uso. Il virus è un catalizzatore di invidie: per chi stava bene, per chi sapeva dare un senso alla propria esistenza. Per i depressi, gli ossessivo-compulsivi, i nuIlapensanti, il virus è esattamente identico a Justine, la protagonista del bellissimo film di Lars Von Trier, “Melancholia” la quale, cronicamente depressa a causa di un vuoto di senso legato ai propri obiettivi esistenziali, comincia prima a temere, poi a sperare che avvenga la collisione del pianeta Antares sulla terra. Di modo che la sua angoscia trovi, nel rapporto con il reale, senso compiuto, e possa così finalmente sublimare la propria personale cupezza nell’apocalisse finale, universale. Ma, cari depressi, nullapensanti, paurosi e allergici alla libertà, vi do una brutta notizia: il virus non è Justine, né Camus, né, né Manzoni. Il virus è boccaccesco. Trova la vita, la voglia di convivio, di sesso e di racconto anche nella tempesta. Noi ce ne libereremo. Fatevene una ragione. E torneremo a esplodere come stelle danzanti in quell’esistenza talvolta gioiosa talvolta dolorosa, fatta di nonsense, promiscuità, abbracci e aperitivi.

Bruno Mohorovich
QUESTO SILENZIO

Questo silenzio,
inquietante e dolce
rotto dallo stormir di foglie
che possono far sentire la loro voce;
questo silenzio
che t’invade e rotola dentro
e schiaccia l’irrequieto assillo del tempo;
questo silenzio, fragile
cui basta la rimembranza di te
per sciogliersi nel boato dei ricordi,
si disfa nel passo
invisibile del sorriso.

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Mino la Franca, proposta di bandiera per l’Europa

Domenico Mazzullo
AL TEMPO DEL CORONAVIRUS 5
Pasqua al Tempo del Coronavirus

Questo maledetto Coronavirus è proprio crudele, più crudele di quanto fosse possibile immaginare.
Vuol toglierci tutto, ma proprio tutto. Non gli è bastato sottrarre al piacere della vita tanti di noi, non gli è stato sufficiente stravolgere tante famiglie felici, o presunte tali, assottigliandone il numero dei membri,
non gli è bastato interrompere bruscamente e proditoriamente, tanti felici rapporti extraconiugali, che filavano perfettamente da anni e contribuivano così all’equilibrio e alla pace familiare, permettendo il proseguire di pseudo legami matrimoniali, che altrimenti sarebbero finiti molto prima, impedendo agli amanti la possibilità di incontrarsi clandestinamente con cadenze predefinite e in luoghi sicuri..
Ha voluto sottrarre agli studenti, improvvisamente e crudelmente la tanto amata scuola, giungendo addirittura a privarli del tanto agognato Esame di Maturità, ove avrebbero potuto esprimere tutto il loro valore e la loro sapienza.
Li ha privati di quel pathos e quella angoscia che precedeva, secondo canoni ben precisi, le prove di esame e non potranno più vivere, con le parole di Antonello Venditti nel cuore, l’esperienza esaltante della “notte prima degli esami”, così cara nei ricordi, a chi l’ha vissuta in prima persona
Inoltre ha impedito, o chiuso sul nascere storie affettive appena sorte sui banchi di scuola, che si sarebbero potute prolungare per qualche settimana, fino alle prime esperienze di sesso.
Agli studenti, così addolorati per queste improvvise e inaudite dolorose privazioni, ha voluto anche sottrarre la possibilità di aggregarsi, liberi dagli impegni scolastici, in comitive improvvisate, davanti a qualche pub o vineria, come ora è di moda, con un bicchiere di alcolico in mano, a ciondolarsi in piedi, fino a tardi in notturne riunioni intellettuali.
Non contento di questo, a chi, tra i giovani preferiva inebriarsi con il profumo di aromi orientali, sprigionati da una sottile sigaretta costituita non di tabacco, come tutte, ma di una certa Canapa, ha impedito anche questo innocuo mezzo di rilassamento e di oblio delle quotidiane pene, imponendo a tutti una detenzione domestica, quanto mai afflittiva e insopportabile, interrotta e lenita solamente da conversazioni virtuali con altre persone, altrettanto isolate in casa.
Neppure la consolazione di un buon libro era possibile essendo tutte le librerie, dispensatrici di questo meraviglioso strumento di cultura, tutte drammaticamente chiuse, serrate, con il proprio prezioso patrimonio cartaceo inutilizzabile all’interno.
Unica cosa leggibile i giornali, reperibili nelle edicole aperte, ma troppo ricchi di notizie sulla situazione della pandemia dalla quale ci si voleva distrarre.
Per i più adulti e devoti fedeli, anche la consolazione della fede è stata preclusa, per esigenze sanitarie, si è detto, impedendo dapprima la classica stretta di mano, come segno di pace e poi giungendo addirittura a chiudere, sbarrare, precludere inesorabilmente ai fedeli l’ingresso in tutte le chiese, sempre per i suddetti motivi sanitari, privandoli del conforto religioso vissuto in comunità la domenica.
Per fortuna il rito è stato sostituito da volenterosi sacerdoti, con dei surrogati telematici, di cui usufruire nelle proprie case, ma l’atmosfera non era assolutamente la stessa e il pathos religioso ne ha risentito grandemente.
Parallelamente alle chiese, e per affliggerci ancora di più, il crudele virus ci ha sottratto anche la consolazione del nostro sport preferito, il calcio, che ci trasformava tutti in esperti di tattiche e strategie calcistiche al bar, davanti al classico cappuccino e cornetto, assieme agli amici, anch’esso reso ora impossibile dalla deprecata chiusura dei locali.
Ma non contento di tutto questo, dopo averci sottratto tutti i pilastri della nostra esistenza, il virus, nella sua suprema crudeltà ha deciso di privarci dell’ultima consolazione rimastaci, sopravvissuta alla sua forza distruttiva: La classica scampagnata fuori porta la domenica di Pasqua, in compagnia di una pletora di parenti e amici, seguita a ruota, dalla “Colazione sull’erba”, il giorno seguente di Pasquetta, con la classica tovaglia a quadri bianche e rossi distesa a terra e l’immancabile cestino di vimini da pic nic.
Ma anche questa volta il virus, accompagnato e favorito dalle crudeli restrizioni imposte dalla nuova dolorosa realtà, ha esercitato la sua forza distruttiva, impedendoci anche quest’ultimo piacere, complici i rigidissimi controlli delle Forze dell’Ordine tesi a rilevare e pesantemente sanzionare i trasgressori.
Ma uno spontaneo e autonomo moto di ribellione e coraggioso desiderio insopprimibile di libertà ha fatto sì che molti cittadini, con sprezzo del pericolo ed indomito coraggio, si ribellassero a questa ulteriore vessazione imposta dal virus e si incamminassero egualmente sulle strade del nostro paese, verso località di mare, di monti, o di laghi, incuranti coraggiosamente delle inique sanzioni, in uno strenuo, meraviglioso anelito di libertà e ribellione, donando a questa Domenica di Pasqua al tempo del Coronavirus il significato inequivocabile del loro coraggioso desiderio di non soggiacere alla volontà perversa del virus oppressore.

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Roma, 12 aprile 2020

La Speranza al Tempo del Coronavirus

Ieri sera, a ora di cena, ho ricevuto una telefonata e data l’ora ho pensato subito ad una emergenza.
Era una mia paziente che sto curando da qualche tempo, per una depressione piuttosto seria e sentendo la Sua voce mi sono allarmato, temendo che stesse male, forse in concomitanza con il giorno di festa e con questo clima particolare creato dal Coronavirus.
Intuendo la mia preoccupazione la Signora mi ha tranquillizzato subito, dicendo che sentiva il desiderio di farmi gli auguri per Pasqua e di chiedermi se stessi bene.
“Caro dottore, non si preoccupi sto bene, la sua cura sta funzionando e mi sento molto meglio.”
“Volevo ringraziarla, ma soprattutto farle gli auguri e sapere come sta. Ho pensato che lei chiede sempre a noi pazienti come stiamo e questa volta voglio chiederlo io a lei. Sono tempi brutti, sento di tanti medici che si sono ammalati e sono morti e ero preoccupata per lei. Ora che la sento sono tranquilla”.
E’ molto facile immaginare, lo stupore, il piacere e la gioia che mi ha arrecato questa telefonata e dopo aver ringraziato calorosamente per il pensiero e la Sua affettuosa preoccupazione nei miei confronti, abbiamo iniziato una piacevole conversazione su vari argomenti, fino a che, senza sapere come e senza che ce ne rendessimo conto, il discorso si è fatto più serio ed è scivolato, si è concentrato sul tema della speranza, tema arduo e complesso, ricco di implicazioni.
La Signora mi ringraziava infatti, perché ricordando il primo nostro incontro, quando Le diagnosticai la depressione e Le prescrissi una terapia, mi raccontava che per la prima volta, dopo tanto tempo aveva risentito un timido barlume di speranza, dopo mesi di profonda, intollerabile disperazione, nel senso letterale del termine di assoluta mancanza di speranza, speranza che poi via via si era andata consolidando e rafforzando, alleviando il tremendo dolore della disperazione, fin lì provata.
Così, gradualmente il discorso è scivolato, dal personale al concetto generale di speranza e alla sua importanza nel nostro essere e nella nostra esistenza.
Non a caso proprio sulla speranza, molti detti sono stati coniati, tra cui i più noti: “spes ultima dea” oppure, e con lo stesso significato “spes ultima ratio”, “la speranza è l’ultima a morire” e mi è tornata anche alla mente la frase che un personaggio di Sciascia rivolge al suo interlocutore :”Quando la vita giunge ad un certo punto, non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire l’ultima speranza”.
I miei ricordi del catechismo, quando ero bambino, mi hanno rammentato che proprio la speranza è una delle tre virtù teologali assieme alla fede e alla carità e che l’ancora che i marinai calano in mare è il simbolo universale della speranza.
La mia paziente aveva ritrovato la speranza, persa, scomparsa da tanto tempo e sentiva questo, come il segno più sensibile, vero e tangibile della guarigione dalla depressione, che proprio per questa mancanza della speranza, La faceva tanto soffrire e Le rendeva la vita intollerabile e ancora, proprio questa rinnovata speranza, mi diceva, Le permetteva di sopportare, con fiducia le privazioni che questa pandemia da Coronavirus, questa situazione così nuova, inattesa, imprevedibile e sorprendente, ci obbligava a vivere per la prima volta, in tempi cosiddetti moderni, quando una nuova, forse fallace e presuntuosa sicurezza in noi stessi, ci aveva fatto scioccamente inorgoglire e dato l’illusione di essere invulnerabili.
Queste parole della mia Paziente mi hanno obbligato a riflettere, a meditare, a riscoprire la importanza, la potenza, la indispensabilità della speranza come umano sentimento, indissolubilmente legato alla capacità di prevedere, nel senso di vedere prima, in anticipo.
Questa ultima capacità, assolutamente umana, avrebbe potuto infatti renderci la vita impossibile, inaccettabile, intollerabile, se non fosse stata mitigata, addolcita, moderata, modulata dalla possibilità di sperare.
Mi tornano alla mente le parole dello Psichiatra Viktor Frankl, di Cui ho parlato in una pagina precedente di questo diario.
Mi disse una volta. In una nostra conversazione, che in campo di concentramento vi erano moltissimi suicidi tra i Suoi compagni di sventura e Egli, come Psichiatra si era posto l’obiettivo di limitarli.
Per fare ciò teneva delle conferenze nelle baracche dei prigionieri, dicendo Loro che probabilmente sarebbero tutti morti, ma forse anche solo Uno di Loro sarebbe sopravvissuto e quell’Uno avrebbe avuto il compito di testimoniare quanto era avvenuto.
Ognuno di loro avrebbe potuto avere in sorte il compito di essere quell’Uno, unico sopravvissuto e per questo tutti Loro avevano il dovere di cercare di sopravvivere.
Aveva donato Loro la speranza persa e uno scopo, un fine, un senso.

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Roma, 13 aprile 2020

Libri al Tempo del Coronavirus

Coraggio, sta per iniziare la Fase II di questa avventura, di questa guerra contro il nemico invisibile, che proditoriamente e subdolamente si è insinuato nelle nostre vite, nelle nostre abitudini, nelle nostre sicurezze, soprattutto, che si sono sciolte come neve al sole, mostrandoci impietosamente tutta la nostra debolezza e le nostra vulnerabilità costituzionale, tanto più pericolosa perché ignorata, misconosciuta, rifiutata a priori, negata.
Questa fatidica Fase II tanto agognata, tanto desiderata, tanto attesa, finalmente sta per cominciare, virus permettendo, ma come è ormai tradizione per tutte le cose italiane, ormai da secoli, forse già dalla caduta dell’Impero Romano, non in maniera unitaria, come sarebbe logico e coerente in un Paese unito, in una Nazione che si riconosce sotto la stessa Bandiera e lo stesso Inno, ma naturalmente in ordine sparso, discontinuo, forse oserei dire disordinato, se non temessi di essere eccessivo, con piccole differenze di date, vicine l’una all’altra, così che a noi profani risulta incomprensibile questo caleidoscopio di eventi, che si rincorrono da vicino, senza incontrarsi mai, suggerendoci, ma certamente siamo in errore, che l’unica ragione sia un più che legittimo desiderio di indipendenza e autonomia delle varie regioni in cui è suddiviso il nostro Paese, e la volontà esplicita di dar prova di non soggiacere ad un Governo centrale.
Ho appreso oggi dalla radio nazionale che nel Regno delle Due Sicilie, le Librerie non riapriranno ancora, mentre nello Stato della Chiesa, riapriranno sì, ma tra qualche giorno, sempre per non soggiacere ad imperativi dall’alto.
Sembra proprio che il Risorgimento non sia mai esistito, non sia servito a nulla, che l’Unità d’Italia sia stata una favola raccontata dai genitori ai bambini per farli addormentare.
Ma torniamo ai nostri libri e alle loro legittime case, le Librerie.
Con grande lungimiranza e attenzione nei i nostri confronti, il Governo, corroborato da una pattuglia di Esperti, che ho appreso ieri si chiama “Task Force”, che suona meglio e conferisce un aspetto più bellicoso al tutto, ha deciso di aprire la Fase II che dovrebbe rappresentare un timido e circospetto tentativo di ritorno alla normalità, decretando la riapertura, per prime tra le attività commerciali, delle Librerie e dei negozi di Abbigliamento per bambini.
Mai decisione mi è apparsa più saggia, soprattutto per quanto riguarda le Librerie, essendo io un incorreggibile bibliofilo e un incurabile bibliomane, tanto da avere la casa piena di libri, spesso in duplice o triplice copia, avendo dimenticato di averli già acquistati.
Gli Italiani uniti finalmente, Guelfi e Ghibellini, sudditi dello Stato della Chiesa o del Granducato di Toscana, del Regno delle Due Sicilie e del Regno di Sardegna, del Lombardo-Veneto e del Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, finalmente e una volta tanto uniti dicevo, saranno felici di poter rompere questo isolamento culturale, questa arsura di parole scritte su carta, di noia, costretti come siamo, nei nostri alloggi domestici, senza poter compiere, secondo tradizione, la classica gita pasquale fuori porta, con l’appendice, il giorno seguente, della colazione sull’erba, inalienabile, del giorno di Pasquetta, saranno felici, dicevo e ansiosi di riversarsi in folta schiera nelle <librerie. per rifornirsi degli amati libri, unica ed insostituibile consolazione nei confronti delle pene dell’isolamento domestico, degli arresti domiciliari, resi più penosi dalla bella stagione, della forzata convivenza con coniugi rispetto ai quali non vi è più quell’afflato emotivo e amoroso, che aveva caratterizzato il loro rapporto un tempo lontano, dalla temporanea e fugace consolazione di rapporti clandestini, resi impossibili dalle draconiane disposizioni vigenti.
Unica consolazione, finalmente, i libri che saranno nuovamente disponibili nelle librerie e che rappresenteranno il primo bene di conforto nella nostra vita.
Non avendo figli e neppure, di conseguenza nipoti, più appropriati per la mia età, non posso gioire
allo stesso modo, per la contemporanea riapertura dei negozi di abbigliamento per bambini, riapertura di cui comprendo benissimo la assoluta necessità e urgenza.
Mi permetto però di criticare e stigmatizzare una pericolosa quanto iniqua discriminazione:
Perché per bambini sì e per adulti no? Qualcuno sarebbe in grado di spiegarmene la ragione?

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Roma, 14 aprile 2020

Dipendenza al tempo del Coronavirus

Un banale e semplice incidente domestico mi ha fatto comprendere quanto siamo vulnerabili e dipendenti dagli strumenti che utilizziamo quotidianamente, soprattutto in questo momento così particolare e complesso.

Ieri pomeriggio improvvisamente si è bloccato il computer che utilizzavo per scrivere queste pagine di diario al tempo del Coronavirus impedendomi così di continuare.
Ora scrivo su un mezzo di fortuna, inadeguato e precario in attesa, spero che il computer venga riparato, cosa che ritengo piuttosto difficile in questi tempi di chiusura totale di tutti gli esercizi commerciali.

Dopo un primo momento di smarrimento e costernazione, accompagnato da alcune silenziose e interiori imprecazioni, ho fortunatamente riassunto il controllo di me stesso, rimproverandomi, sempre interiormente per averlo perso, a causa di un evento così banale e poco importante e ho cercato di capire quale insegnamento avrei potuto trarre da questo sgradevole ma banale incidente occorsomi.
Prima di tutto mi sono chiesto e purtroppo mi sono risposto affermativamente se sia possibile e comprensibile al giorno d’oggi dipendere così totalmente da strumenti tecnologici cui affidiamo la nostra esistenza, con tale facilità e noncuranza da divenirne sudditi e forse addirittura schiavi gratuitamente e senza neppure rendercene conto e subito dopo mi ha colpito con la forza travolgente di un tornado la consapevolezza della pericolosità di tutto questo.

Se non ci fossimo trovati,infatti, in un momento di tale, inaspettata e imprevedibile emergenza avrei risolto facilmente la faccenda recandomi nel più vicino centro di assistenza per computer e più o meno rapidamente avrei risolto il problema al limite acquistando un computer nuovo se la riparazione fosse stata impossibile,ma naturalmente tutto ciò in questo tempo di Coronavirus é drammaticamente altrettanto impossibile.
Nella sciagura però ho avuto ancora una volta la prova che la solidarietà esiste soprattutto in certi momenti di difficoltà: un carissimo Amico Che se mi legge capirâ che parlo di Lui, si è offerto di aiutarmi a risolvere il problema grazie alle Sue competenze. Spero che sarà possibile tanto da poter presto tornare a scrivere sulle pagine di questo Diario,

Roma, 16 aprile 2020

Il Tempo al Tempo del Coronavirus

Naturalmente non è del Tempo in senso meteorologico che voglio parlare su questa nuova pagina del Diario che vado scrivendo, per ricordare a me stesso questa esperienza così singolare, così unica, così particolare, che mai avrei immaginato di vivere, che avevo vissuta solo attraverso i romanzi e i film di Fantascienza, ma che ora stiamo provando nella realtà.
Voglio ricordarla con precisione, nei minimi particolari, perché non svanisca rapidamente entro di me, non appena sarà finita, non appena il pericolo sarà passato, scongiurato, eliminato.
C’è da parte di tutti noi, e naturalmente anche in me, il desiderio, sempre presente, di dimenticare il prima possibile le esperienze dolorose, brutte, spiacevoli, che abbiamo vissuto, di cui siamo stati vittime, come se il dimenticarle, il rimuoverle dalla memoria, significasse, quasi il non averle vissute, così come quando, al mattino, ci svegliamo di soprassalto, ansimanti, con l’esperienza di un brutto sogno, un sogno angoscioso, che immediatamente dopo il risveglio è ancora ben presente e vivido in noi.
Siamo ancora immersi nella atmosfera dell’incubo, ma subito dopo, con la coscienza che si trattava di un incubo onirico e non della realtà, confortati da questa coscienza, ci immergiamo rapidamente nella realtà che ci circonda, favorendo così la sparizione, l’oblio dell’incubo.
Ora io non vorrei che lo stesso accadesse in me, con questo “brutto sogno” che stiamo tutti vivendo e per questo, scrivo, per non dimenticare, al più presto, quando tutto sarà finito, questa esperienza che deve rimanere indimenticabile.
Tornando al Tempo, non si tratta certamente del tempo meteorologico, argomento di cui non sono competente, se non per la mia smodata predilezione per la pioggia, che unica, mi rende felice, ma di come noi viviamo, in questo momento il senso del tempo che passa.
L’occasione per questa riflessione mi è data dalla lamentela, che molti pazienti, attualmente, sempre più spesso mi denunciano, ossia la sensazione spiacevole, sgradevole, spesso angosciante che il tempo non passi mai, non scorra, si sia come fermato, arrestato, immobilizzato in un eterno presente, senza più scorrere come prima, inesorabilmente e sempre più, troppo veloce.
Come se tutti fossimo immobilizzati in un eterno presente.
Ho cercato di spiegar Loro, che quando la nostra vita è riempita, di compiti, impegni incombenze, sono questi, nel loro susseguirsi, succedersi, concludersi, che ci danno il senso del tempo che scorre, che passa.
Ora siamo costretti dalle circostanze a rimanere quasi tutti, in casa, isolati, soli, senza più quei tanti rapporti sociali, umani, affettivi, quei compiti piacevoli o spiacevoli, quelle incombenze, che prima riempivano le nostre giornate, il nostro tempo appunto, e quello stesso, identico tempo ci sembra trasformarsi in un vuoto contenitore che non ha più significato, privo come è del suo contenuto. Quello stesso contenitore, che solo poco tempo prima ci era apparso sempre paradossalmente troppo piccolo, insufficiente per tutto ciò che avrebbe, secondo le nostre pretese, dovuto contenere.
Improvvisamente e grazie al Coronavirus, le nostre giornate, sempre così frenetiche, piene di cose da fare, con un tempo sempre insufficiente a farle tutte, improvvisamente sono divenute interminabili, ferme fisse, come se le lancette dell’orologio che ciascuno di noi possiede, si fossero miracolosamente arrestate, colpite anche loro dal virus.
Naturalmente non è così, le lancette dell’orologio si muovono sempre con la stessa velocità e scandiscono lo stesso tempo, ma è quello stesso tempo che a noi sembra lunghissimo, dilatato in maniera esasperante, perché vuoto, perché non è più riempito di compiti, di incombenze, di impegni, di azioni, che ci danno, nel loro succedersi la sensazione dello scorrere del tempo stesso.
Ma perché, proprio noi stessi, che fino a poco tempo prima ci siamo lamentati di avere sempre poco tempo per tutto, ora che improvvisamente, ne abbiamo finalmente tanto, obbligati come siamo a non muoverci, a rimanere in casa, a non correre da una parte all’altra come trottole impazzite, ora ci lamentiamo perché il tempo non passa mai?
Credo, ahimè che la risposta sia semplice e tragicamente banale, purtroppo: il tempo che fino a poco tempo addietro non ci bastava mai, era sempre troppo poco, troppo veloce nel suo scorrere, era il tempo dedicato ad impegni, incombenze, oneri esterni, fuori di noi.
Oggi quello stesso tempo che ci appare rallentato, fermo, lunghissimo, inquietantemente lento nel suo scorrere è il tempo che dovremmo, che potremmo dedicare a noi stessi, ad una riflessione su di noi, ad un contatto con la nostra intimità, con la nostra interiorità, con il nostro io interno.
Ma non ne siamo capaci. Forse ne abbiamo paura.
Forse anche questo il Coronavirus sta cercando di suggerirci.

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Roma, 17 aprile 2020

Antonio Spagnuolo

Strappo le ore

Strappo le ore, i minuti , anche i secondi

nel gioco inaspettato del contagio.

Fuggo l’ombra di amici, ingenuamente

lontano dal contatto.

Ancora ingiurie balzano per strada

a squarciare il cervello già impaurito

dal delirio di un avido sorriso.

S’apre il corpo a ventaglio

in cerca di un sigillo che accomuni

il possesso di un sogno fuori angoscia.

Ma è nostro destino rammendare

le piaghe che l’incanto del progresso

ha propagato alla coppa del sapere.

Il brivido ora corre tra le ciglia

ed il sospetto,

pietrificando il mio sguardo nell’attesa.

Valentí Gómez i Oliver
(del llibre original català Or Verd, Barcelona, 2005)


Dansa de Roma
per a Miquel Batllori, in memoriam

Sota l’influx d’una terna

dues deesses, un déu

l’esperit es torna lleu

tot mirant Ciutat Eterna

Campanars a primavera

procuren ocrosa pau,

de dignitat vertadera

en roman més d’una allau.

S’ocupà la llei paterna

d’afaiçonar romà forn

ponentí escalaborn

tot mirant Ciutat Eterna

Ruïnes ermes ben vives

a tothom li fan l’ullet,

inesgotables estibes

sentinelles a peu dret.

La gran saviesa materna

s’empouà al fons del riu,

sura tot d’una a l’estiu

tot mirant Ciutat Eterna

Antany bé i mal acollires,

ara ets plena d’emigrants

de països, circs i fires

on no hi deixen viure sants.

Creixi la remor fraterna

en pro d’innocent cadell

i s’espanti el cucarell

ot mirant Ciutat Eterna

Il·lumina com llanterna

l’ànim del cos meu, seu, teu

mai diràs del tot adéu

tot mirant Ciutat Eterna

Danza de Roma
(versión castellana de Manuel Vázquez López)

Bajo influjo de una terna

de dos diosas y de un dios

leve el alma se va en pos

viéndote Ciudad Eterna.

Campanas que en primavera

procuran beatitud,

la dignidad verdadera

más eterna que un alud.

Se ocupa la ley paterna

de avivar romano ardor

ponentino pulidor

viéndote Ciudad Eterna.

Reliquias yermas muy vivas

que a todos hacen un guiño,

inagotables estibas

centinelas sin aliño.

Sabiduría materna

empozada dentro al río,

surge toda en el estío

viéndote Ciudad Eterna.

Antaño el urbe acogiste,

ahora de emigrantes llena

circos y ferias tu quiste

mas no a los santos ajena.

Crezca la bulla fraterna

para el cachorro benigno

y que se espante el maligno

viéndote Ciudad Eterna.

Ilumina cual linterna

mi ánimo en el andar

de ti no podré escapar

viéndote Ciudad Eterna.

Danza di Roma
(versione italiana di Kylie Gomez-Gane)

Sotto l’influsso di una terna,
due dee, un solo dio,
lo spirito diventa leggero
guardando la Città Eterna.

Campanili a primavera

procurano ocracea pace,

di dignità veritiera

ne rimane più di una valanga.

Si occupa la legge paterna

di modellare romano forno

ponentina erosione

guardando la Città Eterna.

Rovine deserte ben vive

a tutti fanno l’occhietto,

inesauribili stive

sentinelle a piè dritto.

La grande saggezza materna

si poggiò in fondo al fiume,

viene a galla con l’estate

guardando la Città Eterna.

Inizialmente tutto hai ospitato.

Ora sei piena di emigranti

di paesi, circhi e gran mercato

dove non possono vivere i santi.

Cresca la confusione fraterna

a favore di innocente cucciolo

e si spaventi il diavolo

guardando la Città Eterna.

Illumina come lanterna
l’animo del corpo, suo, tuo, mio

mai dirai del tutto addio

guardando la Città Eterna.

Cetta Petrollo
Eppure è Primavera
Diario di una quarantena: 16 aprile

Ieri sono uscita dopo molti giorni che non lo facevo. Con la mia brava certificazione nella borsetta e, finalmente, una mascherina regolamentare, più protettiva rispetto a quelle chirurgiche fortunosamente trovate da mia figlia e da me comperate sul web da un’azienda laziale (e scoprendo poi che tutte le istruzioni erano in lingua cinese).
Sono dunque uscita con maggior sicurezza. E infatti non avevo l’affanno. La giornata era bella, piena di sole. E io a controllare cosa era successo al mio quartiere e poi un po’ più in là andando verso San Pietro, dove non sono voluta arrivare, non sia mai, troppa aria, troppi virus, troppa camminata, troppi passanti.
In effetti di passanti ce n’erano davvero tanti e non tutti civili. Moltissimi senza mascherina, altri a parlare al telefonino, altri con la mascherina portata come una collana, per cui la passeggiata è stata una danza, un minuetto, conseguente all’avvista-mento degli imbecilli (egoisti? Onnipotenti?), spostandomi da un lato all’altro della strada quando ne avvistavo uno, scendendo e poi risalendo dal marciapiede, lasciando il passo ai pochi bardati di tutto punto come me, pur di rispettare i due metri di distanza, avendo l’occhio acuto e attento come i cacciatori nelle battute solo che io puntavo gli umani e non gli uccelli o le lepri.
Il controllo della compagine sociale ed economica è andata bene.
Ho visto i miei ristoranti preferiti chiusi ma con un bel cartello fuori (“Ti portiamo il pranzo a casa. Chiamaci qui”) , ho visto i negozi dei cellulari in piena funzione ma con file di attesa tali da scoraggiare qualsiasi acquisto e riparazione, ho visto i negozi di elettronica desolatamente vuoti, apertissimi i forni trasformatisi in ristoranti e bar (si può fare?), ho visto le tintorie aperte e deserte, ho visto molte automobili, molte più del previsto. E, soprattutto, in giro, ho visto molti anziani, alcuni dichiaratamente tali per postura, curvatura di spesa, fatica nel passo e mestizia nel volto, tutti con i loro carrelli della spesa a strascico, tutti beneducati, col volto coperto da maschera e occhiali e le mani con i guanti mentre accanto a loro sfrecciavano i giovani imbecilli di cui sopra.
Sono rimasta di buon umore ma, ad ogni passo, il buon umore sulla via del ritorno (a viale Giulio Cesare ci arrivo lunedì prossimo con la scusa della Feltrinelli riaperta) lasciava il posto ad un progressivo malumore poi divenuto umor nero quando a casa ho ascoltato le parole della Presidente europea che, con stile prettamente nordeuropeo – lo stesso che fa firmare moduli di rinuncia alle cure ospedaliere agli ultra sessanta-cinquenni – non si peritava di caldamente raccomandare, col tono di chi fa presagire provvedimenti legislativi – agli anziani di restarsene a casa fino a dicembre, certo per non limitare ai giovani la facoltà e la libertà di scorrazzare dappertutto fiatando, respirando e parlando senza mascherine.
Un vecchio non ha molto da perdere, pensano e di conseguenza si comportano. Gli restano pochi anni di vita e può ben starsene recluso in casa. Al vecchio può essere negata la possibilità di godersi la sua seconda casa acquistata con anni di lavoro, di fatiche e di risparmi. Di proseguire le sue attività culturali o ricreative o sociali o assistenziali. Di godersi figli e nipoti. O, molto più semplicemente e banalmente osservare all’aria aperta marina, campestre, montana o cittadina, le stagioni che cambiano, il lento scivolare dei mesi e dei giorni da giugno a settembre e poi da ottobre a dicembre.
Un vecchio non ha gli obblighi di tempo del lavoro dei giovani e di anni ne ha pochi davanti a sé. Tutta la vita gli hanno inculcato che dopo, dopo il lavoro, dopo la pensione, sarebbe arrivato il tempo di godere appieno del proprio tempo, di andare al cinema, a teatro, a ballare, in crociera, ovunque la ritrovata libertà lo avrebbe portato.
Invece no. Che si tolgano di mezzo (e penso male, malissimo, quando vedo che il vaccino lo testano solo nella fascia d’età di gente robusta che va dai 18 ai 55 anni (il che vuol dire che si dà per scontato che non sia necessario valutare e calcolare gli effetti avversi sugli anziani).
Mi sono informata dalla mia amica Bruna se a Bocchignano sono arrivate le lucciole e mi pento di non aver approfittato di tutti i week end della mia vita per andarci (se mai uscirò indenne da questa pestilenza difenderò strenuamente le mie lunghe giornate in Sabina dal giovedì al lunedì successivo).
Mi ha detto che ancora no. Ho insistito con lei (ma ci sei andata la sera verso le nove, intorno alle mura dove la vegetazione che hanno barbaramente tagliato sarà rifiorita offrendo ottimi ripari al timido, luminoso, esercito?).
Ha detto di no. Ha detto che mi viene a prendere per portarmi a vederle quando arrivano. So già che non sarà possibile almeno fino a maggio e le lucciole mica mi aspettano. Ha detto che mi manda una foto e un video non appena le avvista.
Le lucciole della mia casina. Comperata con Elio e con lui vissuta, la mia casina arredata con tutte le eredità domestiche della mia vita, l’unica che è davvero mia perché frutto del mio lavoro.
Mi mancano le lucciole come mi manca l’odore di mia figlia e quello di mio nipote così simile a quello di Elio.
Ma la Presidente questo non lo sa.
Forse non le si smuove il sangue. Forse non sente gli odori. Eppure è Primavera.

