Diario in coronavirus

Diario in coronavirus con grani di scrittura – 2°

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Diario in
coronavirus
con grani di scrittura


2°
Domenica di Lettura
22 marzo 2020

Indice

Proponente FUIS – Natale Antonio Rossi

2° testo proponente FUIS:
Natale Antonio Rossi,
Altro giorno da quaranteno*
La tragedia è opera bella di ieri e di oggi, l’epidemia per virus no

Non sarà che questi qui, pensano di rimediare a un fallimento della politica (per es. di Trump e non solo), dell’economia globale (per es. dell’O.N.U , del F.M.I. e non solo) basata sul mercato, sul petrolio, sull’inquinamento, chiudendoci in casa?
Vuoi scommettere che questa storia di clausura per coronavirus ce la ricordiamo anche dopo morti?
L’anno 2020 è bisestile: porta bene o porta male, il bisestile?
E’ meglio stare in casa.
Se non altro per assistere al fallimento del capitalismo, morto per inquinamento generato dai capitalisti?
Poi c’è l’infrahistoria quotidiana e allora è bene stare in casa per evitare che qualcuno ti chieda: “signore lei dove va?” e devi dare una risposta garbata per la provenienza e precisa per la destinazione. Non puoi dire “cosa le frega?” , o meglio “dove mi pare”, e tantomeno “verso il cimitero, data l’età”.
Penso ai miei amici, molti sono scomparsi per ragioni di cuore, Armando e Gigi, e non per virus. Mio fratello di tumore, mio padre di vecchiaia a 96 anni, mia madre per un ictus, mia sorella di cistifellea, mio nonno non lo so, ero piccolo, neppure di mia nonna so. E’ morta nello stesso anno in cui sono nato, mi hanno detto. Però io l’ho vista molti anni dopo, quando l’hanno traslata: aveva i capelli rossi e così mi sono spiegato perché mi sono sempre piaciute le donne con i capelli rossi.
Alla FUIS (se non sai cosa vuol dire questo acronimo, caro lettore, è colpa tua), avevamo progettato e proposto un concorso (non mi interessa se l’argomento non lega con quello precedente : in questi giorni di girinvirus non c’è niente di coerente) , per riscontrare se le figure femminili delle tragedie greche ancora oggi celebrate (per esempio al teatro greco di Siracusa) hanno un’attualità. Di quali panni è vestita o svestita (ché oggi non è più d’effetto) una Medea d’oggi. L’idea mi pare ancor più bella perché voglio vedere come gli autori d’oggi risolvono gli “stasimi” che fanno qualità di tragedia greca. E Ifigenia: c’è oggi un padre – a parte qualche settario in fede – che sacrifica la figlia per far partire gli aerei da qualche Troia?
A parte il blocco per coronavirus. La figura di maggior attualità è Cassandra, la cui sindrome sembra proprio attuale, non solo perché tradotta in termine correnti si denomina “depressione”, ma soprattutto perché è una sindrome da fine del mondo (adatta a comprendere anche l’attuale emergenza sanitaria).
A dire il vero, l’idea m’era venuta per altre ragioni più semplici, tra cui quella di richiamare l’articolo 9 della Costituzione italiana, che unica al mondo, dichiara. “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. E le tragedie greche fanno parte insieme alla latinità del patrimonio artistico che noi italiani abbiamo sotto pelle, nel sangue, nei pori. Chi potrebbe dire che non è un fatto di linfa linguistica? Non solo, ma appena nati veniamo fasciati dalla nostra cultura. Mi si dirà che la latinità ha fatto da filtro, e che questa non spicca per il senso drammatico delle opere che ci sono arrivate. Preferisco obiettare che la memoria artistica e culturale mia, di italiano-toscano-aretino e comunque quella degli italiani-romani tutti, di qualsiasi regione (soprattutto meridionale) è ampia e senza confini sia in senso storico che sincronico.
Oggi avvinti dall’epidemia del coronavirus, stiamo assistendo ad un avvenimento inaudito: l’epidemia afferisce all’uomo in qualsiasi parte del mondo si trovi. E se lo colpisce lo prende ai polmoni e se lo dovesse colpire in testa gli suggerirebbe che l’uomo è unico. Di qualsiasi pelle si vesta, di qualsiasi tempo o non tempo d’età sia, in qualsiasi luogo o non luogo viva.

* Quaranteno, neologismo sta per uomo in quarantena. Non ha il femminile.

Luciana Vasile
CRISTO VELATO IN TEMPO DI CORONAVIRUS

In questi giorni di agonia per molti quasi mi perseguita l’immagine della scultura il “Cristo Velato” della metà del XVIII sec. di Giuseppe Sanmartino.

A mio avviso una delle opere d’arte più emozionanti e sconvolgenti che abbia mai visto.

Quando visitai la cappella Sansevero di Napoli, dove è conservata, vi rimasi inchiodata davanti per interminabili minuti, immobile, senza parole. Tempo e spazio dilatati di fronte al miracolo della levità della materia (il marmo), lì carica di significato ed essenza.

Quella visione suggestiva e piena di mistero mi aiutò ad abbandonare lo sguardo prigioniero, rivolto alle recriminazioni del passato con insistenti richieste al futuro, che rende l’essere umano incapace di vivere il presente. Ivi mi immersi. Intravidi per un attimo la Verità che ci sfugge. Forse troppo semplice, a portata di mano, non abbiamo occhi per vederla, la Verità. Al suo cospetto folgorante, se abbiamo la fortuna di riconoscerla, ci mancano comunque le parole per spiegarla.

Nella descrizione di Matilde Serao: –… la testa sollevata sui cuscini, piegata a destra. I capelli sono arruffati, quasi madidi del sudore dell’agonia… su quel corpo straziato, una religiosa e delicata pietà, ha gettato un lenzuolo dalle pieghe morbide e trasparenti, che vela senza nascondere, che non cela la piega ma la mostra, che non copre lo spasimo ma lo addolcisce -.

Infatti quello che mi colpì, e che dopo anni è rimasto intatto nel sentire della memoria, fu la liquida trasparenza del sudario: la lieve esausta inspirazione richiamava il velo sottile all’interno della bocca dischiusa. Tanta dolce serenità nell’inesorabile ultimo fiato. Quel leggero alito che torna indietro, dentro, ad accarezzare il cuore con il suo calore. Ad entrare e non uscire mai più, complice del trapasso nell’unità di corpo e anima.

Mi chiedo, anzi mi auguro che tutte le migliaia di morti in debito di ossigeno, che sta mietendo la polmonite da coronavirus, possano assaporare la delicatezza dell’estremo sospiro che tanta arte è riuscita a rendere impalpabile, senza angoscia e sofferenza.

E così nella veglia, come in un sogno surreale, immagino i tanti Uno, del silenzioso esercito di “cristi velati”, incamminarsi insieme, compagni di avventura, verso un dove.

Roma 13 marzo 2020

Plinio Perilli
L’Amore immune

“… Stiamo cambiando la prossèmica”…

Mi fa balzare – evviva – proprio il linguaggio,

lì in TV nel solito blaterìo mass-mediatico

del professore di turno, medico virologo.

I luminari, si sa, vanno cercando l’Uomo,

ma non hanno più la lanterna di Diogene…

Da “sema”, segno, scienza del portamento,

e “pros”, preposizione di luogo: verso,

dalla parte di… Venisse invece da “pro”,

significa innanzi, davanti… Contaminatio

argutamente semiologica. Davanti al segno,

i segni davanti: anche davanti al corpo!

Prima il segno – giurano i comportamentisti.

“Prima il corpo!” arringavano invece

le femministe d’antàn, o i veri e puri

poeti d’Eros… Vince il corpo, cambia

e s’atteggia, decide il porsi, pro-porsi.

Epidemia o pandemia che infine sia,

ci rapportiamo diversi, titubiamo.

Vade retro, Satana! – no al contatto.

Il touch and screen, rimanga nei computer.

Dàgli all’untore!, tornano i monatti…

E la Colonna Infame è sempre eretta,

riapriamo le grandi pagine del Manzoni;

o la cronaca metaforica della Peste: Camus

che però fece togliere la scritta romanzo

Marquez, con L’Amore ai tempi del colera…

Ma il romanzo del segno e del corpo

è più vecchio dell’Età della Pietra

(sema o soma?). Quando il Primo Homo

si alzò Erectus, e diventò Sapiens!,

umanoide… Darwin arrivò millenni dopo,

ma gli angeli (e gli scienziati), annullano

di quiete vorticosa lo spazio-tempo.

Così oggi il “corona-virus” ci cambia

la prossemica: niente più abbracci,

virili, complici, amicali, sensuali…

Niente baci e bacetti. Tolleranza zero,

del sema al soma: fine alle smancerie

spesso oziose che hanno accompagnato,

comunque i riti, i gesti de la civilisation.