Stefania Severi
La Scuola d’Atene

Nel “Diario in coronavirus con grani di scrittura” che la FUIS ha inviato agli iscritti nella 1° domenica di lettura (15/3/2020), accanto al logo della FUIS c’è “La Scuola d’Atene” di Raffaello. Felicitandomi con il professor Antonio Natale Rossi per aver inserito questa immagine che è tra le mie preferite, ho saputo che è il Logo di Federintermedia, così ho pensato di scrivere le mie riflessioni al riguardo.

Correva l’anno 1508 e Raffaello Sanzio da Urbino, allora venticinquenne, giungeva a Roma da Firenze, dove si era distinto come pittore di Madonne e ritrattista, lavorando per le migliori famiglie. Era stato chiamato, forse grazie ai buoni uffici del conterraneo Donato Bramante, unitamente ad altri artisti, alla decorazione del nuovo appartamento per Papa Giulio II. La sua personalità emerse ben presto, nonostante la giovane età, ed ebbe l’incarico di decorare la Biblioteca Segreta del Pontefice, che poi si sarebbe chiamata la stanza della Segnatura. Era il primo incarico su vasta scala di una serie d’affreschi e Raffaello dimostrò subito una estrema chiarezza compositiva che legava le varie parti della stanza inglobando porte e finestre. Ma ancor più chiaro era il concetto espresso dall’insieme degli affreschi che, nella Biblioteca, doveva illustrare il Vero, il Bene ed il Bello, che nella concezione classica dovevano interagire per raggiugere l’ideale di vita. Sotto lo sguardo di quattro donne, nei tondi sul soffitto, Teologia, Filosofia, Poesia e Giurisprudenza, si sviluppa l’intero concetto con estrema chiarezza, merito questo che farà di Raffaello l’artista prediletto della Chiesa, in quanto capace di esprimere idee complesse in forme comprensibili e di “parlare” a tutti rispondendo alle esigenze di ognuno, da quelle più semplici a quelle più articolate.

Ecco dunque che il Bello è rappresentato dal “Parnaso” con Apollo le muse ed i grandi poeti tra i quali Dante. Il Bene è rappresentato dalle “ Virtù”, con le istituzioni del diritto naturale e del diritto canonico. Il Vero è raffigurato in due affreschi, il Vero prima di Cristo, la filosofia antica, e il Vero dopo Cristo “La disputa del Santo Sacramento”. Quest’ultimo affresco è il primo che Raffaello eseguì e conserva in parte un po’ di quello schematismo compositivo tipico del quattrocento. Troviamo qui ancora Dante, al quale si riconoscevano non solo qualità poetiche ma anche teologiche. Ma è nel secondo affresco, eseguito tra il 1509 e il 1511, “La Scuola d’Atene”, che la maestria di Raffaello si esplica sia sotto il profilo compositivo che dottrinario. Intanto c’è da premettere che la filosofia antica era intesa come filosofia della natura, mentre la venuta del Cristo era fatto storicamente determinato. Orbene ci si sarebbe aspetti di vedere i filosofi passeggiare in aperta campagna ed i personaggi, che concorrono nella disputa del Santo Sacramento, in un ambiente ecclesiastico. Qui avviene l’opposto, tanto che proprio i filosofi sono dentro un’ampia architettura che, certamente non a caso, è il modello di Bramante per il nuovo San Pietro. Ebbene è proprio questo indicare i filosofi come antesignani del Verbo ed il Verbo come evento che irradia di sé la natura, a costituire la prima grande riflessione sulla verità intesa come assoluto. E nel grande tempio, al centro, sono Platone, che col dito in alto sembra stia disquisendo sul mondo delle idee, e Aristotele, che invece indica in basso sottolineando l’importanza dell’azione politica. Ed attorno sono i filosofi, ognuno con le sue idee, alcuni pronti a trasmettere il proprio sapere ad altri, come Euclide, altri che preferiscono restarsene appartati come Eraclito, ma tutti in armonia. Che poi Platone fosse il ritratto di Leonardo, Eraclito quello di Michelangelo che stava lavorando alla Sistina e che Euclide avesse le fattezze di Bramante, all’epoca doveva essere certo non secondario in questa idea di continuo rispecchiamento, di un antico che rivive nel presente e di un presente che dall’antico si alimenta. Tra i tanti filosofi, sulla destra dell’affresco, c’è l’autoritratto di Raffaello che ha dato il suo volto al più grande pittore greco, Apelle. Presunzione? No, assoluta consapevolezza dei propri talenti.


A che santo votarsi?

I nostri antenati non avevano dubbi, in caso di epidemie si rivolgevano a San Rocco ed a San Sebastiano. Un tempo le epidemie producevano inequivocabili stigmate sulla pelle dell’infetto che erano pertanto il “segno” della malattia. Dunque ci volevano Santi che avessero avuto piaghe, pustole e ferite ma che, ovviamente, ne fossero guariti. Loro, grazie alla loro indomita fede, avevano superato il flagello. Ecco la storia delle loro guarigioni.

Rocco (c. 1350-1379), nacque a Motpellier, in Francia, da una nobile famiglia. Donati i suoi beni iniziò un pellegrinaggio verso Roma. Era periodo di peste in Europa e Rocco si dedicò ai malati tanto da essere indicato come taumaturgo. Si fermò a curare i malati in varie località ed in particolare ad Acquapendente, giungendo poi a Roma dove rimase per tre anni. Nel viaggio di ritorno, a Piacenza, si ammalò di peste. Si rifugiò allora in un bosco, di proprietà del nobile Gottardo Pollastrelli, a Sarmato, presso il fiume Trebbia, per dedicarsi in solitudine alla preghiera. Qui un cane del nobile gli portava ogni giorno del cibo. Il nobile incuriosito dal comportamento del cane un giorno lo seguì e, trovato Rocco, lo curò. Tornato a Montpellier non fu riconosciuto e messo in carcere dove morì dopo cinque anni. Sul suo corpo fu trovata una tavoletta con la scritta che i malati di peste che fossero ricorsi a lui sarebbero guariti. Il suo corpo, non si sa come, giunse a Venezia, e fu sepolto nella chiesa a lui dedicata. San Rocco viene raffigurato con una piaga su una coscia, con vicino il cane, indossa spesso una mantella da pellegrino con il bordone e la conchiglia cucita sul bavero. Il culto di San Rocco si diffuse in tutta Europa a partire dal 1600 ed ebbe la maggiore estensione attorno al 1630 quando quasi in ogni località, terminata la peste di manzoniana memoria, si eresse un oratorio a lui dedicato.

Più complesso è il caso di San Sebastiano, un Santo vissuto nel III-IV. È l’unico Santo martire del quale non viene quasi mai raffigurato il martirio, che fu per flagellazione, bensì un evento della sua vita. Sebastiano, originario forse della Gallia, fece una rapida carriera come soldato dell’esercito romano fino ad entrare tra le guardie imperiali di Diocleziano e Massimiano. Avendo una certa libertà di movimento aiutò molti cristiani, diffuse il Vangelo e aiutò a seppellire i martiri. Proprio per aver seppellito i Santi Quattro Coronati fu notato, denunciato e condannato a morte col supplizio delle frecce. Dato per morto, il suo corpo fu abbandonato, ma di notte un gruppo di cristiani, tra i quali la vedova Irene (Sant’Irene), recatisi a seppellirlo lo trovarono ancora vivo. Irene lo curò ma il giovane, una volta guarito, si ripresentò all’Imperatore per proclamare la sua fede. Fu ucciso tramite la flagellazione con il bastone sul Palatino e affinché il suo corpo non fosse ritrovato fu gettato nella Cloaca Massima. Apparso in sogno alla Matrona Lucina le mostrò dove era il suo corpo e le chiese di essere sepolto sulla Via Appia presso le tombe di Pietro e Paolo. Lucina trovò il corpo di Sebastiano e lo portò sull’Appia in quelle Catacombe che da lui avrebbero preso il nome. Il culto del Santo come protettore dal contagio fu vivo fin dal Medioevo. Infatti di lui si diffuse soprattutto l’iconografia del giovane, legato alla colonna, seminudo e trafitto dalle frecce.

Rosario Romero
Mercoledì 8 aprile


La giornata promette un sole splendido. Dopo la colazione faccio subito i biscotti ricotta e mele così Nicola ne può portare la metà alla madre, Esce alle 9.30. Prima va a studio e poi a pranzo dalla madre. Alla radio e su tutti giornali il tema principale ora è come e quando affrontare la fase 2. Per molti c’è una reale urgenza di ricominciare, bisogna fare ripartire al più presto l’Italia perché c’è il reale rischio di crollo per l’economia nazionale. Invece per altri bisogna usare la cautela necessaria per evitare una ricaduta che sarebbe altre tanto disastrosa se non di più per l’Italia. Stiamo a questo punto. Io per uscire sto aspettando le mascherine protettive individuali. Proseguo con le pulizie di Pasqua: passo l’olio sul legno delle finestre del lato strada e faccio anche i vetri. Il pomeriggio quando rientra Nicola come previsto facciamo la paella con solo carne di pollo.

Giovedì 9 aprile

Mi sono svegliata molto presto fuori troppo fiocca la luce dell’alba devo accendere in cucina. Mi sono messa a scrivere il testo del secondo brano che ha composto Giacomo. Questo è più scorrevole . L’ho intitolato “Liquid”. Lo registro e poi mando testo e registrazione a Giacomo.

Liquid

Latte in goccia scende piano

Sulla pelle del bambino

Oro in bocca al mattino

Ma c’è solo il soffitto

Pazzo aiuto bere vino

Per lo sfogo canterino

In sospeso nella notte

Gli immigrati sulle onde

Alle 17.30 avevamo un appuntamento con Elsa. Ci siamo messe in contatto con una video chiamata e abbiamo chiacchierato della struttura del coro ideale come quelli che sono riusciti a registrare, tramite zoom. bellissimi concerti. Poi abbiamo parlato del nostro coro che cmq tutto sommato a noi va benissimo così com’è. Poi abbiamo cantato alcuni cori di Dido and Eneas di Purcell. Anche se non è ne facile ne perfetto,non riusciamo a cantare in sincro, ma ci piace tanto cantare così, è divertente e stimolante per tutte e due.

Venerdì 10 aprile

Alle 6 del mattino mi alzo e faccio l’impasto per fare dei panini con pancetta e formaggio. L’impasto poi deve riposare e mi rimetto al letto. Dormo fino alle 8.30, mi alzo e dopo una colazione molto rapida con Nicola che ha già fatto il caffè, insieme riempiamo la teglia con l’impasto a forma di panini e poi li inforniamo. Dopo 20 minuti sono pronti. Siamo abbastanza soddisfatti e prima di uscire li do un pacchettino per la madre.

In serata ricevo un lungo messaggio whatsapp da François, il cognato di mia sorella che vive a Parigi. Mi racconta la sua “psicosi” rispetto al Covid. Dice che non esce dal 23 marzo, da quando il suo fratello minore è morto di Covid a Malaga. Mi è arrivata tutta la sua attuale situazione e mi viene una gran tristezza pensando a come si sente. Secondo me pero non è una psicosi quello che sta vivendo: da una parte sta soffrendo un grandissimo dolore per l’enorme perdita del fratello e dall’altra sta realizzando il vero pericolo che sta fuori casa. Dunque ha paura di uscire. Giustissimo! Questa paura si mischia al dolore e diventa una miscela esplosiva e lo fa sentire perso. Questo sentirsi persi sono convinta è il sentimento che ci possiede tutti noi ultimamente. Dovremmo essere più consapevoli che il dolore degli altri si mischia perfettamente con il nostro. Siamo tutti colpiti individualmente non come singoli individui ma come collettività. Stranamente in questa attualità mondiale è il mischiarsi, del dolore con le paure negli altri e poi con il nostro dolore con le nostre paure, che ci fa sentire parte integrante dell’umanità. Entriamo e usciamo incessantemente da tutte e due le parti dello specchio e, anche se non ne siamo tutti perfettamente consapevoli, è questo che ci fa sentire l’urgenza di sopravvivere a questa pandemia. Domani voglio assolutamente organizzare una conversazione video con lui. Credo di poterlo aiutare a capire. Almeno ci voglio provare.

A proposito di appartenenza all’umanità oggi ci sono delle foto terrificanti scattate da un drone sul Bronx: “A New York morti seppelliti in una fossa comune: decine di lavoratori assunti per scavare. Finiscono a Hart Island, Bronx, i cadaveri di vittime di Covid-19 per le quali non sono stati rintracciati famigliari o soggetti che si possano fare carico della loro sepoltura. Nell’area a decenni vengono interrate persone che nessuno ha reclamato. Qui, di norma, una volta alla settimana i detenuti del carcere di Rikers Island seppelliscono in media 25 cadaveri. Ma il numero ha iniziato ad aumentare a marzo con la diffusione del nuovo coronavirus a New York, diventata l’epicentro della pandemia. E ora si stima che sull’isola, al largo del Bronx, vengano seppelliti una ventina di corpi al giorno, cinque giorni la settimana. Si ritiene che il numero delle sepolture sia quadruplicato nella Grande Mela dall’inizio della diffusione del Covid-19”.

Dopo questa info solo silenzio.

Sabato 11 aprile

Oggi Nicola cucina come primo i bombolotti al sugo di totani e come secondo sgombro al pomodoro e olive, quello rimasto ce lo mangiamo a cena. Io volevo fare l’allegra sguattera ma non me lo ha fatto fare. Ha fatto tutto lui. Faccio una foto al piatto e la mando alla nostra chat “collettivo”. Ci sono tanti commenti positivi.

Nella nostra chat del “collettivo” siamo 10 donne amiche da una vita. Quando ci si sveglia comincia un gran movimento di messaggini. Ognuna manda info private, pubbliche e pensieri oppure vignette e video sull’attualità da condividere. E poi arrivano a catena i nostri commenti. Il pomeriggio è l’ora dei telefilm, allora sono le serie più amate che sono segnalate. Verso le 20 si comunicano i film da vedere in serata. In realtà questo scrivere e leggere in continuazione durante tutta la giornata ci permette di stare in contatto le une con le altre senza perdersi neanche un momento e di questo credo che ne abbiamo tutte bisogno. Facciamo parte di una comunità molto viva e accesa. Devo dire che alcune partecipiamo di più altre di meno. Penso che anche per quelle che partecipano di meno questa appartenenza sia positiva. Io mi porto il telefonino per tutta casa e non mi perdo niente.

Oltre 22mila i morti in Usa. Altri 1.500 i decessi in un giorno.

Domenica 12 aprile

Oggi è domenica di Pasqua. Realizzo quando mi alzo che ci siamo scordati di comprare il pane e ne rimane molto poco. Al pane in realtà noi non pensiamo mai, perché normalmente possiamo sempre comprarlo al fornaretto sotto casa, che è aperto tutto l’anno, e fino alle 22, chiude solo a natale e a ferragosto. Invece ora per decreto tutti gli alimentari rimarranno chiusi sia oggi che domani. Decido di fare il pane e mi ci metto presto. Ho visto una ricetta che prevede 4 ore di riposo per la lievitazione. Così per la cena sarà pronto.

Nicola in mattinata va dalla madre. Quest’anno niente colomba pasquale e niente uova o ovetti al cioccolato. Ho confezionato un centro tavola: in un cestino di vimini ho messo uno strato di erbette che ho tagliato in un vaso del balcone, sopra ho sistemato delle uova sode e oggetti pasquali, piccole galline e pulcini, che avevo in una scatola nello sgabuzzino. Poi apparecchio sul balcone, ormai pranziamo sempre fuori. Siccome il sole picchia molto a ora di pranzo scendo la tenda. Pranziamo a champagne.

Quando tiro fuori il pane dal forno non è affatto come speravo: l’impasto è rimasto basso e duro come un mattone. Quando lo taglio dentro è ancora un po’ crudo. Non si può mangiare. Rimarremo senza pane, non fa niente. Forse proverò di nuovo dopo, ma ora non mi va proprio.

Nella chat del collettivo donne Silvana manda un video girato sul terrazzo condominiale della figlia Francesca. Alcuni condomini, il nipote Jaime, il suo papa Marco, Francesca e Silvana stanno pranzando al sole. Sono tutti molto impegnati a mantenere le distanze gli uni dagli altri, tutti sulla propria sedia con un piatto in mano. Non c’è nemmeno un tavolo. Pochi parlano fra di loro ma tutti mangiano con gusto. Si avvertono nell’aria primaverile sentimenti di allegria e di gioia nello stare insieme.

Dopo poco Patrizia ci manda un messaggino: anche lei ha pranzato con i figli e i nipoti sul terrazzo condominiale. Immagino la stessa scena.

Antonia ci comunica che anche lei è andata da Diego e Anika.

In serata vediamo Bill Gates in tv. Era stato proprio lui due anni fa a lanciare una profezia. Aveva parlato di un potente virus che in poco tempo avrebbe portato alla morte di 30 milioni di persone. “Dobbiamo rimanere calmi”, ha esordito ora riguardo all’emergenza coronavirus e poi ha continuato: “Siamo di fronte a una situazione inedita”. Gates con un po’ di ottimismo ha lanciato un’altra profezia ribadendo che, con la corretta applicazione delle misure restrittive, si uscirà dalla crisi in tempi brevi. Infine, sull’impatto economico della pandemia, ha sottolineato come “i Paesi più ricchi saranno i più colpiti” e come invece i Paesi in via di sviluppo “non potranno attuare misure stringenti allo stesso modo” considerando anche che le strutture ospedaliere “non sono altrettanto capaci di gestire un’emergenza del genere”.

Ormai è regolare, la sera davanti alla tv crolliamo sempre alle 21.30 e anche questa sera spegniamo la tv e ci mettiamo al letto alle 22. Io dopo aver risolto un sudoku mi addormento mentre Nicola legge ancora qualche pagina del suo libro.

La Svezia ammette di non avere fatto abbastanza fino a ora per fronteggiare l’emergenza. Annuncia che se i posti in terapia intensiva dovessero scarseggiare, verrebbero esclusi gli anziani.

In Usa è confermato il fatto che hanno il maggior numero di contagiati e di morti. I morti sono 1.920 nelle ultime 24 ore.

Inoltre purtroppo come previsto ci sono 2 eventi.

Il primo: Pechino blindata di nuovo, teme i casi di ritorno.

Il secondo: è la prima volta nella storia che è stata dichiarata la calamità in 50 stati. Tutti i continenti sono toccati. In Africa sta avanzando lentamente, sembra che il rallentamento sia dovuto al fatto che molti abitanti locali sono stati vaccinati di recente.

Lunedì 13 aprile

Oggi ambiente assolato già dal mattino presto. Dopo aver fatto la colazione con Nicola lui torna al letto, ha deciso di rimanerci tutto il giorno. Io mi metto al computer a scrivere il diario. Avverto un forte silenzio. Mi stupisce molto il fatto che viale Trastevere è ancora più vuoto del solito, non sta passando neanche una macchina, non stanno passando neanche i tram. Oggi è un vero mortorio. Non sento niente da almeno 15 minuti. Ecco ora stanno passando un tram e una macchina. Sono le 8.30, forse è ancora troppo presto?

Guardo il viale con i suoi alberi dalle alte chiome verdeggianti e mi confonde la bellezza della primavera in una città che oggi mi sembra solo uno frammento urbano limitato dalle mie finestre. Roma è solo un piccolo borgo fantasma. Non riesco a vivermi la gioia che la primavera suscita nel periodo della sua rinascita, anzi mi sembra crudele e indifferente al dolore umano.

Penso alla solitudine di alcune amiche che vivono questo confinamento da sole. Alcune di loro si difendono andando a comprare il giornale e il latte tutti giorni. Altre invece no, rimangono chiuse dentro casa e non vedono nessuno se non a dovuta distanza e per un attimo.

D’altra parte sembra che lo stare insieme non aiuti alcune coppie. Il conflitto quotidiano senza possibilità di pausa in prospettiva fa crescere le future separazioni . Come dice una amica, Nicola avrà un sacco di cause di separazione a settembre.

Tutto questo mi risveglia un’ansia che avevo tenuto a bada come gli struzzi, e che ora non posso più lasciare chiusa dentro. Ne voglio parlare in questo diario.

Si tratta della convivenza con delle persone indesiderate e perfino violente in tempo di confinamento obbligatorio. Avevo letto che il rischio di violenze su donne e bambini è molto più alto. Non possono fuggire. Le donne erano invitate a telefonare a un certo numero quando andavano a buttare la spazzatura. Questo sembra sia uno dei migliori momenti possibili per poter telefonare. Anche i vicini che sentono le violenze erano invitati a telefonare.

Cmq il dramma sta anche nel fatto che i giornali a grande tiratura non ne parlano. Le tragedie casalinghe? E’ come se fosse un tema tabu. Non riguarda la politica. Ogni bambino e ogni donna se la deve gestire più che mai da solo e da sola in questo momento storico. Non vengono considerati in nessuno dei vari decreti. Il covid 19 è l’unica urgenza e divora tutto il resto.

La presidente della Commissione Ue Von der Leyen: «Anziani isolati fino a fine anno» . E invita a non prenotare le ferie

Negli Usa oltre 555mila casi. Con quasi 22mila vittime superano l’Italia per numero di decessi

Fase 2 in Austria, domani riaprono i piccoli negozi

Germania verso allentamento delle restrizioni, oggi 2.537 nuovi casi

Cala l’aumento delle vittime a New York, oggi 671

Martedì 14 aprile

Oggi la giornata è coperta, sta facendo qualche gocce di pioggia e la temperatura è scesa leggermente.

Sono le 9 e sulla chat del collettivo tutto tace ancora.

Nicola a pranzo dalla madre devo solo pensare a cosa cucinare per cena: un classico sugo di pomodoro e frittata di zucchine? Why not. E poi sono rimaste ancora 2 mele cotte al forno.

Telefono a Soraya le dico che preferiamo che non venga neanche questa settimana. Le dico di stare tranquilla la paghiamo ugualmente. Ci sentiamo sabato prossimo.

La discussione è sempre più accesa: stiamo andando verso la fase 2. Inutile dire che ci saranno dei limiti e delle cautele da rispettare per evitare nuovi contagi. La regione lombardi in particolare vuol ripartire a inizio maggio, le autorità mediche sono più prudenti.

E’ stata creata una task force: sono 17 le persone nella squadra ideata dal governo per la fase della ripartenza dell’Italia dopo il lockdown imposto dall’emergenza. Accanto a Vittorio Colao, che guiderà il team, ci sono esperti in materia economica, sociale e giuridica.

Mercoledì 15 aprile

Da oggi Nicola torna regolarmente a studio. Anch’io: stanotte ho sognato che tornavo a lavorare a scuola e il bello è che ero molto fiera perchè, nel sogno, Giacomo e la sua società erano proposti per il Nobel per la pace. Mi sono svegliata bene e soddisfatta anche se è solo un sogno. Cmq ho cambiato il letto, pulito casa e ora sto facendo il colore e un taglio ai capelli. Ce n’era bisogno. Tanto bisogno

In realtà questo sogno mi fa capire che l’inconscio si agira nella mente. E’ allarmato per quelle 12 ore a settimana che Giacomo fa fuori ufficio come unità di strada.

Alle 11 ho finito di girare per casa e mi siedo al computer giusto in tempo per l’appuntamento settimanale con Elsa. Abbiamo trovato un modo per essere in sincro: ci vediamo nel computer ma il suono lo facciamo passare attraverso la telefonata sul cellulare. Siamo andate avanti con 4 cori nuovi. E’ stato più bello del punto di vista canterino.

Faccio un ragù in grande quantità, voglio che duri anche per domani.

La sera dopo cena Nicola rimane davanti la tv io vado al letto e crollo.

Giovedì 16 aprile

Giornata lavorativa: prima, encore et toujours, mi occupo della pulizia dei balconi, della cucina, del bagno e poi c’è una new entry: la stiratura. Perché? Perche semplicemente ho contato le camice di Nicola e poi ho diviso in 4 stampelle le ben 16 camice appese nello sgabuzzino.. Anche se Nicola insiste per non farlo, dice che vanno bene anche le vecchie camice rimaste ancora nei cassetti io non posso più scappare

Ho ricevuto un messaggio da Eric. Mi scrive che martedì prossimo è il 34° compleanno di Amandine. Lei sperava di organizzare una festa. Ma come si dice in Francia, stanno ancora in confinamento. Non si può. Mi chiede di fare un video per l’occasione e di farle una sorpresa mandandoglielo martedì. Riconosco in lui quell’attenzione, che ho già notato e che gli appartiene,colma di affetto nei confronti di Amandine. Dirò anche a Giacomo di farlo.

Venderdì 17 aprile

Quando mi sveglio sto ancora per un po’ a letto. Ho bisogno di elaborare il sogno che ho fatto. Stiamo, Nicola e io, in una città di villeggiatura futuristica e di gran lusso, con palazzi di vetro trasparente molto alti che danno su un mare calmissimo. Per entrare nel nostro addirittura bisogna fare qualche passo nell’acqua che lambisce un lato del palazzo. Dopo vari giri per la città incontriamo per caso un amico di vecchia data di Nicola, è l’attore Marc Hamon, che con uno sguardo gelido ci saluta e immediatamente minaccia di uccidere Nicola. Un vecchio conto in sospeso. Cambia tutto per me: mi sento in ansia e insisto per rinunciare alle vacanze e andare via. Nicola mi stupisce molto perché rimane pacifico e mi dice che gli basta comprare una rivoltella per difendersi e non ha assolutamente intenzione di andare via. Vuole aspettare per vedere quello che succede. Per cui si rimane. Andiamo a comprare i giornali e … una rivoltella. Durante tutto il percorso e a ogni angolo di strada c’è il sicario che sta li e ci fissa. La paura cresce sempre di più in me. Insisto sempre con più forza ma Nicola rimane sempre molto calmo e sicuro di se. Torniamo all’appartamento e attraverso le grandi vetrate guardo fuori e lo intravedo in lontananza, ha la mano alzata e mi indica le nostre chiavi in mano. Mi giro e vedo Nicola in camera sdraiato sul letto che sta leggendo i giornali, gira lo sguardo e mi fa un sorriso. E’ del tutto tranquillo. Io invece sono sempre più agitata. Mi precipito fuori e vado in giro. Non posso rimane a aspettare. In giro incontro una conoscente e le racconto tutto, mentre sto parlando mi si presenta, lui è a un metro di me e mi fissa sempre con il solito sguardo di ghiaccio, Allora capisco quello che devo fare. Mi devo sacrificare per Nicola. Lo devo allontanare da lì. Se muoio io Nicola ne soffrirà ma io lo salverò: “Io ti salverò!! Cmq sono sicura di poter convincerlo a desistere con un bel discorso che ancora devo capire come impostare.

Credo che il mio inconscio mi dice “No! Nicola non si deve ammalare perché è più semplice se mi ammalo io. Lui non sa gestire il dolore come so farlo io. Lui si sente perso.” Questo mi dispiace molto.

E’ rimasto tutto il giorno al letto pero si è alzato per mangiare. Ho cucinato una paella di pollo e Nicola piano pianino con suo mal di schiena ha voluto apparecchiare fuori. Prima di pranzare abbiamo registrato il video di auguri per Amandine cantando di canzoncina e di brindisi.

La bagarre in questi giorni continua a inasprirsi. Da una parte c’è chi preme per riaprire, come Veneto e Lombardia, a inizio maggio perche molti settori del l’economia del paese stano affondando, quello dell’automobile per esempio. Addirittura il presidente del Veneto, Luca Zaia, annuncia: “Sembra ci possa essere anche una ‘pre fase 2’ prima del 4 maggio, noi siamo pronti”. Da l’altra c’è invece chi è pronta ad alzare le barricate, come la Campania. aspettiamo che il comitato scientifico ci dia il via con più sicurezza.