Neanderthal è tornato. Esce dalla caverna

della prossemica. Pros-sema, e pro-soma…

Davanti al segno, tutti i segni del corpo,

in un corpo a corpo che in realtà ci sfinisce

l’anima, le contrappone il corpo stesso

dei segni… Ci dicono di non mischiarli!

Oggi anzi un Ministro ce lo ordina! Non

fondersi, non abbracciarsi. Oh, sarebbe

festa nefasta, orgia dei batteri, un rave

dissennato di tutti i microbi… Perfino

il semplice T’amo, torni ad essere solo

un verso; velenoso magari, come l’Odi

arcigno di Catullo: mero omaggio con cui

l’Uomo anche all’Amore resta immune…

(“La settimana che ci ha cambiato”, titola La Repubblica di venerdì 28 febbraio 2020. “I giorni del virus – Città vuote, turisti azzerati, aziende in crisi: la grande paura comincia venerdì scorso”.

Giorni atroci e anche sciocchi, timorosi di tutto. Ma non immaginavo che potesse contagiarsi, contaminarci anche il Linguaggio!…)

Mariù Safier

Covid 19

Cancellare vorrebbe dalla terra

ogni essere umano

vittima del suo stesso respiro.

Infausta prognosi

destino avverso

da governare.

Inflessibile, la Scienza

correrà senza fiato

in gola urla e incitazioni

asfalterà orrore, malattia

niente tentennamenti

niente esitazioni.

Occorre gareggiare

vincere il nemico

esistere, per sconfiggerlo

Eterna domenica

Le giornate diventate eterna domenica

strade desertificate, un’unica autostrada

viaggia finché il tramonto non è esaurito.

Case troppo pulite, diventate prigioni

le mura sono gabbie, le terrazza fiorite

bucati stesi al sole, invisibili sbarre

dietro i vetri, il fai da te domestico

subisce un’impennata

orari ridotti, contingentati per la spesa

tempo per i bambini, tanta voglia di parlare.

I maestri del pensiero correggeranno il tiro

di sapienze obsolete, di messaggi sbagliati

l’umanità spaesata

tornerà a interrogarsi, a scrutare

il fondo dell’abisso: l’anima umana.

Riconosceremo il Grande Male

non sarà il Corona Virus: quello lo vinceremo

è matematico, esaurirà la sua forza

sul campo di battaglia, tra morti, feriti

superstiti sbigottiti.

Forse è un’occasione, forse capiremo.

Chissà

Dio è più intelligente di noi.

Alessandra Iannotta

Stamattina mi sono svegliata felice.
17 marzo 2020 

Ho fatto un sogno bellissimo.

Ho sognato di volare su grandi ali dorate in uno spazio dove il tempo non esiste.

Lì, leggera come una molecola di aria, ho abbracciato la mia nonnina che ora vive tra le stelle e ho rivisto di nuovo brillare  i suoi occhi.

Le ho raccontato del piccolissimo virus che sta facendo preoccupare il mondo.

Lei mi ha sorriso,ma non era un sorriso normale, era una carezza dolcissima, un abbraccio infinito.

Non ricordo tutto quello che mi ha detto, ma sono certa che questa poesia l’ho scritta con il suo aiuto.

Sarà il mio piccolo regalo per tutti quelli che avranno voglia di leggere.

Silenzio 

Anche il silenzio ha la sua voce.

Nel silenzio si trovano risposte, non si giudica e si comprende. 

Anche in silenzio si può dire grazie, una parola di pace.”

18 marzo 2020

Sono uscita a fare una passeggiata.

Le saracinesche dei negozi si sono abbassate, come tanti occhi chiusi, sulle strade semideserte.

Le persone vagano perse tra muri di ferro.

Sento e tocco la loro paura, la riconosco perché è stata anche la mia.

Stringo la mano alla mamma, lei mi sorride e il suo sorriso, carico di luce, si aggiunge al mio.

Così insieme, stretti  tra loro, i nostri sorrisi riescono a sbriciolare i muri che ho visto.

Dobbiamo rientrare a casa, ma il mio cuore ora è leggero.

L’invisibile virus, che tutti temono, mi ha fatto capire la bellezza del dono di un sorriso ..

19 marzo 2020 

I miei fratelli stanno facendo lezione. Sono collegati con le loro classi tramite il computer.

Anche il mio  papà lavora da casa grazie a questo magico amico tutto in bianco e nero.

Fuori c’è una giornata fantastica, ma anche

oggi,per colpa tua, tutti dobbiamo restare chiusi  in casa.

Mi sento sola. E mi sto annoiando.

Penso di  provare quello che ti è capitato quando i tuoi famigliari ti ignoravano, ma non per questo mi metto a mordere il mondo come stai facendo tu!

Ti devo dire una cosa: Non pensavo che ciò che mi sarebbe mancato di più sarebbe stato il rumore …

21 marzo 2020 

Oggi vorrei tanto andare a fare una passeggiata.

Non posso e allora decido di fare una passeggiata virtuale con la mia amica immaginazione.

Mi sono appena seduta con  carta e penna, quando mio fratello ,armato di un laser,si mette ad inseguirne la luce blu finendo con la testa  sotto il divano.

“Cosa stai facendo?”

– Gli chiedo come sempre curiosa-

“Sto cercando di capire come funziona il laser perché con il mio telescopio olografico quando  con il laser  colpisco una scheda  posso vedere  il mondo in tante dimensioni e poi se taglio la lastra in mille pezzettini in ogni pezzetto posso ritrovare l’intera immagine.”

Mi risponde lui serio.

Lo guardo stupita:

“È fantastico!Grazie Riccardo, lo sai che oggi è la giornata mondiale della poesia?”

“No,non ne avevo la minima idea – mi  risponde lui sempre più serio – “ma Iolanda cosa c’entra  la poesia con il mio laser?”

“Beh è un po’ come il tuo ologramma,se cerchi una scheda con la poesia la poesia sarà ovunque…”gli rispondo io seria.

Scoppiamo a ridere insieme ed è bellissimo,finalmente sono riuscita a fare ridere mio fratello!

Chissà se i dottori riusciranno prima o poi a fare ridere anche Coronavirus -penso – magari potrebbero provare con un laser e così sarebbe anche lui contento e la smetterebbe di fare male …

Toni Maraini
Alle 18 di Venerdì scorso

delle finestre si sono aperte nelle case del quartiere dietro l’università. In ordine sparso dei giovani studenti hanno intonato canti ritmandoli con qualche strumento o con pentole e mestoli. Da un balcone, due bambini hanno recitato con la madre ‘Il canto degli Italiani’ (l’inno di Mameli e Novaro). Alcuni si sono affacciati dai caseggiati con saluti e battiti di mani. Il resto delle finestre è rimasto chiuso e silente. Con un sistro in mano ho partecipato dal mio balcone a quel breve concerto surreale. Il mio sistro africano di ottone dal sonoro tintinnio metallico fu allegramente salutato. Non era anacronistico. Partecipava alla logica di antichi riti sciamanici contro cattivi spiriti e pensieri. Presi allora dei brevi appunti. Oggi, Martedì 17 Marzo, ne trascrivo alcuni ‘grani‘. ‘Moderni’ siamo ma anche abitati da memorie che emergono dal profondo (antropologico e non) quando l’ignoto si presenta, anzi ripresenta, nel ciclico ritorno di guerre, sindromi collettive e ‘pesti’. Da sempre e in ogni dove, speciali danze, cerimonie e sonorità hanno accompagnato rituali di esorcizzazione e di propiziazione. A quelli dell’area africana avevo dedicato dei capitoli nel mio libro ‘I Sogni di Atlante’. Buona propedeutica. La storia insegna sempre qualcosa. Anche in tempi di nuovi paradigmi, quando tutto sembra oscillare sulla bilancia. Oggi, con felliniana ‘Prova d’Orchestra‘, un invasore invisibile sembra sottendere future prove generali di fantascientifiche guerre batteriologiche (d’altronde non tanto fantasiose se vero è, come scrive lo storico Howard Zinn, che “la prima vera guerra biologica” fu messa in atto in America nel 1763 dal Generale J. Amherst di Fort Pitt che ‘offrì’ agli Indiani coperte usate dai malati di vaiolo del locale ospedale e gli Indiani, che non avevano anti-corpi al vaiolo, di fatto morirono in gran numero per l’epidemia indotta e ciò alimentò lucrativi interessi coloniali…). All’altro estremo, vi è oggi quanto da tempo profetizza la ‘Deep Ecology’ sulla rivolta di Gaia, Terra, Natura e Bio-Entità intenta a mandarci drammatici messaggi, gravi avvertimenti ma, anche, salvifiche esortazioni… E poiché Gaia è ab origine parte costitutiva del nostro Dna, sfruttarla, mortificarla, manipolarla è stato un boomerang, non ascoltarla un errore. Nel mezzo di cotanto sbilanciamento, ci siamo noi. Ma, questa, è un’altra pagina del mio diario….