Paola Cimmino
Roma, marzo 2020
«Cara Jessica in Rabbit,



«Cara Jessica in Rabbit,
ti scrivo perché ho la certezza che non leggerai, ma soprattutto, non risponderai mai a questa lettera. Non mi sono mai piaciute le lettere che attendono risposta. Eppure mi fa piacere dividere con te questi scarni pensieri che svegliano domande».

E io, di questi tempi, una ce l’avrei, caro Vincenzo… lei che nel lontano ’98-99 ho avuto il piacere di ascoltare e in seguito di “leggere”. Era con noi anche il Maestro Camilleri, col sigaro perennemente fra le labbra… Noi corsisti, poveri mortali, ci lasciavamo inebriare, catapultati in un mare di fantasiose policromie, cercando di rubare un po’ di quella misteriosa Arte che voi siete riusciti a trasferire nei sogni più arditi del nostro immaginario.
Il caso, o chissà cos’altro, in questo bislacco dipanarsi che è la nostra vita, mi ha ricondotto a lei, quando per me la gioventù si va attenuando, senza però viziare la voglia di giocare.
Ne ho messe su di maschere, per abbracciare nuovi sentieri, come il suo prode Annibale che tanta tenerezza e approvazione ha suscitato in me.
Romanzetto esci dal mio petto… Sono felice di averlo ritrovato con le sue rime solo nei giorni scorsi, accanto a quella fata della casa (Louise B.) che occhieggia inimitabile sotto il caschetto nero.
Ho anch’io dei romanzetti, non so da quale parte del corpo usciti, forse non la migliore… Una piccola porzione di me, parte di ciò che ho raccolto dopo avere per anni seminato.
Chissà se questi miei libri hanno «poche parole centrate e negli intervalli silenzi tutti da ruminare» (sempre per citarla).
Io non so «come si fa a trovare quel tempo che viaggia oltre le prigioni dei secondi, dei minuti, delle ore, dei mesi, del computo fastidioso degli anni; che viaggia anche oltre lo scoccare della nascita e della morte, oltre l’incedere delle emozioni, delle ossessioni, dei sentimenti».
So solo come ho impiegato il mio, a scrivere e inseguire il sogno di dividermi e moltiplicarmi fra le parole, non sempre forse rendendo al mondo quel buono e utile che tutti cercano, ma garantendo una voce a quell’inutile di cui non si può fare a meno.
Perciò, checché ne dicano gli incassi o le alte sfere, dedico a lei parte di questi frutti. E se saranno acerbi, o amari, basterà “un poco di zucchero e la pillola va giù”. O no?
Un caro saluto
Paola

Ops, la domanda, dirà lei…
Non serve, credo di avere la risposta.
Non dovrò recuperare il tempo perso.
E chissà che in fondo questo non sia il miglior Tempo che abbiamo mai avuto.

Giovanni Antonucci
Al risveglio

Al risveglio

il balsamo

del dolce flauto

del caldo violoncello

del guizzante liuto

ci rasserena

dopo la notte insonne.

Bach è medicina

dell’anima.

Presto la dura realtà

della prigione

ci toglie l’illusione.

Soffriamo gli affetti lontani

le giornate di luce

le speranze oggi deluse.

Avremo ancora vita ?

Roma 14 aprile 2020

 

Lucio Castagneri
Corrispondenza con Giuseppe Cerasari

Caro Giuseppe,

leggo su Google News a più riprese su vari quotidiani, l’ultimo è la Gazzetta del mezzogorno, a proposito dell’eparina, che conosco bene per essermela iniettata un paio di volte che per interventi chirurgici avevo dovuto sospendere il Cardirene.  E sarebbe che l’Eparina ha effetto sul Virus? Non è che alla fine andava bene anche l’aspirina (è una battuta…) che ha analoga funzione anticoagulante? E leggo in vari siti  che l’effetto mortale sarebbe in realtà legato a un problema di coagulo nella circolazione polmonare. Che ne pensi?

Caro Lucio,

ci sono evidenze scientifiche a sostegno. I pazienti attualmente ricverati seguono questo protocollo diagnostico.

 

Anna Maria Robustelli
O DENTRO O FUORI

a Roma

In bilico

tra il dentro e il fuori.

Dove poggerò

le mie gambe fini,

i miei occhi languidi

che inseguono la bellezza

perduta di questa città?

Mentre la primavera gonfia

i suoi boccioli

e colora di rosa i suoi giardini,

io resto dentro a pensarti con foga,

mai così amata da me e immaginata,

in questa nuova sembianza di silenzio e

pudore dentro e fuori del cuore.

Si stende il tuo passato sulle strade deserte

e le tue vecchie chiese respirano

allietate nel mondo nuovo del fuori.

Ma dal di dentro non ti raggiungo ancora.

Sto sulla sedia sorda ai miei fervori

e sogno il passato che fu, il futuro

che forse sarà.

Vedo solo questo cipresso agile e puntuto fuori,

che attesta cupo la mia fragilità.

Ma l’albero flessuoso resta fuori.

Io sola dentro in claustralità.

 

C:\Users\Rossi\AppData\Local\Temp\O DENTRO O FUORI - Nicco (1).JPG

Disegno di Niccolò De Sanctis

Angelo Zito
La CRESSIDRA – LA PIETÀ DER TEMPO

Er tempo tiello a mente nun se ferma

cià la pila che se carica da sola

e si rimani addietro nun t’aspetta

cammina mejo d’un cavallo trottatore.

La mente dell’omo è come er mare

mó c’è bonaccia e mó viene tempesta

er bene e er male cianno l’istesso sangue

so’ fiji de la medesima capoccia

er giusto ammischiato assieme ar farso

l’acqua cor sangue e la ciccia accosto all’osso.

E intanto er tempo lavora

e come un frullatore universale

stritola sfragne rompe li contrasti

e ar fine in quela sabbia fina fina

se fa giustizia der peccato origginale.

Pare che la cressidra segni er tempo

e invece pietosa è ‘na sentenza che

passa per quer bucetto piano piano

nun assorve, nun condanna, nun c’è appello.

Te lascia solo sfarinato nell’obblio.

 

LA DEMOCRAZZIA DER CONTAGGIO

Febbraio se n’è annato già da ‘n pezzo

pure de marzo ho contato i giorni

mó se fa sotto aprile e nun me movo

vojo véde chi è più impunito.

Che vôr dí che prima o dopo passa?

consumo er tempo a aspettà che venghi sera.

Che vôr dí che dar male nasce er bene?

l’ho sentito ripete troppe vorte.

Intanto l’orologgio s’è fermato

la porvere ricopre er calennario

stasera come ieri come domani

ripeto li stessi passi uno a uno.

Me so’ incantato a guardà, sta lí da sempre,

la macchina da cucí de pora nonna,

er fascino der particolare me cattura

mó sto dietro a ‘na mosca sopra er vetro.

Basta esco fora vado a fà la spesa

sur carello ce metto l’essenziale

sto attento a fà li conti cor compasso

artri vicino a me fanno l’istesso

quanto è democratico er contaggio

avemo messo er diabbete in quarantena,

è così che dar male nasce er bene?

pô esse, continuamo cor compasso.

Quer contaggio che oggi ciaddolora

ciavrebbe insegnato la modestia

famo un passo pe’ vorta che la corda

a forza de tirala poi se spezza.

ER TRAMONTO A SAN PIETRO

Cianno lavorato in tanti pe’ tant’anni

te vojo riccontà solo er principio

da lí poi prese forma tutto er resto.

Er Papa Giulio II, Della Rovere,

chiamó Bramante pe’ fasse fà la Cchiesa.

Quello ce lavorò pe’ giorni e giorni

e quanno portò er progetto er Santo Padre,

che amava er sole più de l’antre stelle,

papale papale je disse ste parole:

“Sta cchiesa l’hai da girà verso sinistra

ha da véde er sole quanno nasce

e se lo deve trovà ner di dietro quanno more”

Cosí si oggi te trovi lí a San Pietro

pensi che sii un miracolo de Cristo

er sole che s’annisconne all’orizzonte

cor cielo smozzicato de colori

er colonnato piazzato su l’ingresso

e li santi che je fanno da corona.

In questo Cristo c’entra poco o gnente

è merito der vicario c’ha voluto

er Sole come simbolo de vita.

Si ripensi a quanto disse allora

capischi mejo l’antifona der Papa.

Pure un cristiano quanno che vié ar monno

cià er sole che lo bacia su la fronte

ma ar tramonto se lo trova ner di dietro.

Donatella Gallone
Goethe in salotto. Ha uno sguardo grande e occhi italiani

Nella penombra di un pomeriggio silenzioso, sento un fruscio. Sono a casa in piena settimana, seduta alla scrivania, davanti al computer. Il tempo dilatato del confinamento è una confortevole pausa da un’ansia che percorre sempre i miei giorni. Un andamento rallentato cui mi adeguo volentieri, seguendo i ritmi di un mondo costretto a camminare con passo lento.
Mi alzo per capire da dove venga questo quasi impercettibile, eppure insistente rumore. Dietro la libreria, seduta sul divano, la figura di un uomo avvolta da una luce che mi impedisce di distinguerne i lineamenti. Sono paralizzata dallo spavento, ma il suono di una voce profonda e rassicurante mi tranquillizza.
«Sono un amico, vedo i miei libri tra i tuoi scaffali. Anche quelli che parlano di me». E mentre pronuncia queste parole, il velo abbagliante che lo avvolge si spegne: adesso lo vedo distintamente. Ha uno sguardo grande, gli occhi belli e scuri, occhi italiani. Ma lui parla tedesco.
E improvvisamente mi fa piombare indietro nel tempo, quando ai tempi dell’università era il mio raggio di sole quotidiano. La voce mi si frantuma in gola e non solo perché sono emozionata. Non so come rivolgermi a lui, creatura divina della letteratura mondiale. Poi le mie frasi scivolano nel tu, come se fosse un amico atteso da sempre.
«Volfango, in questi giorni ho pensato spesso a te, ogni volta che in televisione ascoltavo il dibattito sull’Europa e su questa solidarietà riluttante soprattutto da parte di una Germania chiusa nel proprio egoismo. E un po’ smemorata. Perché non ricorda più l’aiuto ricevuto dopo la fine della seconda guerra mondiale. E a dirlo non siamo solo noi italiani. Tra le voci che se ne rammentano, anche quella dell’ex cancelliere Gerhard Schröder».
Goethe sorride e alza le spalle. «Ma sai come sono i tedeschi… A volte perfetti, precisi, disciplinati, anche giocherelloni; e improvvisamente si rifugiano in una ottusità inspiegabile. Se ben ricordi, a un certo punto della mia vita, pur avendo un incarico politico, sono fuggito dal granducato di Weimar, in Italia, in cerca dell’ossigeno che solo il Sud poteva darmi. Al duca Carlo Augusto chiesi una licenza a tempo indeterminato. E mi calai nella mia nuova identità: Jean-Philippe Moeller. Fu una gioia per me approdare anche a Napoli».
Lo guardo piena di ammirazione per la semplicità con cui si esprime, come se fosse il vicino della porta accanto. Senza alterigia, Goethe non ha mai avuto timore di contraddirsi per essere se stesso. «Non ti sei mai allineato al gusto dei tuoi tempi, lo so. E quello che hai detto su Napoli è meraviglioso… Ne hai capito la vera essenza…».
Il suo viso si adombra, corrucciato, in una smorfia. «Quante inesattezze hanno riferito sul mio viaggio in Italia. Molte persone non l’hanno nemmeno letto, ma ne citano pensieri per sentito dire. Non ho mai giudicato i napoletani, né biasimati. Anzi. Io, tedesco, superstizioso come un napoletano, sono stato colpito da quanto questo popolo lavori e riesca comunque a godersi la vita. Non ho mai accettato il mito del napoletanismo deteriore. Non ne ero interessato».
«Dalle tue pagine italiane si leva quella sinfonia vitale che ti inebriò, incantato dal presepe, ma ineluttabilmente attratto dal Vesuvio».
«Ho voluto conoscerlo da vicino e mi sono spinto fino a quella gran buca fumante, ne ero talmente affascinato che sono rimasto lì, incurante del pericolo di una grandinata di lapilli».
Si concede un lungo intervallo e non oso interromperlo. Lo sguardo ondeggia nel vuoto, sembra inseguire le sue memorie: «Ero felice come un bambino quando varcammo il Brennero. Bolzano, Trento, poi Rovereto. E qui cadeva il confine linguistico. Sentivo parlare finalmente italiano, quella bella lingua che mi aveva insegnato mio padre. In quel momento diventava viva e potevo usarla: non è mica come oggi, che basta un clic di smartphone o di computer per sentire suoni stranieri. Quando giunsi a Venezia realizzai il mio sogno di bambino che giocava con il modellino paterno della gondola. Potevo davvero girare in gondola per i canali. Poi Ferrara e Bologna, ma non vedevo l’ora di arrivare a Roma. Qui ho trascorso il periodo più felice della mia vita. Nessuno sapeva chi fossi veramente, l’anonimato mi rendeva libero e felice, uno studentello in vacanza. Mi spinsi fino a Palermo e poi ritornai a Napoli, città incomparabile che non avrei più rivisto, e a Roma ancora una volta. Per separarmi dopo due anni di assenza dalla mia patria: un atto doloroso. In ogni grande separazione c’è un germe di follia».
Lo ascolto in silenzio, pensando a quanto si sia discusso in questi giorni del contagio da Covid-19 con cinismo degli anziani, quasi come se fosse più importante salvare una giovane esistenza che una ormai prossima alla fine. Come se la vecchiaia facesse parte di una realtà residua da scartare.
Goethe sembra intercettare il flusso dei miei pensieri: «La mia vita è stata fortunata fino agli ultimi giorni. Poco prima di morire, a 82 anni, ho concluso il mio Faust, l’opera che avevo concepito a 20: al centro lo studioso rintanato nel suo studio che suggella un patto con Mefistofele e viaggia con lui alla scoperta dei piaceri della terra…. Non dimenticare: l’essere è eterno. Nessuno può dissolversi nel nulla».
Si alza cautamente. Ho il tempo di chiedergli cosa preveda per questo nostro futuro di persone travolte da una pandemia, nella nostra arroganza di padroni del pianeta.
«Ho grande fiducia nell’ultima nobiltà dell’essere umano. Al di là di ogni mediocrità e dello sminuzzamento critico dei giornali… Nutro la certezza assoluta che un Dio esiste e sta dentro la natura. E credo nel rispetto per i valori della cultura che superano ogni confine e un giorno faranno di tutta l’umanità una grande famiglia». Così il savio di Weimar si allontana.

.

 

Josephine Oduraa Attafuah*

ODE to CoronaVirus

What is your first name ?
Corona or Colonial !
Creating a new empire altogether;
Brazing through with an invisible army,
Walking over borders closed by Man,
Giving instructions in all languages, and
Leaving behind empty homes and rivers of tears.
Eiii Corona !
Your address is still unknown
Leaving bigger heads to fight each other,
Allowing smaller heads to run aimlessly,
And putting pressure on the Human brain;
Giving restless nights to Human leaders.
Eiii Colonial !
You have arrested and imprisoned Mankind
Without any written charges;
You have made unattractive common practices like sneezing and coughing !
You have forced Man to avoid being Human – Touching, holding, shaking hands, hugging and kissing !

*Josephine Oduraa Attafuah è una giovane scrittrice ghanese. Crede che la scrittura sia il modo migliore per dare vita alle proprie emozioni e ai propri incontri.

ODE a CoronaVirus

Qual è il suo nome di battesimo?

Corona o Coloniale !

Creare un nuovo impero del tutto;

Brasando con un esercito invisibile,

Camminare oltre i confini chiusi dall’uomo,

Dare istruzioni in tutte le lingue e

Lasciandosi dietro case vuote e fiumi di lacrime.

Eiii Corona!

Il tuo indirizzo è ancora sconosciuto

Lasciando teste più grandi a combattere tra loro,

Permettendo alle teste più piccole di correre senza meta,

E mettere sotto pressione il cervello umano;

Dare notti insonni ai leader umani.

Eiii coloniale!

Avete arrestato e imprigionato l’Umanità

Senza alcuna spesa scritta;

Avete reso poco attraenti pratiche comuni come starnutire
e tossire!

Hai costretto l’uomo ad evitare di essere umano – Toccare,

tenere, stringere la mano, abbracciare e baciare!

Eii Colonial Corona!

Eiii Corona !
What is your destination ?
Still unknown to the human mind.
You have humbled our soothsayers,
You have betrayed our demi-gods who lived by trading in fear and pomp; and
You have confused our manipulators, magicians and book-long specialists.
Eii Colonial Corona !
We do not even have reason or the courage to predict when you will announce your victory;
Mankind has lost faith in all Humans.
You are the Colonial Corona.
We are on our knees behind closed doors,
Waiting for your Solution !
Eiii Coronavirus !!!

Eii Colonial Corona!

Eiii Corona!

Qual è la vostra destinazione?

Ancora sconosciuta alla mente umana.

Hai umiliato i nostri indovini,

Avete tradito i nostri semidei che vivevano commerciando nella paura e nel fasto; e

Avete confuso i nostri manipolatori, i maghi e
gli specialisti dei libri.

Eii Colonial Corona!

Non abbiamo nemmeno la ragione o il coraggio di prevedere quando annuncerete la vostra vittoria;

L’umanità ha perso la fede in tutti gli Umani.

Voi siete la Corona coloniale.

Siamo in ginocchio a porte chiuse,

In attesa della vostra soluzione!

Eiii Coronavirus !!!!

SHADES OF BLACK AND BRIGHT

From the shades of black and bright we arose

Filling the pots of our hearts to the brim, we set out

Grabbing and clutching onto us with clenched teeth,

Just as the anvil and hammer metamorphose into fabricating,

It held onto us, needing not a shake off to relent.

Without wasting time, we ran into safety

We ran into our homes

Hoping a new dawn will awaken a better day

The little girl, whose only refuge was the lessons

Intimate abuses from he whom she called family

Tears and sorrow ignite her days as she hopes in silent torment

For a weight-lifted tomorrow

The hidden future leaders, who no longer smile

Smile at the conference of knowledge

Because the halls of acquisition have been thrown into closure.

He who has no time at home, yet, is expected to come out in ovation.

That bright boy, who prays every night after returning
from Paapa’s farm

The lantern’s light goes off and he has to walk several kilometers to buy kerosene.

No knowledge reaches him from the way forward

In nothingness, he pensively awaits a sign, unknown the modernized

Weary has dawned on us

As we barely count the days anymore

A miracle, though we still believe in

That from the shades of black and bright we will arise.

 

SFUMATURE DI NERO E BRILLANTE

Dalle sfumature del nero e della luce siamo sorti

Riempiendo i vasi del nostro cuore fino all’orlo, ci siamo

messi in cammino

Aggrapparsi e aggrapparsi a noi con i denti stretti,

Proprio come l’incudine e il martello si trasformano in fabbrica,

Si è aggrappata a noi, non ha bisogno di una scossa per cedere.

Senza perdere tempo, ci siamo messi in salvo

Siamo corsi nelle nostre case

Sperando che una nuova alba risvegli un giorno migliore

La bambina, il cui unico rifugio erano le lezioni

Abusi intimi da parte di colui che lei chiamava famiglia

Lacrime e dolore infiammano i suoi giorni come spera

nel tormento silenzioso

Per un peso sollevato domani

I futuri leader nascosti, che non sorridono più

Sorridi alla conferenza della conoscenza

Perché le sale di acquisizione sono state gettate in chiusura.

Colui che non ha tempo a casa, tuttavia, dovrebbe uscire in ovazione.

Quel ragazzo brillante, che prega ogni sera dopo il ritorno
dalla fattoria di Paapa

La luce della lanterna si spegne e deve camminare per diversi

chilomeri per comprare del cherosene.

Nessuna conoscenza lo raggiunge dalla strada

Nel nulla, attende pensieroso un segno, sconosciuto ai moderati

Weary si è affacciato su di noi

Visto che ormai contiamo a malapena i giorni

Un miracolo, anche se crediamo ancora in

Che dalle sfumature del nero e della luce sorgeranno.

* Josephine Oduraa Attafuah is a young Ghanaian writer. She believes writing is the best way in which one gives life to his or her emotions and encounters.

Maggie van der Toorn
Sogni

Mi sono accorta che sto sempre più entrando nell’effetto della quarantena dai sogni che faccio. Il periodo è lungo e sta cambiando il ritmo della quotidianità, anche di quella notturna. Concludo frequentemente con maggior stanchezza le giornate e nonostante gli occhi che bruciano e il sonno persistente, il riposo notturno non è agevolato. Mi sveglio più volte durante la notte, stupita da quello che ho sognato.

Così ho guidato la macchina su strade deserte per chilometri senza incontrare nessuno. Arrivata al supermercato mi sono messa in fila, ma non avendo la mascherina non sono potuta entrare. Il frigo a casa era vuoto e mi chiedevo cosa avrei potuto dare da mangiare alla mia famiglia.

Un’altra volta invece sono andata in cartoleria e avevo appoggiato la borsa sul banco per prendere il portafoglio. Mi sono distratta da un articolo che aveva attirato la mia attenzione e mi sono allontanata un attimo. Poi sono uscita. Una volta arrivata a casa mi sono resa conto che non avevo la borsa. Sono tornata di corsa, ma il negozio nel frattempo aveva chiuso per il decreto del coronavirus. Così sono rimasta senza portafoglio e senza telefono. Un bel guaio.

Sono perfino andata nel centro della città. C’era tanta gente e tanta vita e tutti sorridevano felici. Guardavo le vetrine ed entravo e uscivo dai negozi con diversi acquisti nei sacchetti. Camminavo con i tacchi alti sui sanpietrini, ma avevo difficoltà a mantenere l’equilibrio perché avevo portato le pantofole per ben due mesi e i piedi non erano più abituati a stare stretti nel pellame. Credo che siano sogni da evidente eccesso di quarantena.

Tra tutti i sogni però ce n‘è uno che sto realizzando durante l’isolamento dalla società che mi sta svegliando dal torpore e devo ringraziare la FUIS per questa iniziativa, il diario del coronavirus. Perché è da qui che sto ripartendo ed è da lì che mi sono ricordata che scrivere è anche sognare. Sto scrivendo un libro, il quinto. Lo volevo fare da tanto tempo, ma non trovavo ispirazione, né il coraggio per iniziare. Ora invece l’ispirazione è arrivata, come mi è tornata la voglia di raccontare. Mi sono promessa di procedere con una certa costanza e di portare a termine quello che da tanto volevo fare: scrivere un noir. Nella scrittura con ci sono confini, né limiti. Tutto è possibile. Scrivo e ricordo il mondo com’era, quello che abbiamo perso e quello che forse tornerà. E più scrivo, più mi rendo conto che la scrittura è un sostegno per una nuova partenza. Una pedana da cui saltare e volare liberamente nell’aria.

E ora le giornate scorrono velocemente, le notti diventano lunghe perché le dita formano parole e frasi che danno vita ad una nuova creatura. La mente è impegnata a creare, senza farsi prendere dalle preoccupazioni, facendo diventare più forte il sogno da cui partire per tentare di ritornare ad una realtà tanto bramata.

Pietro De Santis

Diciassette aprile venerdì

Conseguenze evidenti della pandemia sono le fantasie paranoiche.

Il termine pandemia richiama l’idea del pandemonio: tutto (pan) il popolo (demios) ha la mente affollata da tutti (pan) i demoni (demonion). La particina iniziale “pan” evoca anche un’immagine mitologica, Pan dio delle montagne e della vita agreste: munito di corna e piedi caprini, ama boschi e sorgenti, è patrono del riposo pomeridiano – soprattutto all’aperto – durante il quale è capace d’infondere il timor ‘panico’. La pandemia induce nella mente i demoni dell’inconscio e provoca le crisi di panico. Etimologia stiracchiata, ma significato pratico autentico.

Non bisogna ritenere paranoico solo il presidente degli Stati Uniti che si scaglia contro l’oms “convinto” di essere buono – tutti i paranoici sono convinti di esserlo –; ma anche il presidente di uno Stato amico, quando svaluta i problemi dello Stato amico adiacente, perché è sicuro che lì viva un popolo di cretini. È paranoico ritenere gli altri più cretini.

Abbondano le fantasie millenaristiche che considerano prossima la fine del mondo. Le teorie scientifiche cosmologiche immaginano cicli che si concludono, ma è come scavare un buco nella spiaggia in cui si vorrebbe travasare l’oceano (lo pensava Sant’Agostino in merito al mistero divino).

I credenti – alcuni dei quali fanno riferimento alle profezie dei Maja – pur delirando, sembrano però più sani di quei non credenti che condiscono le fantasie più comuni con le proprie salse: ne sono esempi i criteri della pulizia e della clausura.

Alcune persone lavano le mani fino a spaccarle, per aver sentito in TV che bisogna farlo spesso: puliscono ripetutamente – in casa propria – ogni superficie già pulita e scartavetrano il proprio corpo con i prodotti più aggressivi, finendo nel panico per i bruciori e le lesioni.

Altri rifuggono con orrore l’aria aperta, perché vi si annida il virus, qui inteso come entità demoniaca: tengono chiuse le finestre; non si avventurano sul balcone e sul terrazzo anzi, per maggior sicurezza, chiudono le imposte e restano al buio nonostante la bellissima primavera.

Non si affacciano se non per quelle attività sociali di stampo mediatico, inizialmente interessanti ma sempre più inconsistenti ed ormai espressioni evidenti dell’angoscia.

Conquistano terreno le teorie dietrologiche, come la produzione del virus in laboratorio.

Non ne so giudicare la consistenza, ma la qualità paranoica zampilla gioiosamente: gli esseri umani chiedono aiuto alla scienza e, quando questa vacilla, propongono spiegazioni alternative quali la volontà di Dio oppure il disegno di una lobby di potere. Della volontà di Dio si è detto e non la si vuole disturbare ancora.

Il piano politico malvagio suona così: una grande nazione, per combattere l’aggressione economica di un’altra grande nazione, gli tira contro un virus. Tutti si difenderanno in ritardo, perché all’inizio si è sempre un po’ lassisti (alcuni dicono lassativi); l’effetto della bomba si dovrebbe vedere a novembre, per le importanti elezioni presidenziali.

Ancora tre fantasie paranoiche: un’amica è terrorizzata dal vaccino (a suo dire prodotto di Bill Gates!), con il quale le inietteranno un microchip per il controllo degli spostamenti! Io so, però, che i suoi spostamenti la portano dove non dovrebbe andare… Un altro, un amico importante, ritiene l’energia vitale del suo lavoro ormai consumata: è accorato e pieno di sofferenza sociale. Un paio di settimane orsono, aveva tentato di farsi largo a gomitate approfittando del virus: fu respinto con perdite. In tutti gli esempi riportati le fantasie paranoiche scaturiscono dal culto di se stessi.

Ultima, la mia fantasia. Mi ha destato un incubo: Zeno Cosini immagina che un uomo, più pazzo di altri, si arrampichi fino al centro della terra e vi ponga la bomba più potente per distruggere quest’atomo opaco del male: l’uomo più potente della terra lascerà morire migliaia dei propri elettori affinché ne muoiano milioni altrui?

Disperazione.

Un’ora di ginnastica e un’amica piena d’ironia mi hanno riportato sulla terra. Raccontava di aver concluso una fatica paranoica: la lettura integrale e noiosa del libro di una famosa scrittrice – non ne rivelo l’identità –, per verificare se davvero la sua superbia fosse uguale a quella della propria suocera; pare di sì.

Ci sono persone sane al mondo.

Maria Teresa Ciammaruconi
Supino, domenica 5 aprile

la morte del maestro Giuseppe Agostini

Sembrava immortale.

Da un mese si rifiuta di aprire la porta di casa. Il giardino è un groviglio di rovi.

-Papà, ti ho portato da mangiare

-Vai via, non ho bisogno di niente. Il decreto parla chiaro: solo in caso di grave necessità

-Non basta che hai novant’anni e da un mese te ne stai chiuso in casa, da solo? Ormai hai finito tutte le provviste

-E se tu sei un’asintomatica contagiosa? Vuoi farmi morire prima del tempo?

Oggi è troppo dolce l’aria, non può essere un giorno per morire e neanche per ciondolare tra letto e poltrona al bagliore sinistro di citazioni bibliche, quelle per le ore fatali. Meglio richiamare alla mente la luce degli affetti, qualche fantasia amorosa, rispolverare quel sorriso conservato gelosamente da rievocare…solo in caso di grave necessità.

Eccola. Dopo un mese di silenzio, Il Maestro pensava di non essere più degno di lei. Le grandi passioni, si sa, sono infedeli, eppure prima o poi tornano a ricordarci chi siamo. Filosofia, letteratura sono state irresistibili amanti, ma la regina è sempre stata lei: la musica

Si avvicina sfoggiando per lui una seduzione intima, lo provoca non per sconvolgerlo ma per dargli pace: Allelùia alleluià…

Il pianoforte è sempre aperto, anche se da mesi lui si limita a sfiorare i tasti senza il coraggio di sedersi. Ma oggi non può deluderla, è il momento di cantare per lei, suonare, onorarla per l’ultima volta. Intona all’unisono: Allelùia alleluià…

Quelle note da parrocchia di paese si impongono più potenti di una fuga di Bach : Allelùia alleluià, passeranno i cieli, passerà la terrà, la sua parola non passerà. Ridicolo inno per seminaristi.

Ma le porte e le finestre sono chiuse e nessuno lo sente, cade anche l’ultima maschera, non c’è più nessuno da stupire. Sono loro due da soli, finalmente: Allelùia alleluià… la voce gli allarga il petto, il respiro fluisce liberato da ogni nodo. Un’emozione infantile lo rende pazzo di gioia, appagato più di quanto non abbiano mai fatto le platee plaudenti. Allelùia alleluià… le spalle sono diventate forti per un abbraccio più avvolgente dell’Inno alla gioia. Le dita circuiscono i tasti perché la leggerezza diventi colpo d’ala; e l’energia si propaghi oltre il corpo fino al possesso dell’ultima nota

Il Maestro canta.