Stamani 21 Marzo
21 marzo 2020 

Sono riaffiorati alcuni miei ricordi di bambina nel campo di concentramento e quanto di nascosto annotò a matita  mia madre in un quadernino su quel biennio di prigionia. Dall‘inizio in cui i detenuti (colpevoli d’anti-fascismo) combattevano fame e angustie organizzandosi con mutuo sostegno, qualche canto e fervida discussione, dividendo tra loro una patata, mezza carota o la magra razione di riso, sino alla fase di deperimento fisico e mentale, cupo ripiegamento e ricerca di qualche torsolo di cavolo gettato tra i rifiuti dalle guardie, gli adulti si tormentavano per capire quando quella guerra sarebbe terminata e se si sarebbe morti tutti prima. In quel luogo senza contatti esterni ed attorniato da orrori e dolori, seppero però resistere mantenendo un minimo di solidarietà nell’affrontare affanni e malattie, ancorandosi ognuno a qualcosa, incluso alla visione di un mondo che speravano un giorno rendere migliore. Sopravvissero/sopravvivemmo. Quei ricordi hanno accompagnato un vortice di pensieri. Incluso sul mio telefono di casa… Poiché amici e parenti mi contattano sul cellulare e il telefono spesso squilla per fastidiose chiamate promozionali, considerandolo poco consono all’era elettronica contavo non rinnovarne il contratto.  Una stoltezza. Sulla stampa online stamani avevo letto infatti che le istanze europee si stanno affrettando a regolare il traffico elettronico assai preoccupate dal fatto che oggigiorno è pericolosamente sovraccarico… E se ne limitassero l’uso, o la rete di Internet andasse in tilt? Ho avuto un brivido (nonché, in un lampo, il ricordo dell’isolamento nel campo di prigionia). Brivido aggravato dalla consapevolezza della vulnerabilità delle telefonia stessa, dell’assetto sociale ed altre cose… Esaltati da un edonistico narcisismo di onnipotenza (vedasi certe pubblicità delle automobili…), è stato fatto credere (ai giovani soprattutto) che siamo una civiltà tecnologicamente sovrana e invulnerabile; che il neo-liberismo era scelta vincente (anche con tagli a sudate conquiste del bene comune e anche allorquando il Globalismo, come inteso da Chomsky, auspicava ben altre scelte e risposte); che il drammatico destino degli altri (rifugiati, internati in campi, esuli e senza tetto) poco importava (e di fatto poco appare nelle notizie su di loro ed eventuali urgenti politiche sensate)… La verità è che siamo fragili quanto la stolta epoca in cui viviamo. Gli eventi ci esortano a capirlo ed affrontare il nuovo paradigma come prigionieri che resistono in attesa di rimboccarsi le maniche per un mondo migliore.

Bruno Brundisini*
UN SILENZIO ASSORDANTE

Ho davanti a me il computer.

Provo l’angoscia di chi ha di fronte un foglio bianco è non sa cosa scrivere. Mi viene in mente Quasimodo “E come potevamo noi cantare (…). Alle fronde dei salici per voto, anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento”.

Roma, l’Italia, il Mondo sono fogli di carta bianca su cui vorresti scrivere delle parole, delle emozioni, dei pensieri, ma non sai da dove incominciare, non sai di che parlare.

Forse perché si è già detto molto su quel nemico invisibile che ha tradito i nostri abbracci, i nostri slanci, persino il nostro stare insieme ed ha gettato l’umanità in un imprevedibile letargo.

Lascio il computer e mi affaccio alla finestra. Un sole beffardo illumina le strade, si riflette sulle lamiere delle auto immobili, delle saracinesche grigie, e quello che vedo rassomiglia all’istantanea di una città senz’anima, consegnata ad un silenzio innaturale. Un paesaggio che ti ipnotizza nella sua solitudine.

Ma ecco, all’improvviso odo un canto bellissimo che nasce su un balcone lontano. Allora capisco che quell’assenza che inonda le strade, è in realtà solo apparente, perché dietro quelle finestre, dentro i muri degli innumerevoli palazzi antichi e moderni che si snodano per Roma, abita un’umanità che respira, che spera, che crede.

Mi accorgo che il mondo all’improvviso si è trovato a recitare un’unica liturgia, una sola preghiera, come non era mai accaduto prima.

Varco il portone dell’ospedale. Ormai lo percepisco come un luogo avvolto nel sortilegio di un abbraccio tra la terra e il cielo, ove uomini e donne in tute divine combattono una guerra disperata intorno ad un paziente e la stessa scena si ripete decine e decine di volte. Eccolo Cristo nel fondo di quel letto, Cristo che muore ogni giorno e ogni giorno risorge nell’amore disinteressato del bene.

C’è la solidarietà collettiva. Il sistema burocratico che ha spersonalizzato la sanità, viene messo alla porta, non serve più e il paziente non è più un cliente, non è più un DRG. Egli torna ad essere un fratello, un amico, e riemerge ciò che è vero, ritornano i valori antichi ed autentici che hanno spinto in tutti i tempi, migliaia di uomini e donne ad indossare un camice bianco.

Torno davanti al computer. Non è più come prima davanti al foglio bianco. C’è una grande realtà virtuale che ci unisce nell’attesa messianica di un segnale per riempire di nuovo le strade, dopo tanto patire, ormai festosi e vincitori.

____________
* E’ medico.

Silvana Cirillo

SPIGOLANDO SPIGOLANDO…

Caro Tonino, rieccomi a scriverti dopo qualche giorno, mentre di là  l’ennesimo telegiornale  ci sciorina numeri e ci impartisce la sua dose quotidiana di dolore e di paura…Basta queste voci che  ripetono quasi sadicamente la quantità insopportabile e anonima di morti che il bollettino medico trasmette, basta stare inchiodati davanti al televisore fino a notte sperando in una – per ora lontanissima – liberazione. Basta lo dico a me, che cammino leggo scrivo, mando lezioni e dispense agli studenti, sistemo casa, talvolta cucino pure, ma poi il tempo che mi rimane lo passo “attaccata” a radio e televisione, ovvero alle notizie pandemiche sul virus…  Intanto passo davanti allo specchio di un  ozioso mobile antico che sta in salotto e mi guardo : Dio santo come mi sono ridotta! Senza trucco, viso smunto, ciuffi di capelli bianchi…Io fanatica da sempre, femminista ma anche  femminilista convinta da sempre, io, che nei lontani anni 70 in cui si circolava in sahariana e sandali francescani,  mettevo le mie colorate camicie di seta e le ballerine,e mi attiravo gli sguardi obliqui e le critiche di chi credeva che per essere vere socialiste – e io lo ero! – libere e femministe – e io lo ero – si dovesse andare in giro come straccione, struccate e scipite. E quanto apprezzavo il Pasolini, che se la rideva dei capelli lunghi che ormai non significavano più niente, visto che li portavano soprattutto i figli di papà. E quanto continuavo a sdoganare a mie spese il bello da ideologismi d’accatto. Be’ fanatica continuo ad esserlo, ma questo coronavirus che ci chiude in casa, ci toglie parrucchiere ed estetiste, e non ci fa più confrontare con nessuno, ci ha tolto, oltre alla serenità, anche il piacere di piacere! L’ altro giorno, mentre di corsa andavo a fare la spesa con mascherina guanti ed occhiali / praticamente una marziana a Roma / passo davanti alla profumeria sotto casa , ovviamente chiusa, e penso con soddisfazione: fantastico,ho fatto appena in tempo a comprarmi il fondotinta nuovo! Già, ma per farci cosa, se stai solo in casa e quando esci manco ti si riconosce così bardata? Be,’ allora ho pensato , se ho il viso pallido e fuori c’è il sole , abbronziamoci! L’abbronzatura, come si dice?, da un’aria di salute! Salgo in terrazza per i miiei soliti 1500m. di ora d’aria e comincio la gimcana fra sedie tavole e panni stesi, ma stavolta l’obiettivo non è solo mantenere viva la circolazione e ammazzare il grasso, è pure quello di rincorrere il sole. Il lato giusto, l’angolo più assolato, i saltelli faccia al sole…e mi viene in mente  Bontempelli: ti ricordi il racconto in cui il protagonista voleva tracciare il percorso ideale  per camminare d’estate nel suo quartiere senza mai prendere una “incocciata” diretta di solleone? e per costruirla, questa mappa, gira  nelle strade e negli angoli più assolati , quelli da escludere per primi dal percorso, e gira gira per ore sotto il sole con la testa scoperta, l’incocciata alla fine la prende lui e ci resta secco… Be’ mi sono sentita altrettanto stupida e così non ho preso neanche la tintarella( delle ragazze invece, audacissime, le vedo stese nei balconcini già in costume da bagno ad abbronzarsi: per quando poi? chissà quando usciremo dalle nostre case e da questo maledetto incubo…?!) Mi restano soltanto i capelli: scendo a casa ( quinto piano con soffitti alti a via Po, come fosse un sesto: per dormire, non ci crederai, ci vogliono comunque i tappi nelle orecchie, fra autobus veloci che ci scuotono tutta casa, macchine, gente che urla, giovani che cantano dopo le ubriacature notturne…e la mattina i negozianti che si chiamano da una strada all’altra.., i fornitori pure ecc. ecc.; be’ ora dal silenzio e dal ” mortorio” attorno sembra di stare in campagna. ” Dai che è un po’ come fossimo a Todi” scherza mio marito, ma non mi consola, anzi mi arrabbio: Rivoglio i tappi;  il chiasso, il rumore,  la vita! )decisa a sistemarli, ma  nel frattempo parlo con due amiche. Ambedue mi citano due persone di Roma che conosco, ambedue infettate : aita aita! ci sembrava lontano e si sta avvicinando, l’uomo nero dell’infanzia…Saltata pure la voglia di colorare i capelli, vince la paura, la  pigrizia pure e poi chi mi vede se sono grigia o mora? Quasi quasi rimando per la terza volta…Poi mi passa sotto gli occhi un bel ” taccuino del virus” di Antonio Polito  sul “Corriere”: Cosa si indossa ? il titolo. “Che mi metto x la quarantena?” attacca, e sciorina tante risposte di amici e adulti per lo più in maglietta o tuta o addirittura in  pigiama, pantofole  e vestaglia; gli studenti, invece, si sistemano bene per le lezioni online, lui in giacca! La faccenda mi scuote, non mi riconosco così conciata, vado in bagno e decido di coprire i bianchi e poi di farmi il trucco oltre il parrucco e mi preparo a cantare così alle solite 18 dalla finestra dello studio, e di rompere questo silenzio sepolcrale insieme agli altri stonati del quartiere. Un inno alla vita, ma anche un mesto saluto a quanti trascinati dal corona ci ascoltano ormai dall’Altrove…

Sarò ancora in tempo per il tuo Diario plurifocale?
Silvana

Philippe Daverio

Sto a casa e scrivo…

Aspettando che la grande scopa del Manzoni la smetta e sono felice di non essere anglicano upper class, ma banale cattolico afflitto da pietas;

Ho aspettato un po’ a scrivere, speravo di aver capito male.

Invece il Primo Ministro del Regno Unito, intendeva dire proprio ciò che ha detto: “Abituatevi a perdere i vostri cari”.

Boris Johnson si è laureato ad Oxford con una tesi in storia antica.

È uno studioso del mondo classico, appassionato della storia e della cultura di Roma, su cui ha scritto un saggio. Ha persino proposto la reintroduzione del latino nelle scuole pubbliche inglesi.

Mr. Johnson, mi ascolti bene.

Noi siamo Enea che prende sulle spalle Anchise, il suo vecchio e paralizzato padre, per portarlo in salvo dall’incendio di Troia, che protegge il figlio Ascanio, terrorizzato e che quella Roma, che Lei tanto ama, l’ha fondata.

Noi siamo Virgilio che quella storia l’ha regalata al mondo.

Noi siamo Gian Lorenzo Bernini che, ventiduenne, quel messaggio l’ha scolpito per l’eternità, nel marmo.

Noi siamo nani, forse, ma seduti sulle spalle di quei giganti e di migliaia di altri giganti che la grande bellezza dell’Italia l’hanno messa a disposizione del mondo.

Lei, Mr. Johnson, è semplicemente uno che ci ha studiato.

Non capendo e non imparando nulla, tuttavia.

Take care.

Laura Massacra
Piccoli sfasamenti spazio-temporali

Sono in smart working da una settimana, sola, nella mia casetta calda e luminosa, sempre connessa e pronta ad accogliere telefonate, news, video, visual e mondi nuovi dalle finestre dei miei device, fatti di pixel e colori.

Durante la mia giornata, da amici del Nord mi pervengono battute amaramente ironiche sul senso di isolamento e clausura dettato dal distanziamento sociale, iniziato per loro, anche in forme volontarie, alcune settimane prima di noi. Da Sud motti di spirito e proverbi che restituiscono il calore e il senso di appartenenza e aggregazione sociale tipico dell’humus mediterraneo. E poi via con i Tg, con la conferenza stampa delle 18 della protezione Civile, con una informazione che in questi giorni suona più come un bollettino di guerra che come una comunicazione dei fatti del giorno.

“Si sta come in guerra”, mi dice mia madre. Solo che, a differenza delle guerre, non ci viene chiesto di imbracciare le armi in trincea ma di appollaiarci sul divano. Non sono razionati i viveri e non viviamo la penosa condizione di isolamento in cui immagino si trovassero i nostri avi quando, in tempi di guerra, restavano isolati nelle proprie abitazioni attendendo, a volte invano, una missiva dal fronte o dai parenti lontani. Al contrario, le comunità si fanno più dense, i contatti telefonici e virtuali più fitti, i gesti di scambio-dati via WazzApp o Facebook diventano abbracci simbolici che veicolano affetti veri, dove ogni segnale, ogni beep esprime una vicinanza reale e senza confini.

Spendo le mie giornate tenendo fede a un programma marziale di cose da fare, lavoro da svolgere, libri da leggere, persone da contattare.

Ma oggi, riflettendo sotto la doccia, ho avvertito una sensazione strana: mi sono sentita come mio padre che nel ventunesimo secolo, all’età di circa 70 anni, sperimentava per la prima volta la bellezza e la forza della comunità web. Stare a casa con il mondo a portata di mouse, poter commentare le notizie in diretta attraverso la sua privatissima comunità virtuale fatta di amici, colleghi, parenti, senza doversi spostare dalla poltrona di casa. Sono stata percorsa da un brivido lungo, perché improvvisamente ho sentito l’ebbrezza di essere come un “millennial anni ‘30 di ritorno”; ho percepito lo stesso senso di meraviglia che potevano vivere il mio babbo o la mia nonna nel salto storico da una fisiologica deprivazione di comunicazione, al boom del “World Wide Web”: una condizione forse solo inizialmente straniante ma che poi ha portato entrambi a decenni di sfrenata euforia.

Entrambi mi dicevano spesso: “il ventunesimo è il secolo più bello che abbiamo vissuto” ed entrambi nutrivano quell’ottimismo che solo possono vivere coloro che attraversano un passaggio epocale.

D’altro canto, nello stesso istante in cui sperimentavo queste sensazioni, ho avvertito come uno sfasamento spazio-temporale. Di nonna e babbo ho cominciato a condividere, accanto all’euforia, anche la condizione tipica degli anziani: l’essere, per motivi di salute o solo di stanchezza, relegati tra le mura domestiche, in un accesso alle relazioni mediato principalmente dal tempo delle telefonate dei propri cari, scandito dal tempo dell’informazione, regolato dal tempo autoritario del pranzo e della cena.

Ho capito di colpo come ci si sente ad essere vecchi, con tutto l’incanto che questa meta comporta. Ho colto il senso profondo del tenersi in contatto telefonicamente, del pensare con gratitudine all’esistenza di persone lontane ed ho scoperto che, come figlia, come nipote, non ho nulla da recriminarmi. Ho avvertito, come una scarica elettrica emozionale, le tante ragioni profonde che ci tengono assieme, noi tutti uniti in un unicum temporale dove non esistono età, generazioni, differenze, ma solo legami.

Mi sono sentita, di colpo, vecchia, e ho pianto per la sublime bellezza di questa condizione.


Una guerra senza nemici

Guerra mondiale? Guerra di religione? Guerra di trincea? Guerra lampo? Guerra fredda? Guerra di confine? Guerra di famiglia o di dinastia? Guerra batteriologica? No. In questi giorni il presidente del consiglio francese Emmanuel Macron l’ha chiamata “Guerra sanitaria” e mai definizione fu più appropriata perché si differenzia in maniera inedita da tutte le tipologie di guerra percorse dalla nostra Storia.

La guerra al Coronanivrus non è, come tutte quelle che abbiamo vissuto o appreso, una guerra tra popoli, ma si tratta di una guerra che finalmente unisce i popoli contro un nemico non umano.

Nonostante questa guerra globale avvenga per ragioni egoistiche, sociali, darwiniane, economiche, politiche, essa impone che, al tempo del covid19, tutto il globo terraqueo sia allineato e congiunto nella lotta al nemico vivente ma non umano, sociale ma non socievole, popolazionale ma non classista, razzista, etnico o sensibile al ceto sociale. Questo nemico con la corona, ma spogliato di un regno delimitato da confini, ci costringe a riscoprire le ragioni profonde che ci tengono assieme.

Man mano che l’usurpatore biologico tenta di prendere il sopravvento sugli umani, i governi di tutti i paesi si vedono costretti, in una lotta darwiniana alla sopravvivenza, a prendere misure che garantiscano la coesistenza delle altrui regole, e la coesistenza degli altrui popoli. Persino Boris Johnson, che in un primo tempo aveva deciso di sacrificare il suo “gregge” per quella immunità collettiva tanto agognata, sta cominciando a prendere misure più restrittive per evitare che, un domani, i paesi europei, allarmati dalle sue irresponsabili politiche sanitarie, mettano al bando per sempre i suoi concittadini dalle limitrofe regioni europee.