Canta per i tarli, per le formiche che entrano dalle sconnessioni

per il frigorifero vuoto, i piatti sporchi nel lavello, le bottiglie a metà, canta per il suo letto sgangherato, per il cappello di lana a forma di elmo, per le ciabatte sformate e i calzini rossi.

Canta per i suoi quadri appesi: guardano lui che non li vede più per il vaso etrusco dove beveva nelle grandi occasioni

per l’obelisco che ha fatto costruire nel giardino, sopravviverà a lui come le piramidi ai faraoni.

Canta per i monti Lepini che incoronano d’ombra il suo paese, i castagni e le azalee in gara sui balconi

canta per il cimitero di Patrica dove riposa il poeta Libero De Libero.

Canta per quelli che al suo funerale non potranno cantare, imbavagliati da un decreto legge che obbliga tutti a restare in casa, canta per le strade del mondo svuotate dalla paura del Nemico Invisibile.

Il Dio Sconosciuto, a cui ha dedicato l’obelisco, è venuto a prenderlo, prima che il Nemico osasse avvicinarsi.

-Non è stato il coronavirus, è che stava male da tanto tempo. Non aveva più la forza di alzarsi, ma ha proibito a chiunque di avvicinarsi, anche alle figlie.

Sembrava immortale.

Francesco Terrone
MILANO RESISTI

Sirene spianate corrono per la città

mentre cori di dolore

non vengono ascoltati

dalla pochezza di anime perverse.

Politica e politicanti si atteggiano

in cori d’immagine che si perdono

in labirinti di parole.

L’economia dei corrotti rivendica

il primato della pochezza

su corpi inermi che chiedono giustizia.

Morti congelati per rendere più grassi

gli zaini del Giuda dal colletto bianco

che, con sguardo felino, muto,

attende la prossima preda.

Maledetti non giocate d’azzardo

su chi piange

su chi crede in un Dio

che oggi ha solamente la voce

di chi muore senza pace.

Giampaolo Chiarelli
PER UN DIARIO DI UNA QUARANTENA

Io vivo a Codigoro, in provincia di Ferrara, nella parte ferrarese del Delta del Po, un paese di circa 11500 abitanti, molti meno rispetto ad alcuni decenni fa.

Sto soffrendo anch’io, alla mia maniera, i disagi portati tra la gente dal terribile Coronavirus, o Covid 19.

Nella fascia costiera della provincia ferrarese quella che in altre zone è un’epidemia dilagante, dai primi di marzo fino ad oggi non è apparsa esageratamente in espansione. Fino ad oggi, e si è alla fine di marzo, i contagiati, da un solo caso di qualche settimana sono arrivati attorno alla decina. Nessun morto per il contagio, qualche ricoverato per la malattia all’Ospedale del Delta.

Ma l’allarme presso la popolazione è molto sentito, la gente lo vive sul serio perché le autorità locali hanno disposto precauzioni e controlli molto severi.

La città di Ferrara con la sua provincia dunque non è finora troppo funestata dal Coronavirus, rispetto ad altre province emiliane più settentrionali come Piacenza e Parma, già da tempo segnalate come zone in forti pericoli. Molto meno funestata di grandi città del Veneto come Verona, della Lombardia come Lodi, Bergamo, Brescia e soprattutto Milano. Il virus, tanto insidioso e imprevedibile, è tanto tenace che in poco più di due mesi ha invaso tutto il pianeta. Tanto che adesso è meglio definirlo, come alcuni esperti hanno fatto, una pandemia vera e propria.

Questo allarme da Coronavirus, da single e pensionato come sono, lo vivo penosamente in una solitudine speciale. Una solitudine più sentita e grave che quella di altri periodi, di altri anni che ho trascorso qui, dove la gente è cordiale e socievole ma (riferisco il parere anche di altre persone che si sono pronunciate in proposito) disposta ad aperte amicizie solo a condizioni chiare, specialmente per quanto riguarda persone anziane venute qui da altri luoghi d’Italia.

La vivo, questa solitudine, in una vita che va avanti giorno dopo giorno a rilento, al rallentatore. Ci sono sicuramente delle ragioni, non solo imputabili al Covid 19.

Come per una preoccupazione incombente e sempre più gravosa, di tipo che si potrebbe dire corale, avverto il disagio di tanta gente che per tenere lontano il contagio non può più lavorare: gestori di bar, pizzerie e ristoranti, alberghi, ritrovi, cinema, teatri, ma anche lavoratori, operai e impiegati in aziende che hanno dovuto chiudere, e sono senza lavoro e senza guadagno. E ci deve pensare non solo lo Stato ma l’Unione Europea a trovare i soldi per assicurare una sopravvivenza a tante persone.

E’ un periodo di tempo che vivo soprattutto con la paura di venire contagiato, allora potrebbe essere un disastro.

Solitudine giustificata, come ben so, da disposizioni governative che riguardano tutto il popolo della nazione, ma lontana dallo spiegare, in questo caso, il proverbio che dice mal comune mezzo gaudio. Certe volte la vivo con una specie d’insofferenza, pur guardandomi bene dall’uscir di casa senza validi motivi come andare dal medico, in farmacia, a fare un po’ di spesa al supermercato, sebbene per gente come me ci siano volontari e volontarie che si offrono per portarti a casa quanto ti basta per vivere appartato (ma c’è talvolta qualche dimenticanza nella lista della spesa che consegni loro).

Bisogna guardarsi bene dal compiere trasgressioni perché, uhm!, ci potrebbero essere sanzioni pecuniarie addirittura iperboliche. Evidentemente anche le forze dell’Ordine in questi frangenti sono condizionate dalla psicosi dominante e risentono della severità intransigente degli ordini impartiti dalle alte sfere.

Una solitudine che non mi mette addosso, però, sentimenti di particolare scandalo. Vivo in una casa non grande, ma abbastanza bella e comoda, di mia proprietà. Ascolto e capisco i principali slogan mediali con le loro raccomandazioni tipo Io resto in casa o Tu resta a casa. Nel pessimismo in cui mi trovo finisco per proiettarvi l’angoscia della mia personale solitudine.

Una solitudine spaventosa perché di origine psicologica, proprio così. La vivo certe volte anche con il pensiero che vagola in una specie di vuoto mentale, con stati d’animo di schietta paranoia come può avere colui che si sente in balia di eventi imprevedibili nell’immediato, come se si trovasse in una barca che va alla deriva e non è ottimista riguardo ad un approdo non precario, fermo, e quindi al futuro. E’ vero che leggo molti libri, ora i giornali passano in secondo piano nel cartaceo, meglio consultarli per lo più online. In questi giorni ho riletto con interesse Paesi tuoi di Cesare Pavese, Fuoco Grande di Cesare Pavese e Bianca Garufi, Psicologia della schizofrenia (Ueber die Psychologie der Dementia praecox: ein Versuch) di Carl Gustav Jung e La miglior vita di Fulvio Tomizza, che ancora negli anni ‘70 mi aveva mandato, allora abitavo nel Milanese, un biglietto di congratulazioni per un mio racconto che aveva letto sulla rivista milanese di cultura ed arte “Fenarete. Letture d’Italia”. Vero pure che guardo spesso la televisione: rubriche di gente che va in giro per il mondo e lo fotografa, lo filma, lo descrive e lo commenta; rubriche di cultura, di arte, di storia, approfondimenti e messe a fuoco su fatti politici e di cronaca; telegiornali, molti telegiornali con cronache che si aggiornano una giornata dopo l’altra finché tira quest’aria. In certi momenti di mancanza di tono si tratta di notizie per me inesorabili fino alla noia, all’accidia. Di film attualmente ne guardo pochi.

Ora sarebbe nell’interesse di tutti cercar di uscire da quest’atmosfera angosciosa motivatamente indotta dal terrore del Covid 19. E fra una trasmissione e l’altra, tra quadri di cefalea letargica e momenti d’improvviso stupore, ci sono momenti in cui la testa è priva della capacità di mantenere attenzione e pensiero, come mi sembra di avere già accennato. Non c’è pensiero o addirittura il sospetto che il pensiero venga portato via dal cervello, come per un furto dell’ideazione. E ci si trova in una specie di catatonia che si esprime nella mancanza di propositi, di progetti, di iniziative (per la paura che tutto venga brutalmente frustrato), nella sfiducia in se stessi, nell’incapacità, nel senso di un’estraniazione che porta alla debolezza dell’essere e ad una pigrizia invincibile che conduce all’indifferenza anche verso se stessi. E sembra che fra tante cose che si sentono dire in questi giorni attraverso i massmedia manchi perfino il senso della speranza e si abbia anche voglia di piangere. Papa Francesco in questi giorni è stato ripreso per televisione tutto solo in Piazza San Pietro per andare sotto un baldacchino a pregare e a impartire la sua benedizione. E sabato 28 marzo è arrivato al punto di proclamare una Giornata del pianto, un pianto certamente purificatore.

Per tante persone animate da una buona volontà, in questo periodo di quarantena, mettere ordine in casa, pulirla, riordinarla in tutte le sue stanze, esercitarsi nell’arte della cucina, ascoltare musica secondo i propri gusti, fare del moto, della ginnastica aerobica, coltivare amicizie al telefono, via Whatsapp e per altre vie, è cosa buona e conveniente, ma se ci sono condizioni e clima domestico favorevoli, stati d’animo di non troppa emergenza. Altrimenti un giorno dopo l’altro è una vita che procede come al rallentatore, faticosa, la vita se ne va a pallino, che si sia arrivati al picco nella curva della lotta al virus o che il picco stia per arrivare, che ci siano ancora delle verifiche da fare in virologia, farmacologia e medicina, per eliminare una pandemia che fino ad oggi, che io mi ricordi, non ha avuto l’uguale. Sento dire che la scienza è arrivata a risultati importanti, però non ancora definitivi nella lotta al Covid 19. E risulta una misura prudenziale obbligatoria prolungare la necessità di rimanere in casa fino al 14 aprile.

Sinceramente, in questo periodo, dall’inizio del mese fino ad oggi, io ho vissuto, vivo questa quarantena così. Resisto, m’impegno a resistere per quanto posso a tante difficoltà, cerco di tirare avanti, e lo dico con il presentimento che ce la faremo. Vorrei proprio anch’io che finisse questo opprimente incubo, uscire fuori da questo tremendo tunnel, arrivare a vivere un po’ meglio, spero presto. In questo senso qualche speranza per fortuna mi è ancora rimasta.

30-3-2020

Carlo Piola Caselli
Appunti Coronavirus 5

Continuo i miei appunti, la Parca non mi fila, ha ben altro da fare, meglio così! Le passo davanti quatto quatto, cercando di non farmi notare.
Per le festività ho ricevuto un messaggio così concepito, «Un cordiale augurio di Santa Pasqua, nonostante la prigione, a tutti gli amici e conoscenti», al quale ho risposto in questa maniera, «Non è prigione, è “coprifuoco” contro il nemico invisibile, anche perché ciascuno di noi può essere portatore sano, quindi vettore inconsapevole di bombe apparentemente senza peso e dimensione. Comunque, auguri anche (e soprattutto) a chi si sente prigioniero di sé stesso».
Infatti, si tratta di una bomba strana, poiché non è come ad Hiroshima, con la distruzione di un’intera città, non come quelle delle due guerre mondiali, che colpivano chiese, case, fabbriche, ponti, ferrovie, attività varie, ma una bomba che distrugge solo uomini, donne, che li mette in una diversa catena di montaggio (o meglio, o peggio, persino le parole vanno usate al contrario, diciamo quindi in una catena di smontaggio), bare, camion, forni crematori, urne cinerarie.
Poiché in questo periodo ne approfitto per riordinare la mia biblioteca ed il mio archivio storico, noto che dei documenti, mentre prima passavano sott’occhio quasi inosservati, quasi silenziosi, in certi momenti, all’improvviso parlino, anzi gridino, è il caso di una busta grande, formato A/4, della “Giornata Mondiale della Sanità” del 7 aprile 1991, in cui è scritto, come tema, «Les catastrophes frappent sans prévenir / Soyons prêts!».
Il mondo del lavoro si sta ristrutturando, non possiamo parlare di “rivoluzione tecnologica”, ma sicuramente di “evoluzione tecnologica”. Le grandi aziende si ristruttureranno, sviluppando in maniera ancor maggiore l’automazione, per cui si perderanno tantissimi posti di lavoro, con l’affiorare di maggior allargamento delle problematiche sociali. Già Carlo Marx lo aveva previsto, considerando che, con la “Rivoluzione Industriale”, l’uomo avrebbe avuto più tempo per leggere, andare a pescare, dedicarsi alle sue attività preferite, poiché molto del lavoro lo avrebbero fatto le macchine. Soltanto che in questi ultimi decenni c’è stata una grossa esplosione demografica, con tante città che hanno superato i 10 ed i 20 milioni di abitanti!
Abbiamo seguito i riti latini della Settimana Santa, maggiormente incentrati sulla Croce, sulla Passione, mentre quelli greci evidenziano assai di più la Resurrezione, poiché le persone esclamano, in maniera liberatoria, «Χρίστος Ανέστη!», ossia «Cristo è Risorto!», dando un più autentico significato alla Pasqua, intonando quindi un inno che suona così: «Cristo è risorto dai morti, Con la morte ha vinto la morte, E a quelli nelle tombe ha donato la vita».
Stranamente Venerdì Santo in piazza San Pietro è stato recitato il “Pater Noster” con la vecchia formula, in cui è scritto «non c’indurre in tentazione», poiché è contro la logica, se si presuppone che Dio sia il bene. Infatti, qualche mese fa, in una gita a Bucchianico, città natale di San Camillo de Lellis, posi il quesito ad un anziano sacerdote, il quale aveva notato la mia correttezza nel chiedere lumi e nel dire quindi «non capisco»; egli, dandomi ragione in merito all’osservazione, mi aveva risposto che la formula era stata riveduta e corretta. Ma, allora, perché non viene applicata?
Sognavamo il 2000 con un’epoca in cui tutto sarebbe stato perfetto, invece tutto è stato ed è ancora imperfetto, sotto certi aspetti anche più di prima.
Nel repertorio di Puskin avevo letto alcuni anni fa qualcosa di molto attuale: un libretto d’opera, musicato molti decenni dopo da Cezar’ Antonovič Kjui, «Il banchetto durante la peste», ed una novella, «Il fabbricante di bare»: per chi non li avesse letti, ne faccio un succinto riassunto: il primo, un giovane, durante una festa invita a fare un brindisi in ricordo di un amico morto recentemente di peste, un altro lo ferma proponendo invece un raccoglimento in silenzio, chiedendo quindi a Mary di intonare un canto triste, interrotto dal rumore di un carro funebre, Luisa sviene e poi chiede se fosse passato realmente, poi il giovane dice ad un altro di cantare qualcosa inerente alla peste, appena ha terminato entra un prete per rimproverarli, ricordandogli la madre e la moglie morte da poco tempo, egli si immerge nei suoi pensieri ed i convitati riprendono a banchettare, interrotti momentaneamente dal lontano suono di una processione funebre; la seconda, un calzolaio invita, oltre a vari artigiani amici, Adrian, suo nuovo vicino di casa, fabbricante e riparatore di bare, a festeggiare le proprie nozze d’argento, uno di loro propone che ciascuno brindi a coloro per i quali lavorano, fra fragorose risate c’è chi grida ad Adrian di farlo anche lui, alla salute dei suoi morti, ma egli giustamente si offende e, tornato a casa, ubriaco, in uno sprazzo di lucidità invece di ricambiare l’invito per festeggiare la nuova casa decide per l’indomani di invitare i suoi morti, ritenendo il proprio lavoro di pari dignità rispetto a quello degli altri, subentrando una vivace festa di scheletri, che escono dalle loro bare, ma in seguito ad un diverbio lo insultano minacciosamente, risvegliatosi, capisce essersi trattato di un sogno.

Possiamo ricordare le “danze macabre” in seguito alla peste europea del 1348, ma anche di periodi antecedenti, dipinte per non far dimenticare «memento mori», ossia «ricordati che devi morire» (oppure i “trionfi della morte”, in centinaia di affreschi, come quello di Buonamico Buffalmacco al Camposanto di Pisa del 1336-41), ma anche le composizioni musicali ottocentesche di Franz Liszt, di Camille Saint-Saëns e poi di altri, o quelle poetiche di Baudelaire e di Verlaine. Anteriormente, il «Dies Irae», attribuito a Tommaso da Celano, con derivazione che si potrebbe far risalire a San Gregorio Magno, inserito poi in famosissime «Messe da Requiem».
Ma dal balletto degli scheletri di Puskin e dalle danze macabre passiamo ora al balletto fallace e tendenzioso delle cifre delle statistiche che ci propinano quotidianamente in questo periodo: se si è ottimisti, ogni numero va moltiplicato per 10, se si è pessimisti per qualche decina. Infatti è poi saltato fuori che intanto i numeri andrebbero moltiplicati per quattro, ma da dei dati frettolosamente buttati là quasi per caso da Bruno Vespa ho fatto un calcolo che si aggira sul moltiplicatore suddetto. La risposta è stata che le cifre ufficiali giornalmente riportate siano soltanto quelle degli ospedali a terapia intensiva!
Quando son stato a Benares (o Varanasi), la città santa dell’India, a colpirmi di più non son stati i lamenti funebri, il raccoglimento dei parenti dei defunti, forse perché tutto ciò lo avevo dato per scontato, ma a parte la particolare suggestione sia della città che ho attraversato (mi sembrava di tornare indietro di migliaia di anni, a Babilonia, se non fosse stato per le tante automobili, moto, vespe, risciò, apette, furgoncini e per quelle povere vacche striminzite a far da spartitraffico) sia della visione l’indomani navigando lungo il Gange, strano a dirsi, è stata la grande stadera, poiché essa serve per pesare la quantità di legna da ardere che è in proporzione al proprio peso corporeo, quale ultimo diritto “post mortem” di ogni defunto, poi per acquistare la restante, poiché in genere essa non è sufficiente, vien fatta la questua, altrimenti le ossa vengon poi gettate nel fiume con ancora dei brandelli di carne bruciacchiata.
In questi giorni abbiamo accennato alla Resurrezione, però recitando il requiem notiamo che la luce sia ridotta a lumicino ed i defunti siano condannati all’immobilismo più assoluto, salvo qualche scossa tellurica: «L’eterno riposo dona a loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua, riposino in pace, così sia». Non ci rimane che rifugiarci nei «Misteri Eleusini».

Alessandra Cesselon
Cosa ho fatto di nuovo in questa quarantena?

La creatività è l’unica cosa che salva noi poveri mortali rinchiusi in questa “bolla” fuori del tempo! Giornate sempre uguali scandite solo da fantastiche ed emozionanti avventure come decidere di fare la spesa al supermercato che sta destra, o a quello che sta a sinistra. Oppure fare coraggiosamente la fila in farmacia, a costo di sentirsi in colpa, perché, in effetti, lo shampo biologico che non ti fa prudere la testa lo vendono solo lì. Questa è la normalità dell’attuale “quotidiano” di tutti. Ma io, in effetti. di cose nuove – o quasi – ne ho fatte parecchie.

Per prima cosa mi sono costruita una mascherina! Sì! Il presidio indispensabile per far parte del genere umano in questi giorni. La perfida e introvabile mascherina è oggi condicio sine qua non , per essere a la page, come si diceva un tempo! Lode dunque alla santa mascherina: cercata, corteggiata, inventata, desiderata! Possederla è unica parola d’ordine per essere accettati dalla comunità. “Non hai la mascherina? Allora pussa via!” Questo è il diktat di questi nostri strani tempi! Se prima il chador delle donne arabe era un’offesa alla libertà, adesso rischia di diventare anch’esso… un accessorio di salute e di tendenza. Sui media girano foto di deliziose signore dei primi ‘900 che, durante la famosa influenza spagnola, si proteggevano il volto con foulard elegantissimi e non solo.

Insomma, per farla breve, ho costruito da sola una mascherina con l’ausilio di un… reggiseno! Abbastanza vecchio devo dire ma ancora piuttosto sexy! Sì, di quelli belli imbottiti, adattissimi all’uopo! Io poi porto una quarta C … – solo le donne possono capire – risultati, devo dire, quasi professionali! Postato sui social è stato un successo. Pensavo di farne un copyright, ma preferisco avere l’esclusiva…

Altra novità assoluta è stata per me l’aver imparato – dopo molti tentativi e con l’ausilio solerte di amici anche più imbranati – a fare, più o meno, una diretta in videoconferenza! È stato bello vederci tutti insieme sullo schermo del PC per fare lezione a distanza! Vero è che a volte non riusciamo a far funzionare l’audio o a volte il video, ma comunque ci siamo riusciti! Ho anche potenziato una chat di gruppo su Wazupp. Ci piace chiamarlo così, perché è come una zuppa dove si trova di tutto un po’! Ambedue le cose le sperimentiamo con gli amici di Arte per Immagini, fedelissimi da più di tre anni delle mie lezioni di storia dell’arte. Quanto ci piace chiacchierare! Adesso poi, che siamo in isolamento la cosa acquista valenze nuove! E, visto che si applica il distanziamento sociale del corpo, cerchiamo almeno di non fare anche quello… dell’anima! Devo dire che abbiamo anche preso il vizietto – poiché la mattina quasi tutti possono dormire – di scrivere e chattare fino alle ore piccole! E in fondo. perché no?

Ma cosa occupa più di tutto le mie giornate? Sicuramente scrivere! Ho rispolverato i miei talenti di donna di penna – magari anche di matita e colori – per fare ciò che molti fanno ora, cioè scrivere sul tema, con articoli, poesie e racconti e qualche disegno; devo dire con molta soddisfazione! Ma non solo il privato m’interessa. L’indagine sul presente è una grande fonte d’ispirazione. Spinta dalla piattezza e omologazione delle informazioni sul Covid 19 provenienti da canali ufficiali, e dagli esperti (sempre gli stessi) che mi sembravano migrare da un canale all’altro senza dire nulla di nuovo, mi sono interessata alle notizie, per cosi dire, trasversali, e ho provato a indagare, con interessanti risultati. Non voglio riportare qui i pensieri di enti e singoli sul coronavirus, le sue origini e la sua funzione, o anche le ipotesi più o meno complottiste, ma certo alcune notizie sono assai interessanti e meritano, o forse meriteranno in futuro, una maggiore attenzione. La storia non ha spesso scoperto solo dopo cosa nascondevano i fatti del passato? Ho provato a chiedere ad amici e conoscenti di confrontarsi su queste notizie varie e molteplici, a provare a ragionare, a incrociare i dati, a fare deduzioni ma a questo punto invece ho trovato un muro di gomma… e mi sono chiesta perché. Sono forse più rassicuranti le fonti ufficiali che pensare con la propria testa?

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Alessandra Cesselon, Cupole rosa, dipinto

Antonio Scatamacchia
Tre argomenti:
Gli azzeccagarbugli della scienza medica, la pandemia delle RSA e i migranti.

Tre sono gli argomenti che voglio denunciare, che pur differenti sono connessi nel pandemonio delle informazioni che ci sovrastano in questo periodo di COVID – 19. Il primo l’enormità di informazioni-disinformazioni che ci assalgono ogni giorno, l’altro il pericolo che il tasso di mortalità si mantenga alto a seguito di quello che sta accadendo nelle case di riposo, il terzo la ripresa degli sbarchi e l’isola di Samos.

Primo argomento sui social:

Dicono di tutto e il contrario di tutto, inondano i social di stralunghe dissertazioni sul vivere e non vivere, ma riescono solo in una cosa: confondere le idee, lasciando l’ascoltatore imbottito dalla disinformazione. Ora basta! Abbiamo necessità di avere una informazione lineare semplice e reale. Non si può ancora avere? Pazienza, in silenzio finché non ci appaia un qualcosa che sia stabile e certa, senza colpevolizzare cosa o alcuno. Abbiamo necessità di trasparenza non essere obnubilati in teorie approssimate ed investigate non a fondo, ma risultate quali previsioni incerte dalla conferma degli eventi e dei risultati. Che ben vengano le statistiche e gli accertamenti sui singoli casi infettati, dai quali si possa ricavare un valore medio accertato e verificato nel tempo e nelle varie situazioni. Poi soprattutto si adotti un meccanismo comune di comportamento e adattamento all’ambiente, così che l’individuo sia meno disorientato e segua un metodo comune che si dimostrerà nel tempo efficace o poco efficace, ma almeno un metodo.

Il secondo argomento lo estraggo dal pensiero di Harvey Cox “La Città Secolare”:

”ID” inteso come l’inconscio collettivo, la dialettica della storia, la probabilità statistica … tutti questi campi di forza mettono in pericolo il libero esercizio della responsabilità dell’uomo nella parola “fato”. L’”ID” e le pressioni economiche sono presenti nella storia, ma l’uomo ha la responsabilità di governarle e di usarle responsabilmente difronte a Dio. L’uomo deve seguire il disincanto e la desacralizzazione che hanno espulso i demoni dalla natura e dalla politica.

E sulla base di tale sollecitudine dobbiamo chiarirci il perché sono stati commessi delitti nei confronti delle nostre case di riposo degli anziani, delitti di incuranza e di acculturamento al fato, quale la condizione di aver immesso nelle case il germe del virus attraverso persone appena dimesse dagli ospedali, dove erano stati curati dal COVID-19. Che le case di riposo per anziani sono luoghi di estrema fragilità è più che risaputo, eppure non si è fatto abbastanza per evitare il rapido diffondersi della epidemia. In Italia oltre 6700 sono le case, nominate ora in maniera quasi sarcastica di riposo, come residenze assistenziali e come RSA, in parte con autorizzazioni non regolari, con deficienze nella assistenza e carenze igienico – sanitarie. Ad oggi 16 aprile vi si contano più di settemila i morti per il virus e le infezioni si diffondono a rotta di collo, senza interventi specifici.

Il terzo argomento lo denuncio in forma poetica:

Mytili d’odio

Gli occhi dispersi

tra remote incertezze

naufragano sui flutti della speranza

in cinture di salvamento

lanciati da battelli in soccorso,

afferrati esausti a risalire il mare

tra scogli coperti da mytili d’odio,

ammassati poi nell’isola di Samos

a scontare giorni scarni e ignudi

di malsana inversione

d’uomo e d’insalubre natura

non dissimili.

Noi torniamo ad affogare misericordia

nella pandemia dello spirito

per esseri oscurati dal virus

della appartenenza e della razza

e riconosciamo solo il sacrificio della vita

di chi ci sta accanto nel sollievo,

loro auspicano la morte

a compimento della traversata di stenti.

17 aprile’20

Manuela Mazzi
GLI ALIENI INVISIBILI

Nel mezzo dell’inverno gli alieni invasero il mondo. Non apparvero astronavi lucenti nel cielo, né le notti furono illuminate da fuochi ed esplosioni. Gli alieni erano tiranni invisibili, infinitamente piccoli. Penetravano dentro gli uomini e ne succhiavano la salute e la vita. La guerra era silenziosa e mai le città erano apparse così tranquille.
Marna era triste. Dalla finestra della sua camera dell’ultimo piano scrutava i grandi palazzi grigi dritti in fila davanti a lei, guardava la strada silenziosa, il parco desolato, le altalene vuote e aspettava. La sera allungava le ombre delle case, i lampioni si erano accesi e i suoi genitori non tornavano. “E’ possibile il ritorno? ” Si domandava “O dovrò essere io la grande?”
Molti non tornavano da quando gli alieni avevano occupato il mondo. Essi colpivano gli uomini a morte senza che se accorgessero, mentre si abbracciavano, camminavano, ridevano, mangiavano. L’unica salvezza era la casa e gli uomini erano stati costretti a rinchiudersi e nascondersi. A volte qualcuno usciva, per poter vivere, e non tornava. Vi furono bambini che rimasero soli e si sentivano piccoli e deboli.
Quella sera Marna pensò che era giunto anche per lei il momento di rimanere sola perché era venuta la sera e poi era venuta la notte e i suoi genitori non erano tornati. Non mangiò e si addormentò sul tappeto per la pena. E così stordita passò tutto il giorno seguente in ginocchio su uno sgabello davanti alla finestra. Solo quando le ombre entrarono di nuovo dentro la stanza si riscosse e pensò che doveva ribellarsi. Non poteva aprire la porta perché il tiranno poteva ghermirla sulle scale e portarla via. Ma se avesse avuto una bacchetta magica … Cercò nei cassetti e ne trovò una di plastica a righe bianche e gialle, che un giorno le era servita a bere l’aranciata.
In molte case, nello stesso momento, tanti bambini rimasti soli cercarono i costumi degli eroi del carnevale e li indossarono per farsi coraggio. E chi non ne aveva, come Marna, ritagliò spade nel cartone e intrecciò le foglie per le armature. Si addormentarono esausti senza sapere ancora che fare.
Ma quando un bambino nasce, mentre ancora strepita e si dimena rosso e impaurito, qualcuno gli sussurra una parola magica che vale per tutti i momenti tristi e di solitudine. Crescendo si dimentica. Solo i bambini la conoscono. In quei momenti la ricordarono e la sussurrarono così sottovoce che neanche io l’ho sentita.
Quella parola vince il tempo e lo spazio ed è così che si ritrovarono tutti in una grande caverna di pietre luminose che galleggiava sull’acqua e oscillava libera nell’aria. Erano una moltitudine di fate, superman con il mantello rosso, uomini-ragno, principesse che comandavano i venti, streghette veloci come folgori sulle loro scope. Ed ecco. Anche le spade di cartone diventarono di acciaio lucente, le cannucce colorate si mutarono in vere bacchette magiche, le foglie intrecciate in elmi e armature, le biciclette in rombanti moto del cielo. Ogni bambino diventò potente e tutti insieme diventarono la grande armata di tutto il mondo e di tutti i tempi.
“Da dove entrano gli alieni dentro le persone?” Chiese qualcuno.
“Dalla bocca e dal naso e rubano il respiro.” Risposero altri.
“E se cucissimo sciarpe che coprono il viso e impediscono loro di entrare?” Propose Marna.
Nel mondo dei bambini le parole sono azioni e tutti cucirono sciarpe colorate. Una montagna di sciarpe. Per l’ultima Marna usò il vestito della sua bambola.
Poi si risvegliò sul pavimento e pensò che quello della caverna trasparente era stato tutto un sogno. Si rimise quindi alla finestra a guardare l’alba di un altro giorno grigio e le strade desolate. Solo allora vide una piccola ferita su un dito, un puntino rosso, la puntura di un ago. Aspettò tutto il giorno, ma i genitori non arrivarono. La sera si accasciò a terra con la sua cannuccia in mano e si addormentò.

Ecco di nuovo la caverna, ancora più trasparente, e la grande moltitudine di bambini soli con i loro travestimenti magici.
“Perché i nostri genitori non tornano?“ Gridarono alcuni.
“Ma non avete visto le trappole che ci sono sulle strade? Sono di corde trasparenti come le tele dei ragni e chi vi cade dentro non riesce a uscire.“ Risposero altri.
“E noi taglieremo quei fili. Andiamo ragazzi! “ Questo lo dissero tutti assieme e volarono sulla città con forbici e lame. Marna regalò il suo fermaglio con le punte dorate a un bambino molto piccolo, che fu bravo a stracciare con quello le tele del ragno.
Si risvegliò di nuovo sul pavimento mentre un’altra alba livida sorgeva. Aveva sognato? Accanto a lei c’erano le forbici da cucito della mamma, quelle proibite di acciaio che era difficile tenere in mano. Si mise di nuovo alla finestra a guardare il mondo deserto. Aspettò tutto il giorno, ma i genitori non arrivarono e la sera si accasciò a terra con la sua cannuccia in mano e si addormentò.
Le pareti della caverna si erano quasi dissolte, il mondo attorno aveva il colore del ferro e il sole era coperto da un velo grigio.
“Ma perché non tornano ancora?“ Gridò qualcuno.
“Non vedete che il sole non scalda e non scintilla? Che cosa arresta i suoi raggi, che cosa imbriglia il calore? ”
“Un velo. Un’altra tela di ragno, ma più fitta e più oscura.”
Qualcuno domandò: “Perché gli alieni hanno alzato un velo per oscurare il sole?”

Qualcuno rispose: “ Perché il sole li fa morire. Perché il sole ci indica le strade.”
Corse tra tutti la domanda: ”E come si tolgono i veli? “
Ma tutti sapevano: “E’ il vento che li solleva.”

“Che li sposta e li attorciglia.”
“Che li strappa.”
“Che li trascina via.”

Ma la grande armata di tutti i tempi e di tutti i mondi poteva creare il vento.
Si alzarono insieme in volo come gli stormi degli uccelli migranti, Marna con un lattante aggrappato alla sua treccia spettinata, e si lanciarono verso quel velo. Lo strapparono, lo fecero a pezzi, lo bruciarono e il sole invase la terra.
Di nuovo la bambina si svegliò sul pavimento con le braccia indolenzite per una grande fatica. Stringeva ancora in mano la cannuccia colorata e a terra vi erano ancora le grandi forbici della mamma e due ritagli di giornale a forma di …

“Ali”, sorrise Marna, “ ali robuste per volare.” E un raggio di sole scintillante le fece chiudere gli occhi.
Un sole nuovo.
Prese lo sgabello e si rimise in ginocchio davanti alla finestra. Strade vuote e palazzi muti. Ma il sole irrompeva su tutto, il sole ridava i colori, il sole scaldava e lavava l’aria. E quando fu alto, sulle strade cominciarono a comparire le persone. Là in fondo, dietro le altalene, Marna riconobbe i genitori che, tenendosi per mano, tornavano a casa.

Gabriella Belviso
Cronache del coronavirus: il gabbiano e io

Vivo a Roma, quartiere Prati, zona piazza Mazzini. Abito in un palazzo, dove sono nata, di quasi cento anni, con un bellissimo e vasto terrazzo condominiale da cui si gode un panorama splendido: da una parte Monte Mario, con l’Osservatorio e l’Hilton, e dall’altro la cupola di San Pietro e tutte le cupole delle chiese più importanti di Roma. Vi sono stati girati, tra l’altro, numerosi film, tra cui il più famoso è “La banda degli onesti” con Totò e Peppino De Filippo.
Ogni mattina, di questi giorni di coronavirus, dato che non c’è mai nessuno, verso le 10,30 – 11 salgo a camminare per circa un’ora.
Cinque giorni fa, all’improvviso è planato un gabbiano e si è appollaiato ad un paio di metri da me. Mi sono spaventata, tanto più che non ne avevo mai visto uno così da vicino. E’ un animale, con occhi molto vivaci e un becco in grado di staccare un dito in un battibaleno.
Molto guardinga, ho fatto la mia passeggiata e, nel momento di andarmene l’uccello è volato via.
Stessa scena per i successivi tre giorni. Essendo abituata ormai alla sua presenza ho passeggiato con tranquillità.
Questa mattina, invece, è arrivato come al solito e messosi sempre nello stesso posto, l’animale si è accovacciato ed è stato tutto il tempo della mia passeggiata tranquillo ed immobile, guardandomi ogni tanto e, come al solito, è volato via quando me ne sono andata.
Mio dubbio amletico:in questi cinque giorni si tratta di cinque gabbiani diversi che, per caso, si sono fermati sul terrazzo sempre nel medesimo punto, oppure si tratta dello stesso gabbiano che pian pianino sta prendendo confidenza con me?

Non Vincerai

N Nostromi naviganti nocchieri numismatici
O Operai orientalisti oboisti oculisti orafi
N Narratori noleggiatori netturbini negromanti
V Velisti vetrinisti velocisti vocalisti,
I Intellettuali insegnanti infermieri illustratori N Novellatori novizi nubili nullafacenti
C Chirurghi camionisti calzolai cuochi
E Estetiste ebanisti elettricisti ecologisti editori R Religiosi ricercatori ragionieri ricamatrici,
A Attori artisti, attivisti, astronomi, acrobati,
I Imprenditori, incisori imitatori investitori
NON
VINCERAI

Erminia Gerini Tricarico
Alexa

C’è qualcosa di più destabilizzante per una vecchia (anziana forse, di questi tempi è più opportuna) signora in piena sindrome da coronavirus che sentirsi dire da Francesco: “Questa sera ti porto Alexa”. “Mi raccomando, la mascherina”. “Non ne ha bisogno”? Presentazioni d’obbligo: Francesco è mio figlio, anni quarantasette, divorziato in attesa di “sistemarsi”. Vive nell’appartamento sul mio stesso pianerottolo ed è “virtualmente” presente a causa dello smart working. Alexa è l’incognita a due soluzioni: 1) la donna ideale che mio figlio vuole presentarmi, sicuramente slava. Che fretta c’è? Mica scappo (posso scappare) di casa? Facciamo le cose con calma…; 2) la badante, che cerca di appiopparmi a ogni piccola mia piccola défaillance. Sì Alexa è più un nome da badante. Chiunque sia, un effetto l’ha subito sortito. Mi sono immediatamente tolta la tuta e mi sono vestita e truccata come se fossi stata invitata al ristorante. La mia aspirante seconda nuora capirà subito con chi avrà a che fare. La badante sarà invitata gentilmente a ripassare più avanti. Qualche goccia di Joy sui polsi, qualcuna in aggiunta allaa dose serale di tranquillante e mi affretto ad aprire la porta. Francesco, con la sua stazza occupa tutto il vano. Un’occhiata a destra e una a sinistra. Nessuna Alexa all’orizzonte. Mentre mi preparo a un’ipocrita espressione di disappunto, mio figlio entra con una scatola:

– Eccola
– Chi?
– Alexa. Chi altro aspettavi? Nessuna futura nuora, nessuna badante minaccia il mio travagliato presente. Alexa è un oggetto di un bianco avorio discreto, tondo e maneggevole e il più bel regalo a prescindere: mi ha restituito serenità e, come scopro subito dopo, sarà anche una fedele compagna. Francesco mi ha chiesto con che nome voglio registrarmi. “Erminone”, ho risposto di getto (avevo appena finito di rileggere “La pioggia nel pineto”). È una versione del terzo millennio della lampada di Aladino. Basta pronunciare il nome Alexa, impartire una disposizione secca: ”Chiama Francesco”e subito il suo cellulare squilla. Nel rosario di applicazioni che mio figlio ha sgranato, mi ha fatto battere il cuore quella che mi permetterà di scegliere tra milioni di brani musicali e migliaia di libri da ascoltare. Sono andata a letto serena, dopo tanto tempo, e felice come una bambina. Ho spento la luce e ho chiamato: “ Alexa, Notturno numero due di Chopin”.
Per cortesia.

 

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Mino La Franca, proposta di bandiera per l’Europa

Eamonn Lynskey
April, London

In Mile End Park the daffodils

explode again and he’s beside me

telling how they’re good as any

fringed the edge of Ullswater.

He talks about the beautiful,

the way it is inseparable

from the brutal. Think, he says,

the ghostly language of the earth:

its cresting waves: such majesty –

and threat. Its mountain peaks – reminders

of our frailty. And yet –

this splendid, fluttering host!

I think

the splendid, serried ranks that roared

at Nuremberg and prophesied

the bones and blitzmuck of this bombsite

underneath our feet. But yes,

they’re beautiful and good as any

trimmed the banks of Windermere

that spring that year. Or any year,

whatever bad our futures bring.

Aprile, Londra
trad. di Anna Maria Robustelli

A Mile End Park i narcisi

esplodono di nuovo e lui* è accanto a me

a raccontare che sono bravi come quelli

che sfrangiavano le sponde di Ullswater.

Parla del bello, come sia

inseparabile dal brutale.

Immagina, dice, il linguaggio

spettrale della terra: la cresta

delle sue onde: maestosità –

e minaccia. Le sue vette – promemoria

della nostra fragilità. E ancora –

questa splendida schiera svolazzante!

Io penso

agli splendidi ranghi serrati

a Norimberga che profetizzarono

le ossa e il fango del blitz

proprio sotto i nostri piedi. Ma, sì,

sono belli e buoni come quelli

che decoravano le rive del Windermere

quella primavera quell’anno. O ogni anno,

qualunque male il nostro futuro porti.

*William Wordsworth (1770-185)

Luigi Mazzella

Il Covid 19 e un nuovo Feudalesimo

 

E’ da un po’ di tempo che i maggiori istituti di credito occidentali, Citigroup, JPMorgan Chase, Goldman Sachse Morgan Stanley stanno studiando la possibilità di trasferire on line non solo il lavoro d’ufficio, ma anche il trading e il rapporto con i clienti.

Sembra che anche altri istituti abbiano già chiesto  a centinaia di dipendenti di lavorare da casa in modo da poter “testare” la capacità di gestire in remotogran parte dell’attività degli sportelli.

Sperimentazioni di questo e di altro tipo sono state  fatte ancora da più tempo, dalla JPMorgan Chase  nelle filiali di Londra, di New York (per la precisione: a Brooklyn) e in New Jersey.

La domanda è: il Coronavirus  darà una spinta ulteriore o uno stop ai preparativi per un “cambio di passo”, ovviamente peggiorativo,  per la civiltà Europea?

La mia ipotesi è che il potere finanziario di Wall Street e della City, la cui roccaforte è nell’Unione Europea, ci stia preparando il ritorno a un nuovo Feudalesimo che, storicamente,  ha sempre rappresentato un evento molto  traumatico (e con immani disastri umani) sia al momento della sua nascita sia quello della sua fine.

La fine del Feudalesimo tradizionale, quello conosciuto dai nostri avi e dai noi studiato sui libri di storia, è riconducibile alla terribile e cruenta rivoluzione francese di fine Settecento.

La sua distruzione condusse a uno strepitoso progresso del benessere collettivo con il sorgere della società industriale. E ciò, per lo sforzo congiunto di imprenditori e lavoratori. In pratica, la ricchezza non era più prodotta dall’esistenza di un  latifondo e di una servitù della gleba, anonima, impersonale, considerata alla stregua di  un oggetto, una mera cosa materiale di pertinenza del terreno ma da uno o più imprenditori e da masse di lavoratori, impiegati e operai dell’azienda, dotati di autonomia, indipendenza individuale e personalità pensante e operante.

Con la società industriale nascevano diritti importantissimi per gli individui, da quello dell’informazione a quello del Welfare e a tanti altri che è superfluo ricordare.

Le avvisaglie per il ritorno, sotto mutate spoglie, di un nuovo e diverso Feudalesimo rimontano a più di un decennio fa.

Negli anni Settanta Alain Touraine e Daniel Bell coniavano il termine (probabilmente solo d’involontario significato nefasto) :“post-industriale”.

Per Touraine (oggi sociologo gauchiste deluso)  l’espressione doveva sottolineare la “discontinuità” (parola magica utilizzata di recente anche dal Partito Democratico italiano) rispetto alla società industriale; per Bell, sociologo statunitense di Harvard, il termine andava utilizzato, più positivamente, soltanto per indicare la trasformazione di una società che diventava, soprattutto nel settore terziario, “iper”o “super” grazie all’apporto della Scienza, delle nuove tecnologie e così via.

Il terzo significato rispetto a quello dei due autori, è quello che hanno in mente i Tycoon della Finanza.

Normalmente “post” si contrappone a “pre”. Ora, se il termine dovesse essere usato per esprimere il desiderio di un tramonto della civiltà industriale (post) per auspicare un ritornare allo status quo ante(pre),  è bene ricordare che la società precedente a quella industriale” era “feudale”.

Tale salto a ritroso nel tempo, è quello che avrebbe in mente l’oligarchia dei “globalizzatori” d’oltremanica e d’oltreoceano per far fare alla Storia un cammino verso un “feudalesimo trasfigurato”, imperniato non più sul latifondo e sui servi della gleba ma sul denaro e sui robot digitali interni al sistema creditizio  manovrati da oscuri e anonimi impiegati bancari.

La ricchezza si produrrebbe per i banchieri nello stesso modo in cui si produceva, nei tempi antichi,  per i signori feudali: invece di latifondo+ servi della gleba, denaro+impiegati robot.

Il Covid19 potrebbe avere un ruolo dirimente: se salterà l’Unione Europea e in suo luogo nasceranno gli “Stati Uniti d’Europa” sul modello nordamericano, un forte potere politico potrebbe contrapporsi, come negli USA e in Gran Bretagna a quello finanziario e….addio sogni di neo-feudalesimo!

Altrimenti, la cricca dei banchieri con  l’appoggio dei leader della Sinistra Occidentale (Democratici americani, laburisti inglesi, cristiano-sociali e socialdemocratici eurocontinentali),della Massoneria inglese e statunitense e del sistema mass-mediatico ci regalerebbe un nuovo Feudalesimo, più luminoso e sfavillante, nella forma, di quello medioevale ma ugualmente tetro e cupo, nella sostanza.

 

Carla Gagliardi Desaur da Londra
Al rientro dal ponte pasquale

Al rientro dal ponte pasquale, il 15 aprile, tutti i telegiornali riportavano come notizia del giorno il fatto che un imponente stanziamento economico assicuri da ora il materiale PPE [Personal Protective equipment] -anche – per le case di cura.
Due settimane fa, quando da tempo gli ambulatori dei medici lavoravano solamente online ed erano ormai state chiuse anche tutte le scuole, una cara amica che e’ infermiera professionale, in una casa di cura molto costosa alla periferia di Londra,  era stata costretta a non indossare la mascherina perche’ il suo manager glielo vietava: avrebbe spaventato i vecchietti e “non vi era una reale e comprovata ragione sanitaria” per l’utilizzo di quel dispositivo.
Allora le scrissi immediatamente che dal 2009, dal tempo della SARS, grembiule e guanti nonché mascherine sono considerate presidio ospedaliero regolare; solamente oggi, dopo le festività pasquali, le potranno indossare tranquillamente.
Nel frattempo in UK abbiamo raggiunto da una settimana un tale aumento nel numero dei deceduti che superiamo, in proporzione, i numeri dell’Italia.
Ci appaiono rapidamente dei grafici dove la linea, casualmente grigia, che rappresenta gli UK sale vertiginosa mentre si nasconde un reale confronto con il resto del mondo, ma la piccola linea rossa, indicante l’Italia,  mostra che anche dopo il picco …comunque orizzontale e non verticale (!), la malattia si mantiene costantemente viva.

Dalla settimana pasquale, resurrezione, si sono accorti che vi era qualcosa di sbagliato nei calcoli dei malati, e soprattutto dei deceduti per il virus perché, per un non ben valutato errore di inserimento dei dati, non venivano calcolati, casualmente, gli anziani delle case di riposo!
Appare cosi evidente una confusione ed incongruenza di fondo ed il popolo, che un caro amico di Cambridge tende a definire il gregge in contrapposizione con i banditi che stanno al governo, pare continuare a non voler usare il buon senso, a non attivare un poco di senso critico al bisogno … non pretendo che si parli di accendere il cervello e fare attenzione in questo periodo di finte holidays.
Durante tutta la vacanza pasquale ho dovuto ridurre e sospendere la mia attività fisica giornaliera al parco perché, non essendoci una legge repressiva come in Italia, la gente continua ad andare al parco per mezze giornate e non solamente per fare esercizio fisico.
Incontri per strade famiglie che come profughi in viaggio si portano di tutto, come anche giovani in solitaria che vaiggiano con grandi borse di tela, se non addirittura trolley, per poter disporre durante tutta la giornata di cio’ di cui necessitano. Mio marito mi conferma il loro punto di vista “non disturbano nessuno!”, ma il problema e’ che occupano uno spazio nel verde che andrebbe anch’esso condiviso con buon senso! Una ulteriore domanda mi sorge spontanea: dove vanno al bagno per cosi tante ore essendo chiuse le toilette?
La polizia passa a cavallo ed in auto solamente lungo i vialoni asfaltati e le ampie zone di verde vedono ovunque persone che si nascondono tra i cespugli per prendere il sole come fossero in spiaggia. Sono aumentati i sentierini nel verde, tracciati dal passaggio delle persone nelle settimane scorse, ma durante questi giorni “di vacanza” in molti percorsi bisogna deviare perché ci sono persone, talvolta gruppi, che bivaccano come fossero in alta montagna….
Anche io esco per assicurarmi una buona dose di vitamina D ma ciò’ non significa che mi autorizzo ad occupare uno spazio per intere giornate…ed ho visto le stesse persone negli stessi angoli in giornate diverse. La cura del prossimo e la disponibilità all’altruismo sono lontane, non solamente nelle menti dei governanti.
Mentre le persone malate restano senza ossigeno e il dramma degli ospedali resta chiuso tra mura il resto della popolazione si attarda nel festeggiare con apparente normalità la Pasqua.
Nei miei giri di veloce passeggiata, ai limiti del parco che era sovraffollato, resto attonita qualche minuto a notare che a qualsiasi ora del giorno, durante tutti i giorni delle festività, una moltitudine di persone ha continuato ad usare le biciclette free poste ai limiti dei grandi parchi ed in numerose parti della città.
Proseguono nell’usare questi mezzi anche in gruppi di quattro urlandosi a distanza per capirsi, non indossando mascherine ma soprattutto durante il pagamento del mezzo e quando lo recuperano e riconsegnano non si preoccupano minimamente di usare dei guanti. Assolutamente non si sono portati gel disinfettanti da usare neppure al momento in cui salgono sul mezzo….
Le biciclette vengono lasciate e prelevate continuamente con una esponenziale contaminazione: non basta il sole di una decina di minuti per disinfettare la superficie plastica!
Mi chiedo se ci sarà bisogno che sospendano il servizio per arrivare a capire che basterebbe indossare dei guanti e cercare di non sentirsi in vacanza a tutti i costi!

Maria Teresa Serafini
Diario
Civitavecchia 5 aprile 2020

Oggi è domenica, è una giornata bellissima col sole caldo e sarebbe bello andare al mare che vedo azzurro intenso dalla mia terrazza: purtroppo si deve restare in casa come sempre, del resto è necessario anche se sento moltissimo la mancanza delle uscite, ogni tanto scambio una mail o un sms con mia sorella per comunicare. Oggi è la domenica delle palme, non sembrerebbe ma è quasi Pasqua. Mi spaventa una cosa: la diffidenza. Verso le 11, questa mattina sono uscita sulla terrazza lato mare per stendere il bucato, temevo che i panni non si asciugassero prima delle 15. Ho visto sulla terrazza della mia vicina che non è contigua alla mia pur essendo sullo stesso piano, ma proprio in fondo, a circa 20 metri di distanza, uno dei figli, io ho accennato un saluto con la mano e lui per risposta si è tirato su la mascherina che aveva al collo. Sono rimasta male e sorpresa perché credevo fossimo ad una distanza appropriata, poco dopo l’ho rivisto sempre in fondo ed è subito rientrato. Forse ha paura. Di sicuro è così, però eravamo molto distanti.

Ancora sono introvabili le mascherine e veramente di questi tempi ci si inventa di tutto! Oggi ho visto un tutorial che mostrava come prepararle con i tappetini multiuso di cani e gatti che sono impermeabili e siccome li avevo ho provato a farne una. E’stato semplice però mi sono resa conto che era impossibile indossarla perché una volta tagliato il tappetino nella misura giusta, l’imbottitura si disperde e non si può respirare quel materiale che potrebbe anche essere stato trattato con sostanze chimiche che impediscono gli odori. La situazione sembra essere senza soluzione. E’ una situazione terribile, tutti quei medici, quegli infermieri che hanno donato la vita è terribile, non avere medicine, vaccini, mezzi. Il mio palazzo è silenzioso ho sentito l’ascensore al massimo un paio di volte segno che restiamo tutti in casa.


6 aprile 2020

Il sole splende meravigliosamente come non faceva da anni. Ma c’è ancora molta paura del resto se si accende la tv le immagini non sono incoraggianti. Io resto in casa! Mi sento molto triste, ma ovviamente resto in casa. Per fortuna ogni tanto arrivano due tortore che da anni frugano tra i vasi della terrazza in cerca di cibo. Da qualche giorno ho notato che è aumentato il numero di gabbiani che stazionano sul tetto di fronte alle mie finestre. Ho trovato del tessuto TNT ed ho confezionato delle mascherine per mia figlia e mio marito che andranno al supermercato. Le mascherine NON si trovano nel modo più assoluto!!! Ma arriva il momento in cui si deve uscire. Allora via libera alla creatività! Un farmacista nostro amico ha suggerito di mettere anche un tampone di garza sterile all’interno della mascherina, ne ho preparata anche una con la carta forno … da mettere sopra a quella di TNT: un accroccro incredibile! Non parliamo poi di quando una volta a settimana uno di noi esce per la spesa: l’ingresso di casa sembra una sala di decontaminazione: Sedia su cui sedere per il cambio scarpe quando si esce e quando si torna, pavimento rivestito di fogli di giornali sopra i quali è stata stesa una tovaglia di plastica, cassetta di plastica rivoltata e coperta di fogli di giornali che vengono spruzzati di sostanze alcoliche, varechina etc. Salviette igienizzanti sulle quali saranno appoggiate le scarpe con cui si è usciti, anche gli abiti ovviamente sono destinati alla lavatrice. Al supermercato non si prende il carrello ma si portano borse capienti da casa per fortuna i guanti non mancano nei negozi e nelle farmacie scarseggiano gel o altri prodotti disinfettanti. Io uso il sapone da bucato e l’alcool denaturato ormai le mani non ce la fanno più.

7 aprile

La giornata è iniziata come al solito: alle 7 messa del Papa, poi colazione e scambio di messaggi un turbinio di parole, fortuna che anche oggi splende il sole e vedere una bella giornata fa piacere anche se rimpiangiamo la LIBERTA’ di poter uscire. Ogni tanto apro la porta finestra e vado sul balcone a prendere una boccata d’aria. Sul tetto a terrazzo della casa di fronte a me, un inquilino fa attività fisica correndo avanti ed indietro in quei pochi metri quadrati, la moglie fa la stessa cosa ma di pomeriggio. C’ è anche un ragazzo che fa la stessa cosa, BISOGNEREBBE fare attività fisica! I primi giorni camminavo per tutta la casa ora ho smesso mi limito alla cyclette e a qualche esercizio a corpo libero, le mie figlie e mio marito invece sono puntuali nell’eseguire gli esercizi del resto loro frequentano abitualmente la palestra e ogni giorno srotolano i tappetini in salotto invece la mia palestra è il divano: “Malissimo!” Dice il mio medico ma io in questo sono poco ubbidiente.

Verso le 12 abbiamo sentito suonare il campanello: IL PANICO: “SUONANO???”

“CHI PUO’ ESSERE’?”

“RISPONDI!”

“NO”

“SI’”

“CHI E’?“

“IL CORRIERE; IL PACCO GLIELO METTO NEL PORTONE!”

“GRAZIE, ORA SCENDO”.

INCREDIBILE SONO ARRIVATE LE MASCHERINE ORDINATE ON LINE, poco importa se sono NERE!

Ovviamente questo “OGGETTO del DESIDERIO” è stato subito lavato, steso e stirato poi ogni mascherina è stata inserita in una bustina sterile.

Mi sono affacciata alla finestra – sono le 21- questa sera la LUNA è Rossa bellissima e ancora più misteriosa… “Che fai tu, luna in ciel? dimmi, che fai silenziosa luna? sorgi la sera, e vai, contemplando i deserti; indi ti posi.

[…] Pur tu solinga, eterna peregrina che sì pensosa sei, tu forse intendi, questo viver terreno, il patir nostro, il sospirar che sia; che sia questo morir, questo sembiante,

e perir della terra, e venir meno ad ogni usata, amante compagnia ”

Impossibile non pensare a Leopardi

8 aprile

Mi sono svegliata alle 7 e la giornata si è avviata come ormai è consuetudine messa, colazione, scambio di messaggi: meno male che ci sono loro così posso comunicare quando voglio con mia sorella anzi ogni tanto facciamo delle videochiamate così possiamo anche vederci. E’ importante mi manca moltissimo il contatto con le persone care tutto è cambiato, purtroppo amavo uscire: niente, con mio marito ci recavamo alla spiaggia di Sant’Agostino era bellissimo bellissimo con qualsiasi tempo il mare così azzurro o in tempesta sempre affascinante, quando le porte si apriranno e riusciremo ad uscire, vorrò tornare là camminerò piano e mi soffermerò a guardare nel piccolo lago salmastro parallelo alla spiaggia, germani reali, aironi cinerini, pavoncelle e garzette e calcando la sabbia dove occhieggiano vilucchi colorati e verdi euforbie giungerò dove le acque dolci del Mignone si mischiano al mare per vedere le canne che crescono sulle rive, ondeggiare lievi mentre pescatori seduti attendono pazientemente che il pesce abbocchi. Ho nostalgia della sabbia dorata e ricca di conchiglie, dei cavalli bradi che correvano liberi sul bagnasciuga con le criniere al vento e le narici frementi …

Il virus per ora sembra che corra lui su quelle sabbie E OLTRE padrone inarrestabile del mondo. NON prevalebunt chissà però la Scienza si impegna e un filo di speranza nel futuro può aiutare.

Sono le 12 sono ritornata sulla terrazza subito la tortora è arrivata, ormai non si spaventa più arriva e sta ferma sulla balaustra aspettando che io le dia qualche briciola.

Abito in un vicolo piuttosto stretto e le case sono addossate le une alle altre così vedo in lontananza il mare ed i tetti davanti con i panni stesi e le antenne della tv su cui si posano merli e tortore, spesso invece sui tetti stazionano i gabbiani con le loro zampe alte e gialle sono piuttosto grossi, poco fa mi è capitato di osservare una coppia insegnava al suo pulcino a volare, mi sono stupita perché sono rimasti a volargli intorno per oltre due ore poi lui si è fatto coraggio ed ha lasciato il tetto seguito dai genitori. Non l’avevo mai visto: il pulcino aveva un piumaggio soffice e grigio. Forse lo stare in casa ci fa osservare cose alle quali non facevamo caso.

Le mie figlie sono impegnate a far lezione on line: una in una stanza e una nell’altra ed io temo sempre di far rumore. Anche mio nipote segue le lezioni e così la nipotina di cinque anni che frequenta la materna.

A volte durante la giornata il silenzio della Città è rotto dall’auto della Polizia Urbana che invita i cittadini a restare in casa. Pochi giorni fa avevano annunciato che di notte sarebbero state sanificate le vie e che in dieci giorni tutta la città sarebbe stata trattata.

Non guardo volentieri i telegiornali ed i bollettini. Mi sono venute in mente perfino le profezie di Nostradamus … Ogni tanto mi chiedo: “Ma come farò ad uscire di nuovo? Ce la farò a camminare? Riconoscerò le strade, potrò parlare con qualcuno?” Le giornate trascorrono uguali le une alle altre, io guardo la tv, i video che arrivano e leggo, leggo molto. Io sto a casa. Poco fa, sono le 18, una bella sorpresa: l’orchidea che avevo ottenuta con una talea, dopo sei anni finalmente sta mettendo il FIORE!!! Un vero regalo.

Anche questa sera la luna è rossa, mi hanno detto che si dice Pinky Moon. Ormai è sera, tutto è immoto c’è tanto silenzio che fa rumore: la città sembra vuota, mi sento sospesa, racchiusa in una fragile ampolla di vetro!

Giuliano Santangeli
Sorella peste. Prove di estinzione

Fede e Ragione, Essere e Divenire, Trascendenza e Immanenza, a ogni piè sospinto opzioni binarie di conoscenza. Tante doppie visioni in cui resta in panne la nostra inalienabile aspirazione alle risposte ultime indispensabili per vivere e sperare a chi ne è capace, si oppongono in pari energia e persuasività, sì che l’ansia non ceda e non lasci spazio a nessuna certezza pacificante che esima da un confronto permanente con noi stessi e l’intorno. E poi c’è l’asino di Buridano che se la cava senza una razionale e comprensibile spinta ad agire. E’ la medesima ragione a dirlo, e abbiamo solo quella ad amministrarci, meritando fiducia, per essere forte, coerente ed equidistante da controllarsi nei suoi movimenti e giungere a sospendere e a negare anche se stessa se occorre al ragionamento. E oltre i fenomeni e i segni che percepiamo soltanto le ipotesi restano e al loro livello, per la ragione sana, una vale l’altra.

Siamo tutti parenti: allo stato dell’arte, come si dice, potremmo sostenere che San Francesco, mutatis mutandis, abbia attinto più in fondo di Giacomo Leopardi nel riflettere sul destino degli uomini, giacché la comunione creaturale che si avverte nel santo si esprime e si risolve in accettazione, sapienziale conquista, mentre l’empatia di Leopardi è recalcitrante, cerca alleati per la consolazione. Parenti dunque, ma di tutti i moti e le vicende possibili al divenire, rimescolati in ordine di struttura, riparando lesioni e recuperando equilibri con azioni infallibili ed efficaci, altro che le gestioni approssimate ed aleatorie dell’umanità. Parenti, non importa da chi generati, per quanto riguarda il senso, ancorché misterioso, dell’intero universo. Abbiamo le parole sufficienti per parlare di questo argomento estremo, che abbraccia il percepibile e il pensabile, ma non una di più.