Per la prima volta nella storia dell’Occidente, i governi ascoltano la comunità degli scienziati seguendo le sue indicazioni e mettendole subito in pratica con decreti e provvedimenti lampo. Quelle misure di distanziamento sociale restrittive e rigorose che oggi sembrano, per alcuni, l’alba di un ritorno a sistemi e pratiche tipici dei regimi totalitari, rappresentano invece il frutto maturo di una democrazia in cui si ascoltano davvero le “comunità delle competenze”, fatte di ricercatori, medici, amministrazioni locali.

In Italia la parziale autonomia regionale, fatto virtuoso, permette a regioni come il Veneto di implementare nuovi sistemi di screening della popolazione locale, i quali serviranno, in un futuro ben vicino, a fungere da progetti pilota che, se svolti successo, si estenderanno a tutto il territorio nazionale, accorciando notevolmente i tempi nella lotta al virus.

Nel mondo decine di gruppi di ricercatori sperimentano modalità eterogenee di lotta al covid19, che vanno dal semplice vaccino all’utilizzo degli anticorpi monoclonali, dall’applicazione di farmaci già esistenti, rivelatisi utili a mitigare i sintomi del virus, fino alla ricerca di vaccini pluri-ceppo.

La libertà di ricerca, congiunta all’accoglimento, da parte dei governi, di misure locali, che in questi giorni gli amministratori stanno mettendo in campo per far fronte all’emergenza sanitaria, come la creazione lampo di nuovi ospedali e strutture covid e l’istituzione di zone rosse a macchia d’olio dello Stivale, ci fanno comprendere quanto, mai come ora, tutte le più grandi eccellenze, le migliori menti mondiali siano al lavoro per scoprire armi collettive di annientamento del virus. Armi collettive che, una volta testate, si estenderanno a macchia d’olio per il bene dell’umanità nel suo complesso.

La cooperazione tra gruppi di competenti sparsi nel mondo produce, in una escalation vertiginosa di sperimentazioni e scoperte senza precedenti, un velocissimo bootstrap delle acquisizioni scientifiche politiche, sociali, economiche che accelerano, a loro volta, sistemi di condivisione della conoscenza universale dell’uomo nel proprio vivere civile, sociale, culturale.

La condivisione della conoscenza, a molteplici di livelli di descrizione, investe di nuova energia le persone del futuro, promuovendo, un domani, nuove ed eccezionali modalità di condivisione sociale, nuovi modelli di lavoro, nuovissimi modi di concepire il valore emotivo di merci e beni. Domani, l’attuale consumismo, la corsa all’acquisto di beni superflui, lo shopping compulsivo verranno riarticolati alla luce di un nuovo sentiment che rideterminerà i valori di mercato di alcune merci. Diventeremo più immuni a quella sistematica induzione al bisogno che costantemente operano i media e comunicazione verso l’acquisto di oggetti.

Domani un’energia nuova investirà i nostri paesi, circolando come una coscienza che promuove empatia, solidarietà, senso di appartenenza e aggregazione sociale.

Il coronavirus diventerà un volano per la sperimentazione di nuovi modelli di organizzazione sociale, del lavoro, economici, ambientali

L’uomo del futuro, l’uomo nuovo, più che mai darà impulso alla circolazione di moneta e tempo per iniziative come il crowd founding e azioni benefiche che potenzino la solidarietà collettiva.

Ebbene, questo potentissimo ed eccitante cambiamento epocale è già in atto. L’uomo nuovo è alle porte. L’uomo nuovo siamo noi.

Tomaso Binga
Sono all’estero

Sono all’estero e sto per rientrare …! Bagaglio a mano e occhiali sulla fronte …! Non trovo più il biglietto di ritorno ho solo quello dell’andata e sono disperata …! In tasca pochi spiccioli …! Ripercorro la strada …! La folla mi travolge l’angoscia è sulle spalle …! Recito parole a stento col grido ci ritento…! Non so con chi parlare …! Mi manca fiato iato e vivo nel torpore …! Salgo di nuovo e scendo tre volte in ascensore …! Inciampo torno indietro cado sulle scale …! La gente è senza occhi e non mi può aiutare …!

Poi mi sento chiamare …! Poi mi sento chiamare …! Poi mi sento chiamare …!

Era il Padre mio giovane e suadente …! Ecco il tuo biglietto…! Son venuto a prenderti son qui e t’aspetto per ritornare insieme …! Subito risollevata gli ho dato baci e baci e poi mi son svegliata …! Che gioia averlo sognato…! Che gioia averlo sognato…! Ma ricordando poi quel che m’aveva detto balbettai un Avviati …! Su ti prego…! Ti seguirò più in là …! Molto quagGiù ho da fare …! Molto quagGiù ho da fare …! Molto quagGiù ho da fare …! Il Virus debellare …! Bollette da pagare …! Poesie da recitare …!

Poesie da recitare …! Poesieda Re Ci Ta Re !!
è stato un sogno o è un segno …?

Guido Barlozzetti
Lavarsi le mani

Cominciò a lavarsi le mani. Sotto il rubinetto che rovesciava giù l’acqua che all’inizio era fredda. La saponetta ruotava tra le palme in un movimento che ricordava il gioco di prestigio di un cartaio, che so, Karl Malden che in Cinncinnati Kid e in mezzo tra gli occhi azzurri di Steve McQueen e il ghigno impassibile di Edward G. Robinson, sta mescolando il mazzo prima dell’inizio della partita e si diverte a comporlo e scomporlo facendo ogni tanto dei ventagli di fiori, cuori, quadri, picche, ahi, come la ruota che fa il pavone, quando è contento di sé o ha deciso di fare un defilé per quelli che lo stanno a guardare come se assistessero a una sfilata di uno stilista illustre che continua a spingere sulla pedana modelle impettite con le gambe che sembrano sempre sul punto di inciampare l’una sull’altra, al modo di uno di quei cavalli con indiano a pelo che si rovesciano a terra così rovinosamente che pensi non si rialzeranno mai, nei film western nel momento in cui un cavalleggero li centra con il Winchester, che si chiamava Oliver, folgorato dall’idea di allungare il ponticello del grilletto in modo da permettere il tiro a ripetizione, modello indimenticabile la carabina sovrapposto del 1873, l’anno in cui Phileas Fogg cominciò il suo giro del mondo in ottanta giorni con Passepartout che apriva qualunque serratura passando per New York New York, canta Liza Minnelli, figlia di Vincente e Judy Garland, che vidi in un concerto all’Auditorium di Roma faticosamente riemersa da anni di matrimoni complicati e difficili come si deve fare nel mondo dello show, show, show disse il contadino alle galline che gli attraversavano la strada mentre entrava nel pollaio per prendere le uova appena deposte, in tutto cinque come i Pillars della saggezza di Thomas Edward Lawrence, detto d’Arabia, che negli ultimi anni della sua vita di avventure e illusioni leggeva sei libri al giorno nella sua casa di Clouds Hill, nel Dorset, prima dell’ultima corsa in motocicletta, a grande velocità come le mani che continuavano ad avvolgersi l’una sull‘altra nella calda schiuma del sapone e, a questo punto, erano disinfestate e pulite. Chiuse il rubinetto.

Cetta Petrollo
Diario di una quarantena: 13 e 14 marzo. Paura

Un’amica mi invia, in una chat che, mano a mano che passano i giorni, va rarefacendosi con solitari interventi esplosivi, segno della paura che ci sovrasta, un’intervista, credo del 2015, di Bill Gates.
Ne avevo già sentito parlare da un altro amico, autoconfinatosi nelle alture vicino a Genova, amico definito da molti complottista, che complottista non mi è però sembrato, visti i riscontri oggettivi dei link che mi incolla nei messaggi.
Però oggi ascoltare Bill Gates, che cinque anni fa parlava di guerre chimiche e di adenovirus, sinonimo, credo, di coronavirus, mi fa un effetto decisamente diverso.

È come se qualcuno mi avesse tirato una bomba e questa bomba non fosse ancora esplosa e io sto lì a guardarla mentre si avvicina e so che altri la stanno guardando ma sono molto più preparati di me, sono ben nascosti, nelle loro ville, rifugi da armi chimiche, posti di comando blindati, loro sanno quello che sta per accadere, lo osservano da lontano, ne hanno già calcolato gli effetti per cui settanta per cento di morti sono un’eventualità già presa in considerazione ed è davvero inutile che io sia schermata mentre la bomba arriva, hanno già calcolato che non c’è schermo possibile per gli umani come noi che non hanno avuto a disposizione cinque anni per prepararsi.
Perché chi ha preparato la bomba, questo profetizza, profetizza?, Bill Gates, ha avuto cinque anni di tempo per parare i posti di comando per tutte le evenienze, e anche proteggere le fabbriche internazionali che non si devono fermare mai, quelle per intenderci che servono l’esercito e fanno guadagnare moltissimo i produttori dei farmaci, mentre a noi, poveri umani, è lasciato l’arrovello, il tutti a casa, nel migliore dei casi, un’inutile borsa nera della salute.
Chi ha preparato la bomba ha sicuramente tenuto conto dell’entità delle perdite e avrà allestito bunker isolatissimi per chi dovrà continuare a reggere il mondo, lasciando a noi la scelta su come morire, in casa o in un lazzaretto.