Ogni tanto si annuncia una scossa forte, assai più di quelle che avvengono in ogni istante davanti agli occhi e sotto i piedi a ognuno, senza che se ne accorga né che lo sappia, e allora le si dà un nome, a seconda che porti vantaggio o danno alla miope empiria che la maggior parte suole indicare come la stessa vita. Anche per questo di certo c’è una ragione, maligna qui ma necessaria altrove. Certo è difficile – finché si parli in termini apprezzabili dai sensi preposti ad avvertire, a misurare e a prevedere le vicende umane – sentirsi nella stessa condizione dei vermi, delle foglie, delle muffe, dei sassi, delle polveri, dei venti e tutto il resto in cui distinguiamo i modi incontrollabili del divenire, ma se sfruttiamo tutte le parole, e il non abusivo pensiero che ne deriva, si può ben indicare l’universo, quello innegabile che ci risulta, come un compatto e unico organismo strutturato in legami di parti in moto, tutte ugualmente necessarie al mondo e di esso a un tempo rappresentative. Già l’intuizione poetica e filosofica, annaspante in ipotesi a far quadrare i conti della ratio e delle emozioni, ha indovinato spesso cose concrete che pur non si vedevano, e poi la scienza, col suo “ nulla si crea e nulla si distrugge”, ancora calza a offrirci un quadro d’insieme sufficiente alla mente. La Gestalt può nascondersi ma agisce in ogni esigenza estetica e cognitiva, che, fra l’altro, parrebbero sovrapporsi nelle alte strategie della conoscenza,

Il modo che gli umani hanno escogitato per ordinare e possedere il mondo, dominarlo per quanto fosse concesso dal mondo stesso che lo richiedeva ai fini della cura e della memoria, è la nominazione, necessaria ad essere in qualunque modalità. E con i nomi, come usa dire il volgo, se ne son fatte proprio di tutti i colori. Non c’era altra via da percorrere a tale scopo.

In prospettiva terricola un nome di moda è ora virus, quello che sta a indicare il male trionfante sul’intero pianeta, a mettere alla prova del terrore la fatua e superbissima sicurezza frutto insulso dell’anima digitale. Ma si deve dir peste. Esaminiamo bene questa parola, ben più inclusiva, forte e collegata agli effetti psichici degli umani, di quanto sia l’asettico e speziale termine virus: questo si domina, la peste no, ce lo impone la lingua, connotando di morte e di crudeltà ogni suo modo di esplodere senza misura. Sono oltretutto, quelli della peste, in prospettiva umana ravvicinata, provocazioni a difendersi in ogni caso, fosse anche con la sola coscienza critica, ma c’è l’istinto di sopravvivenza, che confonde le idee, e spinge a reagire nei modi più inconsapevoli, anche impropri e nocivi, e qui la zetetica incontra, di volta in volta, le sue variegate risposte circa le prove imposte alle specie davanti alla prospettiva della loro estinzione.

Se la chiamiamo peste, questa sciagura, si presta meglio a essere pensata nella complessità delle sue suggestioni. Con un nome emotivo che si utilizza confusamente a esprimere fuga e paura, non a fermare, ristretta in definizione, un’idea transitoria di malattia, perché la peste è intesa solo al momento in cui si trova in atto senza confini o limiti fra gli umani, il virus no, può essere concepito anche secondo un suo proprio e isolato statuto. La manifestazione della peste, inarrestabile, subdola e universale, produce un’oscura e imprevista disperazione che arriva ogni volta a sconvolgere le certezze e a tentare alle antiche superstizioni, ma ciò ha pur una base di dignità nel cinquanta per cento di libertà ragionevole di cui si dice.va all’inizio di questo discorso. Davanti al concetto acquisito di apoptosi si può dire che tutto sia peste al tutto, come energia immediatamente letale, necessaria e continua nel divenire, per cui risulta chiaro e non peregrino quanto afferma Givone in Metafisica della peste citato da Lanuzza in Pensare la peste, a sapido commento dello studio. Due detti restano in mente: “in principio dunque fu la peste” e “la peste sono io”. Vien da pensare a tutte le potature dell’affollato albero della vita, a quella selezione naturale che opererebbe all’interno di ogni vicenda e per mezzo di tutto. La morte programmata nella natura, benché invisibile il più delle volte, si annida in tutti i processi in chissà quanti modi: ne abbiamo esempio in quelli familiari e ricorrenti nelle varie stagioni, mai guardati con ansia o con meraviglia, né tantomeno con paura in quanto non ci uccidono e anzi danno profitto: mettiamo la caduta delle foglie, il morire dei fiori a prezzo dei frutti, e tutta l’infinita teoria di fatti di morte produttiva, ben diversa dalla necrosi, ammesso che ci sia, che non prevede idea di alcun ritorno.

Per dirla tutta, com’è pur dovere, si è e bisogna essere peste a se stessi, e ormai non ci dovrebbe essere bisogno di ulteriori passaggi di spiegazione. Mi basterebbe aver messo in buon gioco questo attacco di insania sempre in agguato che è la peste espressiva, onde la carne muore e si fa scrittura.

Davide Di Poce
In una stanza


Quali gioie e quali dolori si racchiudono entro un portico,
l’angolo di una strada o ancora in una stanza

(G. De Chirico, Estetica metafisica)

«Ehi, Simo, buongiorno! A che giorno siamo, oggi?». Invio nervosamente il messaggio a Simona, appena sveglio. Chiuso nell’ampolla della mia stanza, ho perso il senso del tempo. Simona è stata l’ultima persona che ho visto prima dell’inizio della quarantena.

Era un venerdì pomeriggio e ci eravamo dati appuntamento al Colosseo. Lungo via di San Giovanni in Laterano, che da Piazza dell’Obelisco sfila fino alle pendici di Colle Oppio, l’Anfiteatro Flavio appare all’improvviso, svettando nella sua grandezza solenne e, quel giorno, sembrava un’enorme mongolfiera. Il virus ancora non aveva mostrato tutta la sua ferocia, non c’erano restrizioni e le raccomandazioni di mia madre risuonavano come le solite parole d’ansia.

«Non ci vediamo da tre settimane, tesoro». Tiro un sospiro di sollievo. Ho superato i quattordici giorni che impiega il virus a manifestare la sua presenza – «Non uscirò più di casa» mi dico –. Stanotte ho dormito sei ore soltanto. Lorenzo sostiene che non siano poche e che io sia un «lamentone». E allora mi chiedo che cosa voglia dire soffrire davvero di insonnia se, ogni volta che mi accade, passo tutto il giorno in uno stato confusionale, impastato di sonno.

Ieri sera ho visto la puntata di Piazza Pulita. In studio illustri virologi, sollecitati da Formigli, riferivano dettagliatamente in merito al decorso del morbo, mentre sullo schermo si susseguivano immagini di sofferenza nei reparti bianchi di terapia intensiva Covid-19. Ecco, ho sicuramente contratto anch’io la malattia, ho pensato. «Te lo avevo detto io» sarebbe stata la risposta di mia madre alla notizia del contagio, la stessa che mi ripeteva quando ero piccolo, insieme a «prima il dovere, poi il piacere» con quel «poi» sottolineato da una particolare sgranatura della voce. Poi – però – la paranoia è svanita.

«Ehi… che fai?» mi scrive Simona, incalzandomi, e un po’ mi sento in colpa perché non avevo risposto al suo messaggio nemmeno con un «grazie». Visualizzato. Spunte blu. Nessuna replica. Allora penso a Roberto. Riapro la nostra chat e rileggo quel messaggio lasciato lì a giacere livido, con le due spunte blu. Mi resta nella mente per tutto il tempo che impiego a togliere il pigiama e a infilarmi jeans e felpa. Devo andare al supermercato.

Resterei a casa volentieri per lo spettacolo che mi aspetta lì fuori: in fila davanti alla porta automatica del supermarket una schiera di figurine sbiadite, imbavagliate con le mascherine Ffp2 o Ffp3, palpebre pesanti, guanti chirurgici, un’aria spavalda e tetra e tutto, tutto quel bianco che fanno intorno a sé come pareti d’ospedale. Prima, quando incontravo l’anziana vicina di casa, la aiutavo a portare la spesa fin sopra alle scale e ora, invece, lei stessa mi prega di non avvicinarmi perché sono giovane e potrei essere veicolo di contagio, mentre mi guarda un po’ piccata, chiusa nei viluppi opalescenti del latex. L’inferno è bianco.

Rientro a casa, guardo il pigiama acciambellato: sembra una macchia incresciosa sulla mia trapunta verde. Il pensiero di Roberto compare di nuovo. Mi affaccio alla finestra della mia stanza. È un’azione nuova per me: mai avevo pensato di prendermi del tempo da passare lì a osservare ciò che mi circonda. Di fronte a me Via Appia Nuova, prima sgargiante e smaniosa nel viavai pomeridiano tra le porte dei negozi, ora è ridotta al silenzio dei cancelli sprangati di Villa Lazzaroni, al nevischio che c’è tra quelle sbarre anche nei giorni di sole.

«Ehi, come stai?». Prendo il cellulare e scrivo a Roberto. Lui è online. Cancello il messaggio. Vado in cucina a preparare il pranzo. Oggi è il mio giorno libero e riesco a stare davanti ai fornelli per un tempo che supera i cinque minuti. Durante questa quarantena cucino meno di prima. Dopo aver passato tutta la mattinata davanti al pc a fare «video-lezioni», all’una ho tanta fame e nessuna voglia di cucinare.

Fare lezione a distanza è faticoso, bisogna re-immaginare ogni cosa su quell’atollo virtuale nel quale mi trovo catapultato ogni mattina. Nello spazio intergalattico delle «classi digitali» le parole non germinano nel flusso un po’ anarchico, un po’ sorvegliato della comunicazione reale, ma sono rattrappite negli schemi rachitici dei PowerPoint e perdono quel tanto di mistero. I ragazzi del liceo, in compenso, con il loro entusiasmo scanzonato, a volte impudente, sono una incredibile fonte di vitalità. Di fronte all’enormità del virus, continuare a parlare di Tucidide, Lucrezio, Pericle è un modo per provare a sopravvivere insieme, a elaborare il lutto, a salire sulle spalle di Enea.

Se a pranzo non ne ho voglia, per cena lo faccio, cucino. «Ceniamo insieme su Skype?» scrivo a Simona che nel precedente messaggio non mi aveva risposto. Visualizzato. Spunte blu. Nessuna replica. Mi chiedo se a Roberto sia mai venuto in mente, in questi giorni, il mio nome; se abbia mai pensato di trovare una scusa per sentirmi di nuovo. «Non riesco, faccio la pizza col mio coinquilino e mangiamo insieme… Dopo?» mi scrive Simona. «Dopo cena non posso… ho video-chat di gruppo con alcuni amici».

La tecnologia ci sta salvando, in questo periodo. Ma questa stessa tecnologia, prima della reclusione, ci ha sottratto le strade, gli sguardi, l’osservazione del panorama, la tranquillità delle serate con gli amici senza selfie e Instagram stories e post su Facebook – per mostrare la nostra «vita in Capslock» – e TikTok e la «caption» perfetta e gli hashtag, che noia, quelli inseriscili tu.

Dopo cena entro nella video-chat di gruppo. Ognuno ha il suo calice di vino come fosse un venerdì sera qualsiasi. Brindiamo, come sempre; come sempre mettiamo in sottofondo la musica che accompagnerà la nostra serata: una playlist di Cher, uno dei più riusciti fenomeni trash – dentro a quella pastosa grossolanità c’è una buona dose di ironia e di salvifica leggerezza. Non posso fare a meno di notare l’aria cupa di Irene e Livia. Lorenzo e Betty, invece, sono già sul pezzo, rallegrati dal Cabernet che hanno iniziato a bere da prima. Poi il flusso del vino prende il sopravvento su tutti. Anche su di me il Primitivo (comprato appositamente la mattina al supermercato) fa un certo effetto e, adesso, a fine serata, saluto tutti, chiudo il pc e mi metto a dormire così, dimentico e felice.

Nel buio della stanza, sul letto fisso la luce che viene da fuori e osservo lo spettacolo lunare degli alberi di Villa Lazzaroni: al di là delle sbarre si affastellano, in prospettiva – alcuni più grandi, altri più piccoli – sul piano della mia finestra. Sembra un quadro. Non lo avevo mai visto prima.

Prendo il cellulare. Scrivo un messaggio. Roberto è online. Invio.

Fabrizio Labarile
L’ ALBERO DEL FICO

Abitare in periferia, specialmente in questo periodo della pandemia, è molto vantaggioso, perché puoi farti una passeggiata vicino a casa tua nel rispetto delle regole e respirando aria salubre. Nel primo pomeriggio m’incammino per una strada di campagna, da dove non passavo da tempo. Non vedendo un alto albero di fico che nei miei ricordi era come un faro, che s’innalzava al centro del percorso, mi soffermo per rendermi conto se ero veramente nel sentiero programmato . “ Non vorrei che proprio in questi giorni sono vittima di un attacco di miopia “ affermo a voce alta come se interloquissi con qualcuno. Prima di farmi sorgere altri pensieri, guardo con più attenzione e constato di non essermi sbagliato.
L’albero del fico c’è , anzi si intravede appena la fronte e un occhio, poiché tutto il resto del corpo é stato assalito e reso prigioniero dall’edera. Il fico con grande fatica m’intravede e, con voce fievole e compassionevole m’implora: ”Aiutami, per favore ! Ti sembra giusto che questa erba malvagia mi debba tenere prigioniero e, se nessuno mi libera, fra qualche tempo morirò asfissiato!”
In quel momento mi sono ricordato delle volte che ho colto i fichi da quell’albero: specialmente quelli grandi e gustosi, che maturano a fine giugno; e, senza farmelo ripetere asserisco: ”Non ti preoccupare , ci penso io a liberarti. Dammi cinque minuti per recarmi a casa mia a prendere le forbici da potatore”
Quando sto per andarmene con un tono di voce quasi impercettibile più per farsi coraggio che per diffidenza verso il mio impegno , simile a quello del condannato all’ergastolo, mi supplica:” Vieni subito ! Tu sei l’ultima mia speranza “ Dopo pochi minuti ritorno ed inizio a tagliare l’edera dal tronco. Non appena libero alcune parti, noto che l’albero respira con più ossigeno e sembra riacquistare il suo colore abituale, anche se restano sul suo corpo i segni, come frustate, lasciati dall’edera.
Dopo circa un’ora, l’albero riacquista la sua libertà e l’aspetto di buona salute; insomma appare come miracolato.
Dopo aver emesso diversi lunghi respiri di soddisfazione per la libertà riconquistata, mi guarda. “Grazie, sei stato gentile; te ne sarò grato. Per ricompensa ti prometto che i migliori fichi saranno riservati a te. Da due anni, da quando questa edera malvagia ha iniziato ad assalirmi attendevo che qualcuno mi liberasse. Tutte le persone coglievano i miei frutti che io, con grande fatica producevo, ma non avevano attenzione alle mie sofferenze. Tante volte ho pensato che gli uomini sono veramente malvagi, egoisti e cattivi. Oggi, però, posso cambiare questo mio giudizio e credere che esistono anche uomini buoni e attenti al creato che, comunque, appartiene a tutti.”
“Non devi ringraziarmi “, gli rispondo, “Negli anni passati sono venuto a raccogliere e a gustare i tuoi frutti. Sono contento di averti aiutato, e sono convinto che soddisferai tante altre persone.”
Durante il percorso verso casa paragono la situazione dell’albero a quella delle persone che vivono soli e, specialmente in questo periodo della pandemia, soffrono ancora di più. Loro sono prigionieri di una vita, spesso, grama e difficile. Santeramo 17.04.2020

Carlo Bernardi
Dopo l’Inferno il Purgatorio, con Il mostro che chiude la giornata

16/04/2020
Riprendiamo il diario dopo cinque giorni dalla Pasqua che sono praticamente passati al telefono per fare e ricevere gli auguri ma anche per andare al supermercato e acquistare i giornali. Dai molti contatti telefonici mi accorgo della diffusione di un certo nervosismo e questo comincia a preoccuparmi. Alcuni sintomi si manifestano con il rifiuto di sentirsi chiusi in casa, cosa che attiva una sorta di ribellione verso misure sentite come un sopruso da parte di chi avrebbe un disegno recondito e dispotico che nasconde la vera verità. Per fortuna la maggioranza dei cittadini del mondo è consapevole dei rischi che la pandemia può portare con sé e in qualche modo ne ha paura anche se spera in una soluzione in tempi brevi. In tutto il pianeta si sta cercando un vaccino efficace contro il COVID-19 ma sembra che non sia così facile né così rapida la soluzione anche perché il virus sembra mutare velocemente. Nel frattempo sarebbe più rapida la scoperta di una terapia farmacologica che, anche se non sconfigge il virus, ne impedisca l’aggressività letale, ma queste cose le avevo già scritte solo che in questi giorni, purtroppo, la rapidità non sembra delinearsi in tempi rapidi anche se terapie specifiche già esistono però non sono alla portata dei singoli ma delle strutture ospedaliere che sono fornite degli strumenti adatti.

In una situazione così grave Trump non ha trovato di meglio che bloccare i fondi per l‘OMS accusandola di responsabilità organizzative. Insomma Trump, quando è in difficoltà, minaccia e accusa gli altri per distogliere tutti dalle sue responsabilità, cosa questa che mi ricorda tanto i comportamenti di tanti nostri politici, specialmente dell’opposizione.

Intanto ieri, dopo un mese di malattia da coronavirus, è morto Luis Sepulveda lasciando un vuoto che ci fa sentire tutti orfani. Per me è morto un amico, un fratello, un grande della moderna letteratura mondiale e sicuramente ne sentirò la mancanza.

Dopo questi ultimi giorni passati a leggere, ieri abbiamo terminato l’Inferno di Dante e abbiamo letto il primo Canto del Purgatorio. Dopo la fase uno è come se fosse iniziata, anche per, me la fase due. È stato come uscir fuori a riveder le stelle. Per Dante era stato così ma ora la devo considerare solo un’illusione perché le stelle, con queste belle giornate, le vediamo tutti i giorni ma il virus, che non vediamo, ci sta dando il tormento.

Ho scoperto, nel frattempo, che mi sono innamorato di una novantunenne. Ci si può innamorare di una novantenne che non è nonna né parente? Certamente sì se si chiama Dolores Prato. Ho letto finora più di duecento pagine del suo libro autobiografico Giù la piazza non c’è nessuno e ho scoperto che molti aspetti della sua vita somigliano ai miei e non perché sono gli stessi ma perché vissuti e sentiti come io ho vissuto e sentito i miei. Lei, senza padre, abbandonata dalla madre presso degli zii e io che il padre l’ho visto morire sono stato, per necessità lavorative di mia madre, messo in un collegio con mio fratello. Di sicuro la vita di Dolores ha avuto aspetti diversi e peggiori della mia ma l’attenzione a quello che ci circonda e la difesa, cercata attraverso chiusure e l’isolamento dagli altri, è molto somigliante. Questo è quello che mi ha fatto sentire vicina questa scrittrice e mi spinge a leggere le altre quattrocento pagine. Approfitterò di questi giorni per completarlo.

Oggi Ursula van der Leyen ha ricordato che i Paesi europei non sono stati vicini all’Italia all’inizio delle sue difficoltà e ha invitato tutti a chiedere scusa al nostro Paese affermando, nel contempo che ora l’Europa c’è. Ora sembrerebbe che sia aperta la strada per i finanziamenti europei in occasione delle calamità territoriali e sanitarie con 37 miliardi dal Mes senza condizioni. Nel frattempo sono aumentate le prospettive per una forma di Eurobond, anche se con nome diverso. Intanto il PD ha indicato tre vie per affrontare la nuova fase: 1) Sconfiggere il virus; 2) Sostegno universale contro la povertà: 3) Strumenti straordinari per le imprese e il lavoro.

Da qui si dovrebbe ripartire con l’azione di governo e, contemporaneamente, portare avanti la discussione per un’azione comune europea dove in tutti i Paesi la situazione si sta aggravando e si comincia a capire che senza un’azione comune non si esce dall’emergenza sanitaria.

Tutte le sere passate abbiamo assistito alla visione di film e, anche questa sera, è stato lo stesso. Abbiamo rivisto il film di Roberto Benigni Il mostro dove un inquilino senza reddito e in lotta con l’amministratore viene accusato di essere l’autore di una serie di omicidi di carattere sessuale e la polizia gli mette alle costole una poliziotta che dovrebbe provocare una sua reazione per incastrarlo. La vicenda si conclude in modo inaspettato. Al termine ho pensato che oggi il mostro è il coronavirus e quando scopriremo come difenderci sapremo anche che poi non ere così difficile, basta cercare altrove le armi adatte. Come sempre si va a dormire nell’attesa di un giorno migliore.

17/04/2020 –
Oggi l’Italia sembra stupida se si lascia governare da chi soffre di bipolarismo affidando a politici e governatori il compito di decidere sulla loro pelle senza un minimo di responsabilità e consapevolezza. Fontana, Salvini e loro seguaci hanno cambiato parere più di una volta per poi decidere sulla sorte di tutti gli italiani. È proprio quello che succederà se liberando le regioni dalle restrizioni senza concordarle gli spostamenti dal Nord al Sud della penisola metteranno in contatto i positivi da coronavirus con i negativi delle altre regioni che hanno subito, in questo caso inutilmente, la quarantena casalinga per non infettare il Paese. Dobbiamo davvero chiudere i confini agli abitanti del Nord? O forse basterà chiuderli ai leghisti e ai forzisti e F.I.? Mettiamo in quarantena forzata questi irresponsabili che danno degli incapaci agli altri. Anche io credo che non si possa tenere chiusa la gente e le imprese all’infinito ma la decisione dovrà essere graduale e settoriale cioè mirata e controllata nelle conseguenze.

L’Europa ha di fatto approvato gli eurobond chiamandoli in altro modo ma Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia e parte dei 5Stelle hanno votato contro. Proprio non gli va giù che questo governo abbia ottenuto quello che Salvini non avrebbe avuto sbattendo i pugni sul tavolo. Ma forse non voleva questo ma voleva che l’Europa ci cacciasse via per giustificare la sua volontà di uscire dall’Euro. Più pazzi di così? Ma è stato il coronavirus o la pazzia si nascondeva anche prima nelle loro teste? Perché loro sanno quello che non hanno mai detto ai loro elettori, che uscire dall’Europa sarebbe la rovina dal Paese e di tutte le classi sociali con tutti i loro beni patrimoniali e finanziari. Insomma, se non si fa carico lo Stato di pagare i nostri debiti, l’Europa e tutti nel mondo vorranno la loro parte spogliandoci per sempre.

Mi sono ieri addormentato col mostro e oggi lo trovo in mezzo a noi. Felici e contenti?

Per molti oggi venerdì 17 parrebbe un giorno sfortunato me per me che di 17 sono nato è il mio numero propizio e non può essere altrimenti. Semmai la sfortuna spero tocchi a chi sta giocando sulla vita della gente. Non può essere altrimenti e io mi gioco tutto su una possibile e rapida terapia seguita alla scoperta di un vaccino efficace che ponga termine ai sacrifici che stiamo affrontando.

Dopo tre ore per fare la spesa e un pomeriggio di lettura del secondo Canto del Purgatorio condito dalle note del Sapegno il dopocena è stato riempito dalla visione di due film. Ora torno a dormire per prepararmi a un domani che spero roseo e pieno di buone notizie.


Che bello colpevolizzare gli altri mentendo e essere creduti.

18/04/2020 – Oggi, durante la colazione, sono stato invaso da notizie contrastanti.

Fontana insiste nell’apertura totale della Lombardia, tra l’altro in un momento in cui il numero di morti e contagiati è aumentato in quella regione. Questo renderebbe inutili i sacrifici che io e molti italiani hanno sopportato finora. Ora mi domando se il governatore di una regione può mettere in pericolo la vita dal Nord al Sud d’Italia, perché questo accadrà senza che questa scelta non sia concordata con le altre regioni e col Governo centrale.

Inoltre la Lega e Fratelli d’Italia hanno votato contro gli eurobond come avevo già scritto ieri. Sembra che l’unico scopo sia di attaccare Conte e, per raggiungere questo obiettivo, sono disposti a rovinare l’Italia, tanto la colpa sarà sempre degli altri. Poi si meravigliano se la loro proposta di collaborazione viene rifiutata da tutti.

Insomma, mi sono addormentato col mostro e me lo ritrovo al risveglio. Peggio di così c’è solo il coronavirus.

Ma gli italiani sono davvero così stupidi? Io non ci voglio credere, fino a prova contraria.

Oggi sono uscito a fare la spesa della settimana e a comprare il giornale poi nel pomeriggio abbiamo finito di leggere il Canto 3° del Purgatorio e subito dopo abbiamo seguito l’intervista a Sepulveda da parte di Enzo Biagi. Con la sua perdita è come se ci fosse venuto a mancare uno di famiglia. Sento che, in questi giorni, si sta procedendo a una rivalutazione di Enzo Biagi. Un grande giornalista estromesso da Berlusconi che ha contribuito a colpire le maggiori figure e intelligenze del Paese introducendo una frattura nel tessuto sociale italiano. Dove prima c’erano gli avversari politici sono nati i nemici con cui non si deve discutere. Con l’abolizione delle rassegne politiche seguite da un dibattito sono nate le apparizioni televisive senza contraddittorio e, ancora oggi, sembra che questo è preferito da parte di molte forze politiche. Le trasmissioni senza contraddittorio perciò sono equiparabili a dei veri e propri comizi.

Dopo la cena, a base di pollo con peperoni, abbiamo visto il film Un segreto tra di noi con un cast di attori formidabile anche se il film l’ho trovato un po’ confuso. A questo hanno contribuito i numerosi flash back inseriti senza interruzioni producendo confusione nello spettatore che cerca di capire, in certi momenti, dove è collocata temporalmente la narrazione.

Come ogni sera anche oggi è giunta l’ora di andare a dormire. Buonanotte.

Roxana Lazar

GIUSTIZIA PER TUTTE

Anime sole! Anime tristi! Avete attraversato l’inferno e vi siete fermate nel purgatorio per redimervi di quei peccati che non avete nemmeno commesso. Avete lottato, avete gridato. Nessuno è stato capace di ascoltare la vostra flebile voce. Avete chiesto aiuto, oppure avete abbassato la testa, aspettando che la furia fosse passata, ma non siete riuscite a ricevere aiuto. Adesso state vagando da sole, verso quel paradiso che vi accoglierà. Se mai ci fosse un paradiso! Se esistesse quel paradiso, stareste tutte insieme, lì, per raccontarvi i sogni, i desideri e le speranze per le quali, ormai è troppo tardi, Cerchereste delle risposte che non arriveranno mai. Non esistono risposte alle vostre domande: “ Perché a me? Cosa ho fatto di male? Desideravo essere amata, volevo un po’ di rispetto e speravo in quello che è giusto che sia: la libertà”.

La libertà? Povere anime! E’ stato così facile, per loro, farvi diventare prede. Perché di questo si tratta, in fin dei conti. Siete soltanto le prede dei vostri cacciatori, vittime dei vostri aguzzini assettati di sangue fresco. Non potevate ribellarvi, oh, no! Loro sanno che è molto più facile trasformarvi prima in schiave dell’amore e, solo dopo, usare una violenza cruda, diretta, spietata. Ma è forse amore, questo? Si tratta dell’amore puro, ideale, quello al quale ogni fanciulla pensa agli inizi della sua vita? Oppure è un amore oscuro, macabro, sporco, un amore che deriva dalla paura stessa degli uomini che diventano bestie?

Neanche tu troverai mai una voce che potrà essere presa in considerazione, per raccontare la tua triste storia. La tua cerchia d’amici era troppo ristretta e la tua famiglia, troppo lontana. Tu, Irina, eri troppo giovane per capire. Insomma, eri solo una straniera e, per giunta, eri anche un po’ stramba. Stavi sempre per conto tuo, ad ascoltare quella musica strana che dava fastidio quasi a tutti. Nascosta sotto quel velo grosso di fondotinta dal colore troppo scuro per la tua pelle, con quel trucco pesante, ricoperta dalle tue treccine multicolori, sotto quel aspetto da ragazza ribelle, piena di piercing e dilatatori, tatuaggi e colori sgargianti, c’era un’anima sola. Così sola e incompresa, che era diventata tormentata.

Avevi paura.

La paura è di genere femminile, come noi. La paura appare, ci travolge, si infila sotto la nostra pelle, ci umilia, ci perseguita. Si insidia nella nostra vita e ci strangola piano piano, fino a lasciarci prive di ogni volontà. Con te, piccola Inna, la paura è stata troppo crudele, troppo feroce. Lo è stata anche con Desirée o con Pamela. Lo è anche con tutte le altre migliaia di donne che ogni quindici minuti vengono sottoposte a violenze di ogni tipo. Tutti i giorni! Ogni quindici minuti! In Italia, paese moderno, sviluppato, cattolico, giusto, un paese dove il pugno che si alza è quello dell’amore. Le statistiche parlano chiaramente: 88 donne al giorno e i loro carnefici sono, nel 74% dei casi, italiani.

Sarebbe questo il volto dell’amore?