Analizzo, scrivendo, questo sentimento di paura.
Di cosa dunque ho più paura? Sì sì Rosanna Aconitum ma magari una fiala di morfina all’occorrenza.
Ho paura per i miei cari. Ho paura che l’umanità finisca..Ho paura della morte solitaria, senza i miei cari , nel migliore dei casi vicino ad un’infermiera stanca e spaventata.
Non ho paura del soffocamento, ogni morte, a pensarci bene dev’essere un soffocamento giacché non si respira più.
Ho paura di questi mostri che sembrano conoscere cose che noi non conosciamo e calcolano l’entità delle perdite umane come fossimo al poker.
Ho paura che si rompa il telefonino, che si guasti il telefono, che si rompa il computer, che la rete non funzioni più,che non arrivi più la luce, che non ci sia più energia elettrica, che i monatti mi portino via.
Ho paura che il mondo finisca prima che io possa raccontare le storie belle a mio nipote.

Roma, 15 marzo 2020: Balcone

Da quanto tempo non mi affacciavo a un balcone? Ritrovo senza accorgermene la postura della mia infanzia, quella che avevo visto nelle donne di casa, qui a Roma e, prima, a Palermo, braccia incrociate sulla ringhiera,sguardo che si spinge lontano, nell’attesa di qualcuno che torni, nel seguire qualcuno che va.

Quante volte ci siamo affacciate così nelle pigre giornate estive, nei pomeriggi domenicali, nell’ora prima del pranzo quando qualcuno tornava dal lavoro, scendendo dall’autobus, borsa sotto al braccio, borsetta a tracolla?

Un tempo rallentato, quello dell’affacciarsi, un tempo che ha molto tempo, un tempo dimenticato e che ora ritrovo naturalmente nella postura.
Sono la sola ad affacciarsi. Forse che non sia sicuro? Questo virus ha la malignità di sollevarsi per aria e volare fino al balcone di un primo piano? È questa la spiegazione se non si affaccia la mia vicina, una ragazza giovane che pure ha messo sul balcone una sedia e un piccolo tavolino?
Se la signora chiassosa del secondo piano non parla a gesti con la vicina? Se nessuno ha ieri suonato, cantato, ballato, applaudito al comando universale apotropaico contro il virus?
La spiegazione, certo, non è questa. È che non puoi ritrovare questo tempo se non l’hai mai conosciuto.

E questo tempo, il tempo delle giornate larghe, il tempo ozioso quando niente ci si attendeva da noi se non vivere, scandita la giornata dai momenti della tavola, rare e quasi eroiche le uscite domestiche – sarta, parrucchiere, mercato, merceria – c’è chi non l’ha mai conosciuto.
Il suo è stato il tempo degli impegni, del raggiungimento, dell’affermazione, della forma fisica, e degli incontri.

E dunque non gli viene in mente di affacciarsi al balcone per una boccata d’aria, di incrociare gli avambracci e reggersi sulla ringhiera, lo sguardo che si spinge lontano, fino ai palazzi di fronte, cercando gli inesistenti interlocutori dell’affaccio, in chiusura di cerchio perfetta.
Nel tempo in cui di tempo ce n’era tanto.

Roma 16 e 17 marzo 2020: “Serba ca trovi”

Mia mamma ha visto due guerre, una da bambina, l’altra da giovane sposa con una figlia appena nata. Avevo sempre attribuito la sua mania del non buttare niente ad una sorta di nevrosi che la spingeva a stipare, negli armadi, qualsiasi oggetto che non fosse immediatamente utilizzabile: chiusure lampo, nastri e nastrini, elastici, bottoni, pezzi di stoffa ricavati da abiti non più indossabili, matite, penne, fogli e foglietti di carta, pinze, mollette, campioncini di sapone e di profumo, zucchero e sale vecchissimo nelle zuccheriere e nelle saliere, fondi di rossetto, feltri inservibili, forbici di vario tipo, vasi e vasetti di vetro, scatole e fili per il ricamo.

Invece no, e ora ho capito, mentre cerco fra le riserve domestiche che spesso risalgono alla sua eredità novecentesca, elastici, pezzetti di sapone, fondi di profumo, forbici da parrucchiere, tutto quello che mi viene in mente potrebbe tornare utile se l’isolamento continuasse e la ricchezza che abbiamo intorno progressivamente sparisse.

E così anche comprendo il suo bisogno di avere sempre la dispensa piena di alimenti non deperibili, alimenti nutrienti con i quali superare la mancanza di altri cibi.

Il suo armadio era sempre zeppo di pasta, riso, legumi secchi, farina, vino, olio, conserve di pomodoro e marmellate, abitudine mai persa fino ai suoi 96 anni.

Mi chiedevo, perché? Perché tutta questa fatica, questo accumulo, quando siamo pieni di negozi e in un attimo si può fare provvista e tornare con il carrello pieno?

È che io non avevo capito che era l’immaginario della guerra, il suo tremendo ricordo a farla comportare così, quando le comunicazioni fra Nord e Sud si erano chiuse e non potevano più arrivare i provvidenziali pacchi spediti dall’emporio di Palermo per il sostentamento della famiglia; era il ricordo della guerra più antica quando, lei piccina, fu necessario razionare tutto, e le donne di casa si dovettero improvvisare sarte, lavandaie, infermiere, cuoche, maestre.

Dunque rispolvero le forbici comperate molti decenni fa, non ricordo per quale motivo, ritrovo due confezioni di mollette per capelli, che volevo buttare e poi non buttai, tiro fuori blocchi carta che provengono dalla riserva di mio papà di circa cinquant’anni fa (la carta non si deteriora!), mi rimprovero per essermi ridotta con un solo ago per cucire, applaudo al mio conservare, come lei, vasetti di vetro, mi glorio delle scaglie dei saponi quasi finiti, mi interrogo sul toner e, soprattutto, se riuscirò a montarlo nella stampante, penso che devo aiutare mia figlia e non so bene in quale modo e penso che vivere separati, in piccole famiglie, la mia piccolissima – ci sono solo io – non va più bene.
In tempi di guerra, e questo lo é, bisognerebbe stare uniti per aiutare i figli e i nipoti e per sostenersi a vicenda.
Mettere in comune le proprie provviste di cibo. Mettere in comune le proprie provviste d’amore.

Roma – 18 marzo 2020: Borgata

Da qualche giorno il quartiere nel quale abito, anzi, ad essere più precisa, il viale sul quale si affacciano i miei balconi, sta subendo una lenta e graduale trasformazione, si sta aprendo abbandonando le consuetudini di riservatezza piccolo borghese praticate fino a qualche giorno fa..

Qui i vicini si salutavano raramente, proibito stendere le lenzuola al sole, proibito esporre panni, scope e stracci, proibito parlarsi da una finestra all’altra, raro lo scambio del sorriso, desueto il canto, inesistente la musica tranne che nelle ricorrenze religiose quando eroicamente il parroco si ostina a organizzare processioni poco seguite, peraltro, dagli abitanti.

Piccoli proprietari che, a fatica, negli anni Sessanta, riuscirono a comperarsi una casa, in una zona considerata suscettibile di sviluppo, così come poi è stato grazie alla fermata della metro, e che si impegnano a recintare spazi e distanze perché sia chiaro che loro non fanno più parte del popolo degli artigiani, degli operai, delle collaboratrici domestiche, ma sono in ascesa verso i livelli più alti della scala sociale.

Il silenzio è l’avarizia di chi ha avuto qualcosa e teme di perderlo, di chi ha potuto trovare sicuri e pigri lavori ministeriali, di chi sull’onda degli anni Sessanta ha potuto mettere da parte una piccola fortuna di cui ora godono figli e nipoti che sono venuti ad abitare nelle case, abbellite e ristrutturate.

Ma ora le rigide maglie della protezione di classe si stanno allentando e aprono spie di luce, un ritorno all’origine?, su questa umanità spaventata che, nello spavento, ritrova l’idea di vicinanza, di appartenenza allo stesso fazzoletto di terra e di abitato cittadino.

Ci si affaccia ai balconi per l’ora d’aria, ci si spinge fino a chiacchierare da balcone a balcone o, addirittura dal balcone alla strada, si accordano ritornelli di canzoni quando qualcuno lancia il via con una musica e tutti gli altri gli vanno dietro a cantare.

Torna ad essere cosa educata lo scambio, la reciproca attenzione, il racconto delle proprie storie minute dalle ringhiere, e non solo sui social, l’autarchia della distribuzione della corrispondenza, il galateo dello smaltimento dei  rifiuti nei cassonetti.