Non passa giorno senza dover leggere notizie di questo genere: donne accoltellate, bruciate con l’acido, gettate dai piani superiori o tenute in schiavitù. Donne che solo apparentemente sono libere, ma che vivono nell’ombra malefica degli uomini-mostro, quelli che non riescono a trattenere la loro furia morbosa e riversano tutta la loro impotenza sul volto della donne. Donne che non fanno altro che amarli con tutte se stesse. Per questi uomini, le donne diventano proprietà privata. Questi uomini si aspettano che il loro diritto venga rispettato dalle stesse donne-oggetto. Quando l’amore finisce in tragedia, i vicini interrogati diranno: “ era una famiglia a posto, non possiamo crederci ancora che sia successo”. Tutti saranno scioccati e parleranno di lui molto bene: “era il vicino perfetto, non si vedeva, non si sentiva, ci aiutava a tagliare le aiuole e ci faceva persino la spesa. Non possiamo spiegarci cosa sia successo”

E poi ci sono quei casi infiniti di violenza sulle donne che non si vestono “come si deve”. Già, perché colpevoli sono e saranno sempre queste “sgualdrine” che se la cercano, con quei vestiti striminziti, gonne troppo corte e pantaloni attillati. E che altro devono fare i “lupi” se non “braccare” le loro prede? Ditemi se queste ragazze non sono violente? Non se ne rendono proprio conto della violenza che usano contro gli uomini? No? Allora si meritano tutto quello che le succede: stupri individuali o di gruppo, ingestione involontaria della droga dello stupro e alte droghe molto più pericolose, distruzione parziale o totale della vita di famiglia e della vita sociale, con conseguenti e possibili tentativi di suicidio che, a volte, riescono ad essere messi in pratica. Ovviamente, di questa opinione ci saranno, inesplicabilmente, anche alcune donne: quelle che, troppo sicure della loro pudicizia, hanno la ferma convinzione che gli uomini-mostro non sono altro che delle povere vittime di queste donne.

Povere noi! I carnefici sono diventati vittime!

Ma torniamo a te, ragazza dall’aspetto ribelle, ma dall’anima tormentata. Cosa facevi tu a Stazione Termini, il 18 aprile 2018? E chi è stato colui che ti ha fermata e condotta in quel posto macabro di Via Atella, a San Giovanni?

Vi sembra irreale che al centro di Roma succedono cose di questo genere? Cosa bisognerebbe dire di San Lorenzo, zona limitrofa alle aule dell’Università La Sapienza ? Quella zona in cui Desirée ha conosciuto i suoi aguzzini? Desirée, Pamela, hanno trovato molte voci a gridare “giustizia”, mentre Irina, no! Non è mai giusto, non deve mai succedere, ma se succede, perché nascondere la notizia oppure trasmetterla come notizia sconvolgente, sì, ma solo per poco? Che fine hai fatto, piccola Inna, ventuno anni, occhi grandi come quelli di un cerbiatto spaventato, naso a patata e frangetta corta corta? Perché l’ultimo tuo post su Facebook è stato quello del 18 aprile?

“ Se domani un pensiero di ciò che era ieri ti chiamerà, tienilo con te perché dopo un giorno ancora forse se ne andrà”

Sei scomparsa mentre canticchiavi la canzone degli Articolo 31, senza sapere che per te, un “Domani” non ci sarebbe stato più. Qualcuno ti ha convinta che per te sarebbe stato un bene arrivare in quel ostello, quell’appartamento in cui potevi dormire per due soldi, insieme ad altri coabitanti clandestini. Qualcuno ha ottenuto la tua fiducia, quella che non accordavi a nessuno, o forse la accordavi troppo spesso a chi non se la meritava. Perché tu eri buona e dolce, ma eri sola. E avevi imparato che la solitudine può essere un bene in quei momenti in cui non sapevi più chi fossi. Quei momenti sempre più frequenti, nei quali ti saresti nascosta ovunque pur di non rispondere alle domande: “Cos’hai? Cosa ti è successo?”

Quella sera di primavera, hai accettato la proposta di quel qualcuno che non faceva più le domande, ma offriva un posto letto. Non avevi scelta. Eri stanca e a Termini non conoscevi quasi nessuno. Non ti ricordavi neanche perché eri salita sul treno o come fossi arrivata a Roma. Forse avevi fatto l’autostop e il tuo benefattore ti aveva lasciata in questo posto brulicante di gente. Lungo i marciapiedi vedevi i senzatetto, con i loro cartoni ammucchiati vicino ai muri sporchi, ti meravigliavi guardando gli alberi addobbati con panni messi ad asciugare e accarezzavi i cani che non si allontanavano dai loro padroni dormienti. E poi sei arrivata lì, in quell’appartamento. Ti aspettavi di trovare un luogo con letti a castello e lenzuola bianche, ragazzi stranieri che venivano a dormire la sera dopo lunghe passeggiate tra i monumenti di Roma e di divertimento nei locali notturni. Ti aspettavi di trovare una specie di Torre di Babele dei nostri giorni, un parlare continuo in tutte le lingue del mondo. Invece hai trovato un appartamento sporco, con finestre mancanti, e materassi macchiati, buttati per terra. Niente lenzuola, solo delle coperte di lana, sporche, probabilmente prese alla Caritas. E mucchi di vestiti gettati ovunque. Gli abitanti, poi, non erano i turisti che avresti voluto trovare. Erano stranieri, sì, ma clandestini in Roma. Gente senza volto, senza fissa dimora.

Ti sei girata per andartene. Poi è arrivato il nulla.

Dopo quasi un mese, dal piano inferiore del palazzo in cui sei salita per dormire, scendeva un odore nauseabondo. I vicini non sono riusciti a sopportarlo. Hanno chiamato i carabinieri. Quello che hanno trovato lì, non può neanche essere raccontato. Sopra un materasso fradicio, per terra, giaceva il tuo corpo esanime. Gli altri abitanti del luogo avevano gettato sopra i tuoi resti una di quelle coperte di lana, perché non sopportavano il via-vai dei ratti che si nutrivano del tuo viso, così meraviglioso, non molto tempo prima.

Le indagini finirono presto. Per Inna, ventuno anni, romena, sola, nessuno è uscito in strada a protestare. Nessuno ha organizzato una fiaccolata. E nessuno, o quasi, pensa ancora ai suoi occhi grandi come quelli di un cerbiatto, al suo naso a patata, alla sua bocca a forma di cuore e a quell’ultima lacrima che nessuno ha raccolto dal suo viso.

In quella lacrima era racchiusa la vita che gli è stata negata.

(Il nome della ragazza è stato modificato per non offendere la sua memoria).

Anita Napolitano
Confinamento
(Ai tempi del Covid 19)



Nella prima decade di marzo 2020 anno bisestile, tutto faceva presagire il peggio. I dati trasmessi impressionavano”lockdown”lo slogan coniato per contenere l’ infezione del Covid 19, dopo la notizia ufficiale del primo Ministro, aveva sconcertato la popolazione. Restare a casa blindati era l’ unica cosa da fare per arginare la pandemia. Quel tempo tiranno che in precedenza era stato
fagocitato schizofrenicamente, martirizzava. Nelle quattro mura tutto scorreva lento, i minuti erano interminabili, il cosiddetto  secolo dell’ ostentazione e della velocità che fino a quel momento aveva dettato legge, stava per terminare. Le mille cose da fare, i progetti a lunga scadenza erano stati di colpo cancellati.
L’ importante era sopravvivere, il nemico invisibile poteva appostarsi ovunque e colpire senza pietà, nulla si doveva dare per scontato. Virus sconosciuti ci avevano dichiarato una guerra senza precedenti che stava mietendo vittime senza risparmiare uomini di ogni etnia. Nelle strade deserte si udiva solo lo stridio interrotto dei gabbiani e lo squittire dei piccoli ratti in cerca di cibo, lo sbarramento intimoriva e  su gli orizzonti giorno, dopo giorno calavano i sipari.
Il web, oggetto di grandi contestazioni improvvisamente era diventato luogo di ritrovo, una sorta di muretto virtuale. Benedicevo  Mark Zukerberg   per l’ invenzione del 2004, la piattaforma multimediale prima del Covid 19 lapidata e ritenuta diseducativa di colpo veniva beatificata dalla maggior parte della gente che ne riconosceva i poteri miracolosi . Faccia di libro ci permetteva non solo di comunicare in tempo reale  con il resto del mondo, ma di esprimere attraverso il social il grave disagio.  Quando accendevo la TV  l’ angoscia mi assaliva, i morti crescevano a dismisura. Era giunta la primavera, ma i fiori di pesco stentavano a sbocciare.In quel terzo mese che aveva preceduto il corto febbraio, i Tg continuavano a ripetere che l’ ‘ Italia era una delle nazioni più colpite dopo la Wuhan, era la seconda con più numero di contagi, in Lombardia e nei paesi limitrofi non si riuscivano più a contare i decessi. La nostra penisola duramente colpita, veniva dalla Francia e dall’ Inghilterra schernita, le due sorellastre non avevano ancora capito la gravità.
Io ormai capo della mia famiglia per scelta obbligata, nel periodo della quarantena avevo il compito di organizzare l’ interminabile giornata. Non era cambiato niente, tanto erano quaranta lunghi anni che facevo sempre le stesse cose, e come Giosuè ostinato e istintivo nell’affiancare Mosè nella guida del suo popolo vagando  nel deserto per raggiungere la terra promessa, io mi ostinavo ad affiancare, a volte sbagliando i componenti della mia famiglia per raggiungere la mia di terra promessa. I politici delle varie tendenze  parlavano dello stanziamento di miliardi alle imprese, alle famiglie e tutte le altre attività in difficoltà, ma i presidi necessari per la protezione e le mascherine tardavano ad arrivare. Intanto negli ospedali continuavano a morire pazienti, medici e sanitari. Il coronavirus stava prendendo piede, la piaga dilagante si stava espandendo oltre che nell’ intero stivale, in tutto il mondo.
Quel giorno in fila distanti un metro gli uni dagli altri davanti al supermercato come  soldati sulle mine, una giovane ragazza dai capelli indocili per  attaccare bottone mi chiese:  “Mi sa dire a che ora chiude il supermercato? Non riesco a trovare il cartello affisso che lo comunica”. Guardavo la ragazza senza rispondere ero assorta dai miei tarli, la spettralità della città mi faceva pensare al mondo surreale di un quadro ” la persistenza della memoria” di Salvator Dalì. Girando il volto coperto dalla sciarpa e scostando la frangia dalla fronte rivolgendosi a me con insistenza continuò: “Ma lei crede che riusciremo ad uscire da questo vicolo cieco? Aveva gli occhi lucidi e il capo basso come facevo a risponderle? Quello sguardo offeso meritava risposte confortanti, ma io non sapevo che dire, avevo paura ero diffidente, non riuscivo a dare una risposta, eravamo blindati e per il momento non si intravedevano luci nel tunnel. Era così giovane e non volevo deluderla.”Ehi dico a lei perché non risponde?  Non sono un’ appestata”.
E chi ce lo poteva dire se eravamo appestati o no, la paura attanagliava e il sole non ne voleva sapere di uscire. Ritornando alla dura realtà risposi frettolosamente: “Rispettando le regole, restando a casa, mantenendo la distanza sociale e  lavandoci le mani spesso, si spesso fino all’ esaurimento. Lavarsi le mani era diventata un’ ossessione, un incubo che non mi dava pace. ” Ma queste sono le classiche cose che ogni giorno ci ripetono tartassandoci, crede che basterà fare questo, basterà fare quello che ci ripetono in tv”? “Che dire”? Il mio intento era quello di tranquillizzarla…  risposi pacatamente:” La vita è  sacra e noi ne siamo i soli custodi, salvare salvarci è d’ obbligo. Aggiustandomi la mascherina… e se le misure da adottare sono queste beh…. è necessario rispettare le regole.
E lei incalzava : “A signò e che ne pensa della posizione della chiesa”? Rivolgendo lo sguardo alla povera clochard accasciata sulle grate dell’ edificio pontificio, tutto ad un tratto mi si sciolse la lingua e iniziai a parlare senza sosta. Era da tempo che avevo un conto in sospeso con madre chiesa… era giunto il momento di dire quello che pensavo e per giunta davanti ai quei pochi che mantenevano la distanza di sicurezza per entrare al supermercato. Quel sassolino nella scarpa mi dava tremendamente fastidio…con toni solenni e senza freno iniziai  di getto…
“La chiesa, la chiesa…porca miseria lasciamo perdere…è l’unica e dico l’ unica Monarchia Assoluta sopravvissuta a tutti i cambiamenti storici. Esercita oltre a un evidente “ascendente” spirituale anche un potere economico e politico da sempre, a quest’ultimo fortunatamente negli ultimi decenni sono state tagliate le unghie ma l’accumulo di millenarie ricchezze e dico millenarie ricchezze permane e i potenti della chiesa a qualsivoglia livello non faranno mai questa “francescana” rinuncia e ribadisco questa “francescana” rinuncia. La ragazza ” Sinceramente non ho mai capito tanto sfarzo , tanta ricchezza, Gesù è nato in una grotta al freddo e al gelo e di san Francesco ne vogliamo parlare? Gesticolando risposi: ” Io sono così non sopporto le ingiustizie , le iniquità e se poi inizio a parlare non la finisco più e non mi sembra il caso. A me non da neppure fastidio, visto che ancora oggi volontariamente non pochi “fedeli” fanno donazioni e pagano indulgenze indirette per molti aspetti dei servigi clericali. Se sta bene a loro sta bene anche a me. A me basta che la politica e lo Stato soprattutto inteso laico non subisca indebite  pressioni, col tempo ho capito che se la mia diversità mi rende impermeabile a ricevere conforto da qualsiasi presunta deità la stragrande maggioranza degli uomini sente questo bisogno per me incomprensibile. “A signò e mo’ sta a diventa difficile er discorso, il mistero è mistero ce devi crede senza fatte tante domande a fede è fede, a me sto Papa me piace tanto, va sempre a pregà alla Salus Popoli Romani” Mi ricordo quel giorno a Piazza San Pietro quando ha strattonato la fedele infuriandosi, quello che ci vuole, ci vuole, mi è sembrato uno di noi, uno del popolo”. Sul Papa non oso pronunciarmi… perdonatemi ma sul potere della chiesa si, mi ci adatto semplicemente,lo guardo dall’esterno anche con una certa curiosità intellettuale e obbligata tolleranza, ma se devo dire che lo apprezzo questo millenario potere direi una balla”si cacchio! Direi una grande balla”. Feci un respiro di sollievo… era da giorni che con quella cacchio di museruola non riuscivo a parlare”… vedere Cecile lì per terra senza un tetto anche al tempo del Covid 19 mi faceva innervorsire…

“La valigia di Cecile”

Cècile è una donna giovane,
ha l’ accento francese,
i capelli bianchi.
La flebite le ha steso le gambe:
seduta per terra,
davanti alla chiesa, chiede l’ elemosina.
I passanti che vanno al supermercato
calpestano il suolo della casa di cartone
di Cècile; frettolosi non si accorgono di lei:
vanno vanno, ogni giorno
senza meta vanno…
e comprano pane pane
pane che il giorno dopo gettano
anche se non è raffermo,
quello stesso pane che Cècile custodisce
gelosamente nella sua valigia di plastica.
Negli occhi di Cecile, la diffidenza del buio.
I pensieri di piombo affondano
e le sue tasche grondano grondano
grondano povertà.
Due suore pregano pallide,
pregano… e poi parlano
parlano…
Ma cècile non ascolta:
si volta solo quando una dice:
” Tra qualche giorno ripasso
e ti porto una croce”.
Risponde Cècile con la sua voce roca:
” Ho già la croce, ma tu non puoi vederla:
è mia questa croce di spine e sanguina
sanguina sanguina…”

Alessandra Cozzani

12/3/20
In questo tempo senza parole

In questo tempo senza parole,

casto, dove i giorni sono

pasta di pane tirata fino

all’ultima ora, per colmare

i bordi di ogni nostra paura

cammino tra quattro pareti

e vedo il cielo.

Misuriamo con mani inferme

la nostra impotenza,

saniamo la vita racchiusa in

rifugi di luce e ombra

attendiamo il ritorno.

Ogni seme germoglia piano

timoroso di far rumore, ma esiste.

Ci sono davanzali ovunque

quasi fioriti, quasi pronti per la vita.

Tutto chiede salvezza

da sempre, ma ora

ci lanciamo segni, cenni, fiori

in una ghirlanda di voci.

Nulla potrebbe essere più

appropriato, più vero di questo

nostro non esserci mai provato

prima.

13/3/20

Riti di ogni giorno

In questi giorni per me poco e nulla è mutato,

guardo il mondo intorno che ha perso

le sue connessioni, le sue algebriche performance

ed è rimasto muto, a mani vuote come un viandante.

Adesso sono tutti a casa, tutti chiusi.

Nessuno esce, nessuno gode, nessuno piange.

Si attende.

Io scrivo e leggo e pelo patate

cuocio l’altare della vita,

i miei riti semplici di ogni giorno

scorrono tra le dita nude.


Edgar Degas. Donna che stira. Olio su tela. 1887

15/3/20

In questi spazi

Alloggiare in questi spazi

d’un tratto consegnati a resa,

quasi senza casa, allocati inermi

su questi avanzi come fogli bianchi

ancora da scrivere nella sequenza

dei giorni,

con la luce sbieca che pare

un sortilegio

contro l’amaro degli inverni-

a me pure cari- e per questo

ho preferito a lungo

l’assenza di ogni cura.

Lumaca che scivola e

vive della sua stessa bava.


Vilhelm Hammershøi. Chiaro di luna, Strandgade 30. Olio su tela. 1906

16/3/20

Nella Natività di Giotto il Bambino è avvolto in bende simili a quelle che fasciano Lazzaro quando resuscita. Il Bambino porta già alla nascita l’idea della morte. È forse un morto rinato, un reincarnato? O ancora meglio è un bambino che nasce nella consapevolezza della sua morte futura. La Madonna e un’altra donna, forse la levatrice, lo depongono nella mangiatoia che funge da culla, ma già assomiglia a una piccola bara. Giuseppe più in là è escluso dalla scena, pensa, sogna, dorme, comunque non è parte della natività, essendo solo un padre adottivo. La maternità è una questione solo femminile, alla quale lui, come uomo, non accede. Il mistero gli resta precluso. Gesù fissa la Madre con uno sguardo consapevole come a dirle: tu sai cosa accadrà, vero? Sai che questa è tutta una messinscena per poco. Ma la Madre ignora, dice: lascia stare per ora, manca così tanto, lasciami godere della dolcezza della maternità. E come tutti noi, uomini e donne, non vuole pensare a quando tutta questa meraviglia finirà.

Persino gli animali sembrano consapevoli, il bue che ha occhi miti e dolcissimi, l’asino che cerca di carpire le parole tra la Madonna e Gesù, i due arieti in primo piano che si voltano verso lo spettatore per svegliarlo alla coscienza della scena. Animali da fiaba, innalzati a una coscienza divina. Come fiabeschi saranno i cavalli di Paolo Uccello più di un secolo dopo. Gli angeli sul tetto della capanna fanno un gran fragore con le loro ali e cercano di svegliare i pastori per comunicare loro l’eccezionalità di quella nascita. È un dipinto tutto giocato sulle linee degli sguardi tra chi vuole portare alla consapevolezza di una realtà trascendente e chi vuole ignorarla, chiudendosi nella dolcezza della propria umanità dolente. Giuseppe per primo, che non vuole prendere parte, non vuole scegliere tra la realtà umana e il mistero di quella divina a cui è chiamato. Il sonno è sempre stato un rifugio per gli afflitti, gli esclusi dalla vita. Si accantona per un attimo la realtà, la si mette tra parentesi. Lo sanno bene i depressi che cadono nell’apatia come in una tregua dalla guerra dal mondo. Non è la negazione totale del suicida, il depresso in fondo vorrebbe far parte del mondo e crede che un giorno potrà farvi ritorno, dopo un buon sonno ristoratore. Ed è nel sonno che comincia il sogno … Il sogno di un’altra vita possibile.


Giotto. Natività di Gesù. Cappella degli Scrovegni. Padova.


Giotto. La resurrezione di Lazzaro. Cappella degli Scrovegni. Padova

17/3/20

Oggi una filastrocca allegra per ravvivare la fatica di questo periodo.

La fata e le bolle di sapone

Nella piazza senza gente

Mille bolle di sapone

Volano alte come campane

Spinte da una fata disubbidiente.

Gioca con l’aria in groppa

A fiumi di vento, sale

Scende, corre, scappa,

Con le bolle fa le capriole.

Gioca la fata e i bimbi dietro

Non hanno altro da fare

La piazza è tutta un colore

Neppure un muro resta tetro.

Anche la fata danza in fragile

Equilibrio sulla punta di ogni bolla

Quasi scivola benché agile

E di nuovo trionfa sulla sua ampolla

Di aria soffiata come vetro.


Jean-Baptiste Siméon Chardin, Bolle di sapone. Olio su tela. 1734

18/3/20

Le stagioni

Corriamo? Dai, dammi la mano, disse il papà al bambino e corsero sul prato. Era primavera, glielo aveva detto la mamma la mattina, una bellissima domenica mattina. Lui aveva già sette anni, non poco, e il nonno gli stava insegnando a leggere le ore sull’orologio. Ma era stata la mamma a dirgli che era primavera. C’erano le stagioni, ecco cosa. E lui non lo sapeva. Sentiva solo che veniva freddo e poi il freddo si scioglieva piano in aria mite fino a quando il caldo era una nuvola spessa nella quale camminavi, e poi cadevano le foglie e c’era un vento forte e nel giardinetto davanti a casa si formavano mucchi di foglie rosse e oro. Gli piaceva raccoglierle, ma in pochi giorni, al massimo qualche settimana, ingrigivano e diventavano tutte di uno scialbo colore ocra. Poi veniva il freddo vero ed era Natale e a volte, ma solo a volte, nevicava e tutto era bianco. Quella sera al ritorno dal parco il nonno gli spiegò che il ventuno di certi mesi la stagione cambiava.
Ma è proprio quel giorno?
Solstizio d’inverno si chiama e d’estate.
So-stizio.
So-l-stizio, ripetè il nonno. E poi c’è l’equinozio che vuol dire che la notte è uguale al giorno e questo accade in autunno e in primavera, le due stagioni di passaggio.
Di passaggio?
Si dice così, l’inverno è la grande stagione fredda e devi immaginarla come una muraglia possente e gelata e l’estate è uno spazio sconfinato e caldo, come il deserto, ecco. E tra una e l’altra ci sono la primavera che conduce all’estate come un ponticello e l’autunno che conduce all’inverno.
Lui andò a dormire pensando a quei ponti che oscillavano nel vento, così se li immaginava, come certi leggeri ponti di legno che aveva visto in montagna. Ma non capiva come era possibile che in quel giorno preciso, il ventuno aveva detto il nonno, si potesse passare alla primavera o all’estate. Come se suonassero una campana, bang! ora è primavera, bang! ora è estate. Accadeva così? E chi suonava la campana? Chi decideva che stagione era? E se si fosse confuso? Ma il nonno diceva che non ci si confonde mai, che a volte si hanno delle primavere freddine o degli autunni miti, ma sempre primavera e autunno sono. Questo al bambino piacque molto, sapere che a un dato giorno ogni anno sarebbe arrivata una stagione nuova e con essa tutte le cose che si portava dietro, le vacanze, o il Natale, o il suo compleanno o le passeggiate nei boschi. Che sogni fece quella notte non sappiamo. Forse sognò di camminare su fragili ponti di legno o di sbattere contro iceberg di ghiaccio o di essere trasportato dentro una grande mongolfiera, sopra gli oceani e le catene montuose, però quel giorno sarebbe rimasto nella sua memoria come un giorno particolare.

19/3/20

Gustav Klimt o dell’eros e della vita. L’amore, la nascita, la vita in un trionfo di colori e sensualità. Quadri simbolici, che risentono della temperie psicanalitica che si respirava a Vienna. L’oro bizantino invade la tela con la sua luce e la sua ricchezza. I colori rimandano ai mosaici di Ravenna, che influenzarono parecchio le sue opere. Bisogno di luce, di evasione e di esotismo, di sogno, in un momento in cui la Belle Époque da lì a poco sarebbe precipitata nel baratro della guerra. Arrivano a noi come una grande testimonianza di desiderio di vita.


Gustav Klimt. La speranza II. Olio e dorato dipinto su tela. 1907-1908

20/3/20

Sulla panchina

Se ti bacio non ti ritrarre,

i capelli ravviati, il vento

riottoso, parlami un po’.

Siedi e dimmi.

No, anzi non dirmi niente,

lo vedi cosa fa il tempo?

E di noi ti ricordi?

Di come eravamo?

Ma non dire niente,

resta seduto senza reclami

senza annunci definitivi.

Forse questo è un momento

per sempre.

22/3/20

In attesa della resurrezione

Gesù era morto e dopo averlo deposto dalla croce e avvolto in un lenzuolo era stato messo nel sepolcro. La Madonna e i discepoli sapevano che sarebbe risorto e attendevano. Forse qualcuno nell’attesa aveva perso la speranza, era incredulo. La morte in croce sembrava essere la chiusura definitiva di tutta quella storia, quel tripudio di speranza, di gioia, di fede e miracoli. Anche Maria, forse, nel suo intimo ebbe timore che non si realizzasse quanto il figlio le aveva annunciato. Come si fa a credere al ritorno alla vita quando tutto intorno parla solo di morte? Due giorni e due notti sono un tempo molto lungo per chi aspetta. Per Maria è stato il tempo dell’attesa, della preghiera, del lutto, della fede che sempre si deve confrontare con la sfiducia, la rassegnazione, l’incredulità. In questi giorni i numeri ci annebbiano la vista, ci bombardano la testa, numeri che contano i deceduti, i nuovi contagiati, i malati, i portatori sani di virus, che poi sono quelli che non si possono contare ed ecco che la maglia fitta della scienza comincia a cedere. E il panico dilaga. Allora non possiamo che affidarci alla forza che è in noi e attendere. Ma l’attesa, come sanno bene i taoisti, non è vana speranza, in essa si radica la forza del superamento, la fede nell’uomo, nella solidarietà, nella possibilità di vincere. La fede è saper vedere ciò che ancora non si vede e lavorare perché si realizzi. Anche nel silenzio delle nostre case, prendendo questo tempo come un momento di lotta collettiva, in cui tutti, pur senza la necessità di dirselo, si sono subito trovati uniti, solidali nel desiderio di superare questa tragedia il più presto possibile, rispettando le leggi e i decreti emanati perché il processo di guarigione dell’intera nazione e di ognuno di noi si avvii al più presto. Ricordando che come Maria pregava col timore che la Resurrezione potesse non avverarsi, in quella lunga notte del dubbio, anche noi siamo chiamati a credere nella vita, sgretolando la cattiveria della facile incredulità.


Pittore russo (Novgorod?). Cristo in Gloria. fine XV sec.

23/3/20

Dato il periodo di reclusione in casa per tutti, inizio una rubrica intitolata “Lo spazio chiuso” dove parlerò di case famose.

La casa di Luigi Pirandello

La casa di Pirandello sorge isolata in fondo a un piazzale. Si spinge un cancelletto e si è dentro. Le stanze arredate ancora con qualche mobile, le locandine delle rappresentazioni teatrali delle sue opere, qualche lettera, fogli dei suoi manoscritti nelle bacheche. Al piano superiore le camere da letto. Fuori il silenzio della campagna, un sentiero che avvicina al mare senza condurvi mai veramente. E il mare resta là inaccessibile e pieno di incanti chiama come una sirena. In questa casa Pirandello nacque e visse fino alla sua partenza per Roma. Fu la casa che ebbe sempre nel cuore, la casa della madre alla quale tornò quando questa stava morendo.

Caos si chiama il borgo dove sorge la casa, che vuol dire “cavuso” cioè calzoni, perché è diviso tra due comuni, come i calzoni hanno due gambe: da una parte il comune di Girgenti e dall’altro quello di Porto Empedocle. Pirandello nacque in questa ambiguità.

«Io son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco “Kaos”.» Luigi Pirandello


La casa di Luigi Pirandello a Caos

24/3/20

Domenica scorsa è morto Alberto Arbasino. Vero snob e aristocratico della letteratura. Da ragazza mi arrampicavo sui suoi difficilissimi articoli che dicevano e non dicevano. Io non mollavo, mi piaceva essere portata a zonzo nelle sue lunghe peregrinazioni di pensiero, era come seguire sentieri di montagna che a un tratto si perdevano nel fitto della vegetazione. Ma ecco che a un tratto il bosco si apriva, si era fuori alla luce del sole, tutto si illuminava, l’oscurità del pensiero era scomparsa e lui, Arbasino, era un genio. In un’intervista aveva raccontato che quando era ragazzo, in famiglia, la sera si leggeva. Aveva così letto tutti i classici. Oggi, quando spesso manca il tempo per seguire i molti vagabondaggi letterari che ci adescano, penso a quella famiglia che riusciva a riunirsi e a stare in silenzio un tempo sufficiente per leggere, un libro dopo l’altro, Zola, Dostoevskij, Maupassant e tutti gli altri che vengono e non vengono in mente. Mi domando anche se tanta frequentazione con la letteratura, nel vero senso della parola, non renda per forza un po’ diversi, se poi questa diversità non sia un malanno portato a fatica e con sofferenza. Certo Arbasino non appariva neppure come un uomo comune, si stagliava al di sopra degli altri e non solo per la sua bravura, per l’artificio elegante della sua prosa ma, si intuiva, per una natura sua intima, nascosta, che era infine la cosa più naturale che avesse.

(continua)

Appendice

Michael Opoku Agyemang
Infection Prevention a nd Control Advice for Community Pharmacy Settings in the Times of the Dreadful Coronavirus Disease-19 (COVID-19)

by C:\Users\MICHAEL OPOKU\Desktop\Screenshot_20200326-224836.png

Michael Opoku Agyemang

GHCPharm, M.Sc., BPharm

Ghana Health Service & CEO (Grade A Care Pharmacy Limited)

Member of AFREhealth, GAW, CPPA, GHOSPA, PSGH

(Email address: nyoam@yahoo.co.uk; Tel: 0243 843 663)

Coronaviruses (CoV) are a large family of viruses that cause illness ranging from the common cold to more severe diseases such as Middle East Respiratory Syndrome (MERS-CoV), and Severe Acute Respiratory Syndrome (SARS-CoV). Coronavirus disease-19 (COVID-19) is a disease caused by a new strain of coronavirus. ‘CO’ stands for corona, ‘VI’ for virus, ‘D’ for disease and ‘19’ for the year 2019. Formerly, this disease was referred to as ‘2019 novel coronavirus’ or ‘2019-nCoV.’ The COVID-19 virus is a new virus linked to the same family of viruses as Severe Acute Respiratory Syndrome (SARS) and some types of common cold.

The outbreak of COVID- 19 has been declared a Public Health Emergency of International Concern (PHEIC) and the virus has now spread to many countries and territories. While a lot is still unknown about the virus that causes COVID-19, we do know that it is transmitted through direct contact with respiratory droplets of an infected person (generated through coughing and sneezing). Individuals can also be infected from touching surfaces contaminated with the virus and touching their face (e.g., eyes, nose, mouth).

A Community Pharmacy is a pharmacy that deals directly with people in the local area. It has responsibilities including treatment/management of minor ailments, compounding, counseling, checking, and dispensing of prescription medicines to the patients with care, accuracy and legality. While COVID- 19 continues to spread it is important that Community Pharmacies/Pharmacists take action to prevent further transmission, reduce the impacts of the outbreak and support control measures. Also, as we are still learning more about how it affects people every day, it signs and symptoms as well as it prevention, control and treatment; Community Pharmacies’ Public Health and Clinical Pharmacists may recommend additional actions and treatment.

The protection of clients and Community Pharmacy facilities is particularly important. Precautions are necessary to prevent the potential spread of COVID-19 in Community Pharmacy settings; however, care must also be taken to avoid stigmatizing clients and staff who may have been exposed to the virus. It is important to remember that COVID-19 does not differentiate between borders, ethnicities, disability status, age or gender. Community Pharmacy settings should continue to be welcoming, respectful, inclusive, and supportive environments to all. Measures taken by Community Pharmacies can prevent the entry and spread of COVID-19 by clients and staff who may have been exposed to the virus, while minimizing disruption and protecting clients and staff from discrimination.

Community Pharmacies are the first point of call to patients and powerful agents of change in terms of infection disease prevention and control. Any crisis presents the opportunity to help them learn, cultivate compassion and increase resilience while building a safer and more caring community. Having information and facts about COVID- 19 will help diminish community pharmacists’ and clients’ fears and anxieties around the disease and support their ability to cope with any secondary impacts in their lives. This guidance provides key messages and considerations for engaging community pharmacies, as well as clients themselves in promoting safe and healthy communities.

Knowing where we are?

A novel coronavirus is a new strain that has not been previously identified in humans. Although the incubation period of this strain is currently unknown the United States Centre for Disease Control indicates that symptoms may appear in a few as 2 days or as long as 14 days after exposure. Coronaviruses that are infectious to humans are zoonotic, meaning they are transmitted between animals and people. Detailed investigations found that SARS-CoV was transmitted from civet cats to humans and MERS-CoV from dromedary camels to humans, likely through bat reservoirs.

Symptoms of COVID-19 can include fever, cough and shortness of breath. In more severe cases, infection can cause pneumonia or breathing difficulties. More rarely, the disease can be fatal. These symptoms are similar to the flu (influenza) or the common cold, which are a lot more common than COVID-19. This is why testing is required to confirm if someone has COVID-19. Older people, and people with chronic medical conditions, such as diabetes and heart disease, appear to be more at risk of developing severe symptoms.  The virus can be fatal in rare cases, so far mainly among older people with pre-existing medical conditions.

The virus is transmitted through direct contact with respiratory droplets of an infected person (generated through coughing and sneezing). Individuals can also be infected from and touching surfaces contaminated with the virus and touching their face (e.g., eyes, nose, mouth). Recommendations to prevent infection spread include performing hand hygiene (either use of alcohol-based hand rub or hand washing with soap and water), respiratory hygiene and cough etiquette (e.g., covering mouth and nose when coughing and sneezing, using tissues to contain respiratory secretions). The COVID-19 virus may survive on surfaces for several hours, but simple disinfectants can kill it.

There is no currently available vaccine for COVID-19. However, many of the symptoms can be treated and getting early care from a healthcare provider can make the disease less dangerous. There are several clinical trials that are being conducted to evaluate potential therapeutics for COVID-19.

Community Pharmacies’ role

There are several things that Community Pharmacies can do to prevent themselves, their staff, and patients from becoming sick with this virus. Identification, diagnosis and prevention of the infection transmission is main role of the Community Pharmacies in the COVID-19 pandemic. Community Pharmacies should undertake active screening over the phone (asking questions about symptoms and travel/exposures) and passive screening (signage) of patients for COVID-19. Post signage on entrance to pharmacy area informing persons to self-identify if they are experiencing fever and/or cough or difficulty breathing and have a travel history to affected location in the last 14 days or have had contact with a person who has the above travel history and illness symptoms (i.e. confirmed or suspected COVID-19 case). Such as living in the same household or being within 2 metres of the case for longer than 15 minutes with confirmed or suspected cases of COVID-19. Similar messaging should be communicated on telephone messages and websites. Have procedure/surgical masks, tissues, waste container and alcohol-based hand sanitizer available to patients and staff in pharmacies. Review infection prevention and control/occupational health and safety policies and procedures with staff. For example, staff should not come to work when they are sick. Community pharmacies have a shared responsibility for informing and educating the public on COVID-19, including promoting infection control and preventative measures with consideration of social support system.

Screening

Community pharmacies play an important role in supporting the response to suspected cases of COVID-19. Community pharmacies are being requested to conduct passive screening and active phone screening of all patients. All patients should be screened over the phone before arriving at the pharmacy whenever possible. A voice recording communicating screening criteria should be implemented.

Passive screening

Signage should be posted at the point of entry to the pharmacy and at reception areas for patients with symptoms and a relevant exposure history to self-identify. Perform hand hygiene, wear a procedure/surgical mask, and have access to tissues and a waste receptacle.

Active phone screening

Is the patient presenting with fever, and/or new onset of cough or difficulty breathing, and any of the following:

  • Travel to affected location in the 14 days before the onset of illness OR
  • Close contact with a confirmed or probable case of COVID-19 OR
  • Close contact with a person with acute respiratory illness who has been to affected location in the 14 days before their symptom onset.

What to do if a patient screens positive by phone?

If a patient screens positive over the phone the patient should be advised to get someone from outside of their household to pick up their medications; or the pharmacy should arrange for the delivery of medications, if this service is available. The medication should be delivered to the patient by either of the means above without direct contact with the patient (e.g. placed in mailbox). A patient who screens positive over the phone should be advised to call telehealth or their local public health unit. The pharmacist should also report to the local public health unit.

What to do if a patient self-identifies at the Pharmacy?

A patient who presents at a community pharmacy and self-identifies as meeting the screening criteria on signage should be separated from other persons and staff so that they are at least 2 meters apart (use a separate room where available) and given a surgical/procedure mask. Pharmacy staff should avoid physical contact with a patient who screens positive. The local public health unit should be contacted to plan for patient travel and further COVID-19 assessment. Patient-contact surfaces (i.e., surfaces within 2 meters of the patient who has screened positive) should be disinfected as soon as possible.

What to do if a patient has travel history to affected location within the last 14 days but is asymptomatic?

Any asymptomatic patient with a travel history to affected location/area in the past 14 days should be advised to stay home/self-isolate and contact their local public health unit for further direction on activity restrictions. If an asymptomatic patient has a travel history to another affected area in the past 14 days (e.g., mainland China, outside Hubei) and they have concerns about possible exposures to COVID-19 cases in affected areas in the past 14 days, they should call their local public health unit. Within Pharmacy settings, the WHO recommends the use of Routine Practices and Additional Precautions (contact, droplet) for a patient who self identifies as screening positive. These precautions include: use of gloves, gowns, procedure/surgical mask and eye protection, hand hygiene.

Testing &Reporting

At this time, pharmacies are not licensed to conduct testing for COVID-19. All testing for COVID-19 will take place in hospitals or arranged in consultation with the local public health unit. COVID-19 is a designated disease of public health significance and thus reportable under the Health Protection and Promotion Act. Pharmacy professionals should notify their local public health unit that a patient has screened positive. Pharmacies should have written measures and procedures for worker safety, including measures and procedures for infection prevention and control.

Educational facts

Community pharmacies have a shared responsibility for informing and educating the public on COVID-19, including promoting infection control and preventive measures. The basic educational fact includes the following. Proper education structures and programmes must be in place; specificity and clarity of information are required to devise educational strategy.

The presence of pathogen does not mean that an infection will begin. In order for infectious disease to spread, several necessary steps must occur. These steps are known as a “chain of infection”. The infection will develop only if the chain remains intact. These links are:

  • Infectious Agent: novel coronavirus (COVID-19). Thus, virus is the microorganism cause the infection/disease;
  • Reservoir: People, water, food, air. Thus, novel coronavirus (COVID-19) can thrive and reproduce at these places;
  • Portals of Exit: Blood, secretion, excretion, skin. Thus, these provide way for novel coronavirus (COVID-19) to leave the reservoir;
  • Mode of Transmission: novel coronavirus (COVID-19) leaves the reservoir through physical contact, droplets, airborne; and
  • Portal of Entry: novel coronavirus (COVID-19) enters the susceptible host include mucous membrane, respiratory system, digestive system and broken skin.

As with other respiratory infections like the flu or the common cold, public health measures are critical to slow the spread of illnesses. Public health measures are everyday preventive actions that include: staying home when sick; covering mouth and nose with flexed elbow or tissue when coughing or sneezing. Dispose of used tissue immediately; washing hands often with soap and water; and cleaning frequently touched surfaces and objects.

  • Regular and thoroughly hand cleaning with an approved alcohol-based hand rub (such as WHO-recommended hand rub formulations) or wash them with soap and water to kill viruses that may be on the hands.
  • With regard to skin reaction, hand rubbing with alcohol-based products is better tolerated than handwashing with soap and water. To prevent evaporation, alcohol-based hand rub products container should have a maximum capacity of 500ml (on ward use) and 1L (in operating theatre use) and possibly fit into a wall-dispenser.
  • Leakage free pocket bottles with a capacity of no more than 100ml should be available for individual healthcare workers use.
  • Hand sanitizers with dispenser are recommended. In order to assure safety, effectiveness and quality of alcohol-based hand rub products client should be advised to buy from Pharmacy shops only.
  • Most of unauthorized manufacturer handrub /sanitizers have been already contaminated with spore-forming organisms and are harmful to your clients.
  • NOT EVERY HAND SANITIZER IS GOOD FOR YOUR CLIENT!!!
  • Pharmacist should check the concentration of the active ingredient and other ingredient to confirm whether they are beneficial to their clients. The Clients should be advised to maintain social distancing (at least 2 metre (6ft) between themselves and anyone who is coughing or sneezing) to avoid spraying small droplets from nose or mouth which may contain virus.
  • The Clients should be advised to avoid touching eyes, nose and mouth. Hand touch may surface and can pick up viruses and can be transferred to the eye, nose or mouth.
  • The Clients should be advised to practice respiratory hygiene. This means they should cover their mouth and nose with their elbow or tissue when they cough or sneeze. Then dispose of the used tissue immediately. Droplets spread viruses, by following good hygiene, they protect the people around them from viruses such as cold, flu and COVID-19. Face-mask are for those who are sick with flulike cough and health workers.
  • The Clients should be advised to stay home, if s/he feel unwell (have fever, cough and difficulty in breathing).
  • Seek medical attention and call in the appropriate telephone number for necessary advice and action (such as Ghana COVID-19 Hotline numbers: 0552222004/ 0552222005/ 0509497700/ 0558439868). They have most up-to date information and they are the best placed to advice.

The purpose of this advice is to provide clear and actionable guidance for safe operations through the prevention, early detection and control of COVID-19 in Community Pharmacy settings. The guidance, while specific to countries that have already confirmed the transmission of COVID- 19, is still relevant in all other contexts. Education can encourage Community Pharmacies/Pharmacists to become advocates for disease prevention in their community by talking to others about how to prevent the spread of viruses.

Maintaining safe Community Pharmacy operations in the times of Novel Coronavirus (COVID-19) requires many considerations but, if done well, can promote public health. Thus, there are several things that pharmacies can do to prevent themselves, their staff, and patients from becoming sick with this virus. Pharmacists, client/patients (especially those with an underlying respiratory conditions) are likely to be concerned and have questions about the novel Coronavirus (COVID-19) Infection Prevention & Control Advice from our Community Pharmacy Settings so be well prepared to help them.

Traduzione in italiano

Michael Opoku Agyemang

Prevenzione delle infezioni e consigli di controllo per le impostazioni della farmacia comunitaria nei tempi della terribile malattia del coronavirus 19 (COVID-19)

I coronavirus (CoV) sono una grande famiglia di virus che causano malattie che vanno dal comune raffreddore a malattie più gravi come la Sindrome Respiratoria del Medio Oriente (MERS-CoV) e la Sindrome Respiratoria Acuta Grave (SARS-CoV). La malattia del coronavirus19 (COVID-19) è una malattia causata da un nuovo ceppo di coronavirus. CO’ sta per corona, ‘VI’ per virus, ‘D’ per malattia e ’19’ per l’anno 2019. In precedenza, questa malattia veniva chiamata “2019 novel coronavirus” o “2019-nCoV”. Il virus COVID-19 è un nuovo virus legato alla stessa famiglia di virus della Sindrome Respiratoria Acuta Grave (SARS) e di alcuni tipi di raffreddore comune.

L’epidemia di COVID-19 è stata dichiarata un’emergenza di salute pubblica di interesse internazionale (PHEIC) e il virus si è ora diffuso in molti paesi e territori. Sebbene non si sappia ancora molto sul virus che causa la COVID-19, sappiamo che si trasmette attraverso il contatto diretto con le goccioline respiratorie di una persona infetta (generate dalla tosse e dagli starnuti). Le persone possono essere infettate anche dal contatto con superfici contaminate dal virus e dal contatto con il viso (ad es. occhi, naso, bocca).

Una Farmacia Comunitaria è una farmacia che si occupa direttamente delle persone della zona. Ha responsabilità che includono la cura/gestione di disturbi minori, la composizione, la consulenza, il controllo e l’erogazione di farmaci su prescrizione ai pazienti con cura, precisione e legalità. Mentre COVID-19 continua a diffondersi, è importante che le farmacie e i farmacisti della comunità si attivino per prevenire ulteriori trasmissioni, ridurre l’impatto dell’epidemia e sostenere le misure di controllo. Inoltre, poiché stiamo ancora imparando a conoscere meglio il suo effetto sulle persone ogni giorno, i suoi segni e sintomi, così come la prevenzione, il controllo e il trattamento, le Farmacie Comunitarie e i Farmacisti Clinici possono raccomandare ulteriori azioni e trattamenti.
La protezione dei clienti e delle strutture della Farmacia Comunitaria è particolarmente importante. Sono necessarie precauzioni per prevenire la potenziale diffusione di COVID-19 nei settings delle Farmacie Comunitarie; tuttavia, bisogna anche fare attenzione ad evitare di stigmatizzare i clienti e il personale che potrebbero essere stati esposti al virus. È importante ricordare che COVID-19 non distingue tra confini, etnia, stato di disabilità, età o sesso. Gli ambienti della farmacia comunitaria dovrebbero continuare ad essere ambienti accoglienti, rispettosi, inclusivi e di sostegno per tutti. Le misure adottate dalle farmacie comunitarie possono prevenire l’ingresso e la diffusione di COVID-19 da parte dei clienti e del personale che potrebbero essere stati esposti al virus, riducendo al minimo i disagi e proteggendo clienti e personale da discriminazioni.

Le farmacie comunitarie sono il primo punto di richiamo per i pazienti e potenti agenti di cambiamento in termini di prevenzione e controllo delle malattie infettive. Ogni crisi offre l’opportunità di aiutarli a imparare, coltivare la compassione e aumentare la resistenza, costruendo al contempo una comunità più sicura e più attenta. Avere informazioni e fatti su COVID-19 contribuirà a diminuire le paure e le ansie dei farmacisti della comunità e dei clienti nei confronti della malattia e a sostenere la loro capacità di affrontare qualsiasi impatto secondario nella loro vita. Questa guida fornisce messaggi e considerazioni chiave per coinvolgere le farmacie della comunità e i clienti stessi nella promozione di comunità sicure e sane.

Sapere dove siamo?

Un nuovo coronavirus è un nuovo ceppo che non è stato precedentemente identificato negli esseri umani. Anche se il periodo di incubazione di questo ceppo è attualmente sconosciuto, il Centro per il controllo della malattia degli Stati Uniti indica che i sintomi possono comparire in pochi giorni o fino a 14 giorni dopo l’esposizione. I coronavirus che sono infettivi per l’uomo sono zoonotici, il che significa che sono trans-mitted tra animali e persone. Da indagini dettagliate è emerso che la SARS-CoV è stata trasmessa dai gatti zibetti agli uomini-uomini e la MERS-CoV dai cammelli dromedari all’uomo, probabilmente attraverso le riserve di pipistrelli.

I sintomi della COVID-19 possono includere febbre, tosse e respiro corto. Nei casi più gravi, l’infezione può causare polmonite o difficoltà respiratorie. Più raramente, la malattia può essere fatale. Questi sintomi sono simili all’influenza (influenza) o al comune raffreddore, che sono molto più comuni della COVID-19. Questo è il motivo per cui i test sono necessari per confermare se qualcuno ha la COVID-19. Le persone anziane e le persone con condizioni mediche croniche, come il diabete e le malattie cardiache, sembrano essere più a rischio di sviluppare sintomi gravi.  Il virus può essere fatale in rari casi, finora soprattutto tra le persone anziane con condizioni mediche preesistenti.

Il virus si trasmette attraverso il contatto diretto con le goccioline respiratorie di una persona infetta (generate dalla tosse e dagli starnuti). Le persone possono essere infettate anche da e toccando superfici contaminate dal virus e toccando il loro viso (ad es. occhi, naso, bocca). Le raccomandazioni per prevenire la diffusione dell’infezione comprendono l’igiene delle mani (uso di strofinare le mani con alcol o lavarle con acqua e sapone), l’igiene respiratoria e il galateo per la tosse (ad esempio, coprire la bocca e il naso quando si tossisce e si starnutisce, usare i tessuti per contenere le secrezioni respiratorie). Il virus COVID-19 può sopravvivere sulle superfici per diverse ore, ma semplici disinfettanti possono ucciderlo.
Attualmente non è disponibile alcun vaccino per il COVID-19. In ogni caso, molti dei sintomi possono essere curati e ricevere cure tempestive da un operatore sanitario può rendere la malattia meno dan-gerous. Ci sono diversi studi clinici che sono stati condotti per valutare le potenziali terapie per COVID-19.

RUOLO DELLE FARMACIE COMUNITARIE

Ci sono diverse cose che le farmacie comunitarie possono fare per impedire a se stesse, al loro personale e ai pazienti di ammalarsi di questo virus. L’identificazione, la diagnosi e la prevenzione della trasmissione dell’infezione è il ruolo principale delle Farmacie Comunitarie nella pandemia COVID-19. Le farmacie comunitarie dovrebbero effettuare uno screening attivo per telefono (ponendo domande sui sintomi e sui viaggi/esposizioni) e uno screening passivo (segnaletica) dei pazienti per la COVID-19. Affiggere una segnaletica all’ingresso dell’area della farmacia per informare le persone che devono auto-identificarsi in caso di febbre e/o tosse o difficoltà respiratorie e che hanno avuto un’anamnesi di viaggio verso la località colpita negli ultimi 14 giorni o che hanno avuto contatti con una persona che ha i suddetti sintomi di viaggio e di malattia (cioè un caso confermato o sospetto di COVID-19). Come il fatto di vivere nella stessa casa o di stare entro 2 metri dal caso per più di 15 minuti con casi confermati o sospetti di COVID-19. Messaggi simili dovrebbero essere comunicati su messaggi telefonici e siti web. Mettete a disposizione dei pazienti e del personale delle farmacie maschere chirurgiche, tessuti, contenitori di rifiuti e disinfettanti per le mani a base di alcol. Rivedere con il personale le politiche e le procedure di prevenzione delle infezioni e le politiche e le procedure di salute e sicurezza sul lavoro. Ad esempio, il personale non dovrebbe venire al lavoro quando è malato. Le farmacie della comunità hanno la responsabilità condivisa di informare ed educare il pubblico su COVID-19, compresa la promozione del controllo delle infezioni e delle misure preventive, tenendo conto del sistema di sostegno sociale.

SCREENING

Le farmacie comunitarie svolgono un ruolo importante nel sostenere la risposta ai casi sospetti di COVID-19. Alle farmacie della comunità viene richiesto di condurre uno screening passivo e uno screening telefonico attivo di tutti i pazienti. Tutti i pazienti devono essere sottoposti a screening telefonico prima di arrivare in farmacia, quando possibile. Dovrebbe essere implementata una registrazione vocale che comunichi i criteri di screening.

Screening passivo

La segnaletica deve essere affissa nel punto di ingresso della farmacia e nelle aree di accoglienza per i pazienti con sintomi e un’anamnesi di esposizione al rilascio per l’autoidentificazione. Eseguire l’igiene delle mani, indossare una procedura/maschera chirurgica e avere accesso ai tessuti e a un contenitore per i rifiuti.

Screening telefonico attivo

Il paziente presenta febbre e/o un nuovo inizio di tosse o difficoltà respiratorie e una delle seguenti situazioni:
Viaggio nel luogo colpito nei 14 giorni precedenti l’insorgenza della malattia OPPURE
Stretto contatto con un caso confermato o probabile di COVID-19 OR
Stretto contatto con una persona affetta da patologie respiratorie acute che si è recata sul posto nei 14 giorni precedenti l’insorgenza del sintomo.

Cosa fare se un paziente risulta positivo per telefono?

Se un paziente risulta positivo per telefono, si dovrebbe consigliare al paziente di far ritirare i farmaci a qualcuno al di fuori della sua famiglia; oppure la farmacia dovrebbe organizzare la consegna dei farmaci, se questo servizio è disponibile. I farmaci dovrebbero essere consegnati al paziente con uno dei mezzi sopra indicati senza contatto diretto con il paziente (ad esempio, messi in una cassetta postale). Un paziente che risulta positivo al telefono dovrebbe essere consigliato di chiamare la teleassistenza sanitaria o l’unità sanitaria pubblica locale. Il farmacista dovrebbe anche riferire all’unità sanitaria locale di pub-licenza.

Cosa fare se un paziente si identifica da solo in farmacia?

Un paziente che si presenta in una farmacia della comunità e si identifica come conforme ai criteri di screening sulla segnaletica deve essere separato dalle altre persone e dal personale in modo che siano distanti almeno 2 metri l’uno dall’altro (utilizzare una stanza separata, se disponibile) e deve essere dotato di una maschera chirurgica/procedurale. Il personale della farmacia deve evitare il contatto fisico con il paziente che risulta positivo. L’unità sanitaria pubblica locale deve essere contattata per pianificare il viaggio del paziente e l’ulteriore valutazione COVID-19. Le superfici a contatto con il paziente (cioè le superfici nel raggio di 2 metri dal paziente che è risultato positivo) devono essere disinfettate il prima possibile.

Cosa fare se un paziente ha un’anamnesi di viaggio in una località affetta negli ultimi 14 giorni ma è asintomatico?

A tutti i pazienti asintomatici con un’anamnesi di viaggio verso la località/area interessata negli ultimi 14 giorni si consiglia di rimanere a casa e di contattare l’unità sanitaria pubblica locale per ulteriori informazioni sulle restrizioni di attività. Se un paziente asintomatico ha un’anamnesi di viaggio in un’altra area colpita negli ultimi 14 giorni (ad esempio, Cina continentale, al di fuori di Hubei) ed è in possesso di informazioni su possibili esposizioni a casi di COVID-19 in aree colpite negli ultimi 14 giorni, deve chiamare la propria unità sanitaria pubblica locale. In farmacia, l’OMS raccomanda l’uso di pratiche di routine e di precauzioni aggiuntive (contatto, gocciolina) per un paziente che si identifica come positivo allo screening. Queste precauzioni includono: uso di guanti, camici, maschera chirurgica e protezione degli occhi, igiene delle mani.

Test &Rapporto

Al momento, le farmacie non sono autorizzate a condurre test per COVID-19. Tutti i test per COVID-19 si svolgeranno in tubi flessibili o in accordo con l’unità sanitaria pubblica locale. COVID-19 è una malattia designata di rilevanza per la salute pubblica e quindi riferibile ai sensi della legge sulla protezione e la promozione della salute. I professionisti delle farmacie devono notificare alla loro unità sanitaria pubblica locale che un paziente è risultato positivo. Le farmacie dovrebbero avere misure e procedure scritte per la sicurezza dei lavoratori, incluse misure e procedure per la prevenzione e il controllo delle infezioni.

Esempi educativi

Le farmacie comunitarie hanno una responsabilità condivisa per la formazione e l’educazione del pubblico su COVID-19, compresa la promozione del controllo delle infezioni e delle misure preventive. Il fatto educativo di base comprende quanto segue. Devono esistere strutture e programmi educativi adeguati; la specificità e la chiarezza delle informazioni sono necessarie per elaborare una strategia educativa.

La presenza di un agente patogeno non significa che l’infezione inizierà. Affinché la malattia infettiva si diffonda, devono verificarsi diversi passaggi necessari. Questi passaggi sono noti come “catena di in-fezione”. L’infezione si sviluppa solo se la catena rimane intatta. Questi anelli sono:

Agente infettivo: nuovo coronavirus (COVID-19). Quindi, il virus è il microrganismo che causa l’infezione/malattia;

Serbatoio: Persone, acqua, cibo, aria. Così, romanzo corona-virus (COVID-19) può prosperare e riprodursi in questi luoghi;

Portali di uscita: Sangue, secrezione, escrezione, pelle. Così, questi forniscono il modo per il nuovo coronavirus (COVID-19) di lasciare il serbatoio;

Modalità di trasmissione: il nuovo coronavirus (COVID-19) lascia il serbatoio attraverso il contatto fisico, le goccioline, l’aria;

Portale di entrata: il nuovo coronavirus (COVID-19) entra nell’ospite suscettibile attraverso la mucosa, il sistema respiratorio, l’apparato digerente e la pelle rotta.

Come per altre infezioni respiratorie, come l’influenza o il comune raffreddore, le misure di salute pubblica sono fondamentali per rallentare la diffusione delle malattie. Le misure di salute pubblica sono azioni preventive quotidiane che includono: rimanere a casa quando si è malati; coprire la bocca e il naso con il gomito o il tessuto flessuoso quando si tossisce o si starnutisce. Smaltire immediatamente i tessuti usati, lavarsi le mani spesso con acqua e sapone e pulire le superfici e gli oggetti toccati frequentemente.

Pulire regolarmente e a fondo le mani con uno sfregamento a base di alcool (come le formulazioni raccomandate dall’OMS per lo sfregamento delle mani) o lavarle con acqua e sapone per uccidere i virus che possono trovarsi sulle mani.

Per quanto riguarda la reazione della pelle, lo sfregamento delle mani con prodotti a base di alcol è meglio tollerato rispetto al lavaggio a mano con acqua e sapone. Per evitare l’evaporazione, il contenitore dei prodotti a base di alcol per lo sfregamento delle mani dovrebbe avere una capacità massima di 500 ml (per uso di reparto) e di 1 litro (per uso teatrale) ed eventualmente essere inserito in un distributore a muro.
Bottiglie tascabili senza perdite con una capacità non superiore a 100ml dovrebbero essere disponibili per l’uso individuale da parte degli operatori sanitari.

Si raccomanda l’uso di disinfettanti per le mani con dispenser. In or-der per garantire la sicurezza, l’efficacia e la qualità dei prodotti per la pulizia delle mani a base di alcool, il cliente dovrebbe essere consigliato di acquistare solo nei negozi di farmacia.

La maggior parte dei prodotti disinfettanti per le mani non autorizzati sono già stati contaminati da spore o organismi e sono dannosi per le persone.

NON TUTTI I DISINFETTANTI PER LE MANI FANNO BENE AL VOSTRO CLIENTE!

Il farmacista dovrebbe controllare la concentrazione del principio attivo e di altri ingredienti per confermare se sono benefici per i propri clienti. I clienti dovrebbero essere informati di mantenere una distanza sociale (almeno 2 metri tra loro e chi tossisce o starnutisce) per evitare di spruzzare piccole goccioline dal naso o dalla bocca che possono contenere virus.

Si consiglia ai clienti di evitare di toccare gli occhi, il naso e la bocca. Il tocco della mano può venire a galla e può raccogliere virus e può essere trasferito all’occhio, al naso o alla bocca.

Si consiglia ai clienti di praticare l’igiene respiratoria. Ciò significa che devono coprirsi la bocca e il naso con il gomito o i tessuti quando tossiscono o starnutiscono. Quindi smaltire immediatamente il tessuto usato. Le goccioline diffondono i virus, seguendo una buona igiene, proteggono le persone che le circondano da virus come il raffreddore, l’influenza e COVID-19. Le maschere facciali sono per chi ha la tosse influenzale e per gli operatori sanitari.

Si consiglia ai clienti di rimanere a casa, se non si sentono bene (hanno febbre, tosse e difficoltà respiratorie).

Richiedere l’intervento di un medico e chiamare il numero di telefono appropriato per i consigli e le azioni necessarie (come ad esempio i numeri del COVID-19 del Ghana: 0552222004/ 0552222005/ 0509497700/ 0558439868). Essi dispongono delle informazioni più aggiornate e sono i più indicati per la consulenza.

Lo scopo di questa consulenza è quello di fornire una guida chiara e attiva per operazioni sicure attraverso la prevenzione, la disattivazione precoce e il controllo del COVID-19 nei set-tings delle Farmacie Comunitarie. La guida, pur essendo specifica per i paesi che hanno già confermato la trasmissione del COVID-19, è ancora disponibile in tutti gli altri contesti. L’educazione può incoraggiare le Farmacie Comunitarie/Farmacisti a diventare sostenitori della prevenzione delle malattie nella loro comunità, parlando con gli altri su come prevenire la diffusione dei virus.

Mantenere le operazioni sicure delle Farmacie Comunitarie ai tempi di Novel Coronavirus (COVID-19) richiede molte considerazioni ma, se fatto bene, può promuovere la salute pubblica. Pertanto, ci sono diverse cose che le farmacie possono fare per evitare che loro stesse, il loro personale e i pazienti si ammalino di questo virus. I farmacisti, i clienti/pazienti (specialmente quelli con una condizione respiratoria sottostante) saranno probabilmente preoccupati e avranno domande sul nuovo Coronavirus (COVID-19) Prevenzione delle infezioni e consigli di controllo da parte delle nostre Impostazioni della Farmacia Comunitaria, quindi siate ben preparati ad aiutarli.

 

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