Oggi a mezzogiorno quando ho sentito una voce d’uomo che superava tutta la distanza del viale per venirmi a trovare, voce subito seguita da una voce femminile, ho pensato, per un momento, di non essere nella mia zona, ma alla Magliana, alla Garbatella, nei palazzi dell’edilizia del ventennio che si trovano  vicino alla fermata della metro a Cornelia, in uno di quei posti, resi sereni dalle persone che ci abitano, dove le mura dei fabbricati circondano e abbracciano slarghi di verde, panchine, fontanili, luoghi della riflessione e dello scambio fra umani.

Mi sono sentita abbracciata, capita grazie ad un inaspettato viaggio, in un luogo diverso da quello finora conosciuto, un luogo che intravedo pieno di speranza e, forse, chissà, di ripartenza.

Elio Pecora
Finalino

L’ebbrezza del finire!
né mai più la fatica:
deserto traversato,
mare lasciato
dalla fiacca scialuppa;

lucentezze, colori
teneri ed abbaglianti
si disfano tremanti;
chiusi, rochi, storditi
gli attimi della gioia;

nemmeno più la noia,
solo un nuovo pensiero:
restarsene in disparte
e dedicarsi all’arte
di non sapersi vili.

Roma, 10 novembre 2019

Eugenia Serafini

#IO STO A CASA

#IO STO A CASA

e la Primavera entra dalla mia finestra

con il suo scoppio di sOle

e l’usignolo che già alle cinque del mattino

cantava nel mio cortile venuto da chissà dove

!

petit rossignol

siamo ancora vivi e abbiamo udito il tuo canto

e ci ha sorpreso

gioiosi e increduli

in questi giorni virulenti dove

non suonano più neanche le campane

ad accompagnare i morti nelle bare

che non bastano

non bastano più

ma la Primavera entra dalla mia finestra

in questo condominio romano

con la sua luce accecante

e le campane di mezzogiorno esultano

ignare e festanti

e mentre qualcuno suona un pianoforte

un violino una tromba

alle 18 si spalancano le finestre e

i balconi e ciascuno canta la sua canzone dissonante

e batte le mani e grida grida

Siamo qui

siamo ancora qui

!

#IO STO A CASA

e la Primavera entra dalla mia finestra

ma la notte avanzano oscuri fantasmi

nel riposo breve che pungola e strappa il sogno

di corpi abbracciati di carezze e baci e fughe nell’eros

Torneremo

usciremo dalle nostre case nelle piazze e

le strade nei vicoli e le spiagge nei sentieri

sulla cima delle montagne

e lo stupore di tanta bellezza

sarà pianto di liberazione

e non chiedermi

Cosa è questo?

Un fiore una nuvola l’ombra di un gabbiano

non so non so

io aspetto aspetto io aspetto

1Nicola Bottiglieri
L’UNITA’ D’ITALIA AL TEMPO DEL CORONAVIRUS

16 Marzo 1861 – 16 Marzo 2020

Nel 1901 nacque a Roma, a pochi metri dalla fontana di Trevi, l’Istituto Geografico De Agostini (trasferito a Novara nel 1908) che ebbe come compito quello di produrre le carte geografiche per tutto il territorio nazionale. Il fondatore di nome Giovanni, fratello di Alberto Maria, esploratore e missionario salesiano nella Terra del Fuoco, ebbe l’intuizione di mettere una carta geografica dell’Italia in ogni aula delle scuole del Regno. Da allora tutti i ragazzi cominciarono a vedere come era fatto il loro Paese, dove si trovasse la capitale, quante erano le regioni, le città, i confini a nord, a sud, est, ovest. Il profilo dello stivale appeso alle pareti si riempì di immagini quando in ogni casa cominciarono ad arrivare le cartoline illustrate prodotte dai Fratelli Alinari di Firenze che riportavano paesaggi, monumenti, piazze e costumi del “Bel Paese”. Da un lato la foto in bianco e nero, più spesso lucida e colorata, dall’altro l’indirizzo, il francobollo e lo spazio per i saluti, che non dovevano superare le sei parole. Le carte geografiche e le cartoline contribuirono a formare per molti decenni l’immaginario patriottico nazionale, prima dell’avvento della televisione che scombinò ogni cosa.

Centocinquantanove anni dopo, il primo ministro Giuseppe Conte, il ministro della Sanità Alberto Speranza e il Capo del Dipartimento della Protezione Civile Angelo Borrelli, insieme ad un gruppo di esperti, hanno disegnato una nuova carta geografica del Paese. Dal 10 marzo di quest’anno ogni italiano ha una patria casalinga con capitale la stanza da letto; come regioni la stanza da pranzo, il tinello con la televisione, la cucina, lo studio, l’anticamera; come province i mobili, tavoli, sedie, poltrone, armadi, pensili e comodini, mentre le città sono le stoviglie, i paralumi, i mobiletti dei giornali, i tappeti, i quadri ed i vasi per i fiori. I mari saranno i corridoi della casa, le Alpi la porta di casa. La scarpiera sarà l’enclave sul balcone, equivalente a Campione d’Italia che si trova in territorio svizzero.

Si possono varcare le frontiere di questa patria personale con una auto-certificazione, e solo per recarsi in territori sconosciuti: a nord il panettiere, a sud la farmacia, ad est il supermercato, ad ovest l’edicola dei giornali. E fra i quattro punti cardinali l’elettricista, il tabaccaio, la toilette per i cani e le ricariche telefoniche, ma solo una volta a settimana.

Il ruolo dei fratelli Alinari, che riempirono di sogni, viaggi e saluti le antiche famiglie, oggi è svolto dalle cartoline virtuali di facebook che provengono dai 25 monumenti della nostra amicizia: si tratta di foto di torte fatte in casa, zeppole con crema, italiani ai balconi che battono le mani, copertina di libri mai letti, cani di strada, striscioni con scritta “andrà tutto bene”, a cui seguono altri che dicono “andrà tutto a puttane”, cuoricini tricolori sotto “ci abbracceremo presto mamma e papà” , faccine, sticker, selfie ed altro ciarpame virtuale buttato alla rinfusa nella sacca del mio IPhone 6, giù usato da mia figlia prima che lei comprasse IPhone 11.

Niente da dire sulla televisione che da quando è nata, impasta da sempre vizi e virtù degli italiani.

A sera, con le braccia e le gambe aperte come l’uomo di Leonardo disegnato sulla moneta da un euro, nudo, nel mio letto quadrato, circondato dal circolo dei divieti che mi sono stati imposti dalla legge, immagino la ninfa Europa sul dorso del dio Zeus trasformato in toro. Il mito greco racconta che dopo il rapimento l’animale furente si diresse verso la Grecia e l’Italia, però prima di addormentarmi, penso che oggi il toro fuggirebbe verso oriente, verso la Cina, esattamente a Wuhan, la regione dove da ieri è scomparso il coronavirus.

Roma 20.3. 2020

Franco Buffoni
COMETA

E passerà pure la cometa

In questa invero poco lieta

Congiunzione astrale. Viene a trovarci

Ogni cinquemilaquattrocento anni,

L’abbiamo battezzata C/2019 Y4.

L’ultima volta ci vide nelle grotte

Rudi e vigorosi

Intenti a rupestri incisioni

Atte a propiziare la cattura dei bisonti,

Oggi ci rivede casalinghi

Intenti a guardinghe incursioni sottocasa

Per procurarci pane e latte.

Nel frattempo lei ha sviluppato una chioma

E una coda di ioni. Noi pochi anticorpi

Ma in compenso

Molti coglioni antivax.

Gabriele Ottaviani
IL TEMPO AL TEMPO DEL CORONA

Se c’è una cosa che odio è non avere nulla da fare. Ho l’horror vacui come i longobardi che non lasciavano nemmeno un angolo di un altare senza un bassorilievo. Il mio astrologo di fiducia forse direbbe che è perché sono Gemelli ascendente Ariete. Se è per questo ho anche la Luna in Acquario, Mercurio in Gemelli, Venere in Toro, Marte in Gemelli, Giove in Acquario, Saturno in Scorpione, Urano in Sagittario, Nettuno in Capricorno, Plutone in Scorpione, Cerere in Gemelli, Giunone in Vergine e Vesta in Bilancia, per non parlare di case, congiunzioni, opposizioni, trigoni, sestili, rave, fave, varie ed eventuali come sull’ordine del giorno della riunione di condominio: vuol dire qualcosa? Ah, boh… Io ho sempre qualcosa da fare. Se non ce l’ho me la invento. Ho la sindrome del border collie. Mi viene l’angoscia se ho messo a posto tutto il gregge, e allora comincio a mettere a posto me stesso. Stamattina ho pulito tutti i lampadari, per dire. Ho corretto compiti di geometria, aritmetica, algebra, spagnolo, inglese, latino e greco. Ho fatto ginnastica. Ho cucinato. Ho bevuto il quotidiano numero imprecisato a due cifre di tazze di caffè (una mug, riempita di volta in volta col contenuto di una moka da due e tanta acqua fredda fino a raggiungere l’orlo, ché altrimenti dovrei aspettare per bere e nel frattempo diverrei preda di un’ira funesta, e non ho neanche a portata di mano qualche acheo cui addurre infiniti lutti per sfogarmi…). Ho buttato l’immondizia. Sono uscito per fare delle commissioni. Pochi minuti. I miei sono diversamente giovani, non voglio che rischino. Certo, non è facile tenerli a casa, giustamente si intristiscono, e legarli alla sedia come l’Alfieri pare brutto. Mamma ha da fare con zia, che non sta bene, e papà passeggia sul terrazzo condominiale (il nostro balcone è piccolo, la veranda pure). A breve ci farà i solchi come zio Paperone nel deposito, è certo. Mi sono messo la mascherina, che per un allergico che se solo vede un polline va in apnea come Enzo Maiorca è comunque cosa buona e giusta, mio dovere e fonte di salvezza, anche se fa appannare gli occhiali, e sono andato in banca e alla posta. Sono tornato a casa. Non sono più uscito. Mi sono goduto dal balcone e dalla finestra della camera il sole. In questi giorni ha cura di splendere più che mai. Il cielo è terso. Il clima è mite. Nontiscordardime, pratoline, malve e tarassachi punteggiano d’altri colori il verde dei pezzi d’erba, come variazioni su di uno stesso tema. Poi ho continuato a lavorare. Al computer. Ma la cosa paradossale di questi giorni è che, nonostante abbia tutto il tempo del mondo, in realtà ne ho meno. Rendo di meno. Che è ciò che detesto persino più del non aver niente da fare, perché così mi sembra, questo tempo prezioso che mi è donato, di sprecarlo. E io sono quello che mangia anche il cibo scaduto e quello che lasciano gli altri nei piatti, dopo averli naturalmente rimproverati e aver detto loro che sono degli ingrati senza decenza né vergogna che non pensano ai bambini che muoiono di fame, tanto aborro gli sprechi. Eppure, spreco tempo. È che io so lavorare solo sulle forze, con la fretta addosso, col tempo contro, più sono impegnato più mi impegno, la pace mi avvilisce, soprattutto questa pace irreale, questa pace che sa di morte, di terreni che sembrano cavi al piè sonante. Intendiamoci, non mi lamento, sarebbe abominevole e mi meriterei il peggio del mondo se solo ci pensassi, visto che non ne ho motivo, non mancandomi nulla, e anche parlare di privazioni o sacrifici è semplicemente assurdo; inoltre non sono nemmeno in ansia, anche perché l’ansia non serve a niente, non è produttiva, non si è scoperta la doppia elica del DNA o la relatività grazie all’ansia, anzi. Però… Però ci sono quei tre, quattro, cinque minuti al giorno in cui mi preoccupo, e mi rovinano tutte le altre ore, eccetto, quelle, pochissime, che dormo, di un sonno però profondissimo, che mi ristora come un letargo: temo per il futuro, per eventuali ristrettezze economiche, temo per la salute dei miei cari, per colpa di questo virus che inizialmente non mi era parso potesse essere più pericoloso di una normale influenza (poi però per capirci meglio ho telefonato a tutti i miei amici medici, e sapendo che sono persone niente affatto enfatiche, quando ho sentito i loro racconti, perfettamente concordi nonostante nessuno di loro conosca nessuno degli altri, ho alzato la guardia) e che potrebbe toglierci tempo per stare insieme, ma soprattutto temo, e tremo, per un motivo specifico. Ho paura che quando tutto questo sarà passato, perché passerà, non saremo migliori. Non sarò migliore. Non avrò rimesso per sempre nel giusto e immutabile ordine le priorità. Non sarò più comprensivo, sensibile, disponibile, umano. Non avrò più voglia di abbracciare le persone che amo, e che vorrei mi amassero quanto le amo io, fino a perdermi nel loro odore. Perché siccome ci si abitua a tutto, dopo un po’, ho il terrore di essermi abituato alla distanza. Al distacco. Non ho mai sperato così tanto in tutta la vita di sbagliarmi. Andrà tutto bene.

Giovanni Antonucci
Restare vivi

Restare vivi

anche sapendo

di poter morire.

Restare vivi

anche sapendo

che la nuda terra

ci aspetta.

Restare vivi

sapendo

che la vita

e la morte

sono un sogno.

Mimmo Frassineti

Una musa ha bussato alla mia porta

Non sono prolifico. Mi autoassolvo, definendomi scrittore ispirato: scrivo soltanto se una musa bussa alla mia porta, evento raro. Ma stamattina, è accaduto, e non per modo di dire.

« Sono una musa.» Ha detto la voce al citofono. Ho pensato di non avere capito bene ma, ad ogni modo, ho aperto. La ragazza indossava una mascherina, come quelle che ormai si vedono ovunque, e una tunica bianca, piuttosto elegante, stretta in vita da una cintura. Ho fatto un passo indietro, per invitarla a entrare.

«Mi chiamo Sirmilla, e sono una musa.» si è presentata.

«mmm… aspetta un momento»

Avendo il computer a portata di mano, ho digitato “le nove muse”.

«Allora… qui dice che le muse si chiamano Calliope, Euterpe, Polinnia, Clio, Erato, Tersicore, Talia, Urania e Melpomene. Non c’è nessuna Sirmilla!»

«Perché, tu credevi che venisse una di loro?»

«Beh…io…»

«Ma ti rendi conto di quanti siete a scrivere poesie, romanzi e roba del genere? E siete pronti a pubblicare qualsiasi cosa. Pensi che da sole possano occuparsi di tutta questa gente?»

«E dunque cosa fanno?»

«Vanno da quelli che contano! Si muovono quando ne vale realmente la pena.»

«E come lo stabiliscono se ne vale la realmente pena? Quale sarebbe il criterio?»

«Io ancora molte cose non le so. Ma credo… ho sentito parlare di duecentomila copie.»

Restiamo per un po’ a fissarci in silenzio, io seduto davanti al computer, Sirmilla sul divano.

«Quella mascherina potresti anche togliertela, visto che siamo a quattro metri. Io poi mi sento benissimo!»

Lei se la sfila. E’ una ragazza davvero carina, se non altro.

«Guarda che l’ho messa per non allarmarti. Noi siamo immuni, come puoi immaginare.»

«Ecco, ma voi chi siete, tu chi sei esattamente? Sei una musa o no?»

«In realtà sono una musa stagista. Per diventare professionista ci manca ancora. Siamo in parecchie nel corso.»

«L’ispirazione. Questo fanno le muse.»

«Sì… In realtà ci mandano da quelli come te a fare pratica.»

Torna il silenzio, lei sembra a disagio. Io ho il morale sotto le scarpe, ma mi sforzo di essere positivo.

«D’accordo, sei qui per fare esperienza, dunque tentiamo! Prova a darmi uno spunto, una vaga intuizione, un abbozzo di idea!»

Lei sembra esitare, poi si concentra, prende coraggio.

«Che ne diresti di un eroe che, dopo avere espugnato una città, affronta un lungo viaggio in mare per tornare in patria, che sarebbe un’isola, dove la moglie è insidiata da certi brutti tipi…»

«Senti, facciamo così, lasciamo andare. Dimmi piuttosto dell’Elicona, della sua limpida sorgente, dei suoi fiumi di acqua ispiratrice!»

«Io veramente sono di Patrasso.»

Non troviamo altri argomenti. E’ l’ora di salutarci. Accompagno Sirmilla alla porta.

«Forse non ti sono stato molto utile.»

«Al contrario! Ti ringrazio molto, scappo perché devo vedere altri due.»

«Magari fatti viva, una volta, quando sarai diventata una musa importante!» le grido mentre sta già scendendo le scale.

Lei si gira sorridendo, almeno mi è parso, dietro la mascherina.

Gianna Franceschelli
Riflessioni di una maestra

Nel mese di marzo 2020 (anno bisestile) è successo qualcosa di sconvolgente nel senso negativo del termine, un vero e proprio tsunami per tutte le famiglie del mondo: il Covid 19 o più comunemente Coronavirus.

Tutti i settori sono stati coinvolti, tutto chiuso e tutti “segregati in casa”.

Ho provato una sensazione orrenda perché ho percepito sulla mia pelle un’oppressione infinita, lunga e non risolvibile.

Ho sentito dire tante banalità in questo periodo del tipo: “Anno bisesto anno funesto!” oppure “Dio ci sta punendo con il Coronavirus!” e tanto altro…

Le televisioni, i giornali e le radio ci bombardano con i loro spot a getto continuo del tipo “Restate a casa”.

Anche la pubblicità è cambiata: si vedono in modo marcato le réclame che pubblicizzano i prodotti igienizzanti. Per non parlare poi delle mani: “Lava spesso le mani”.

Mi viene da sorridere perché ho sempre detto ai miei figli quando rientravano a casa “Lavatevi le mani” con tono perentorio. E loro mi sorridevano dandomi una pacca sulla spalla.

Applausi per medici, infermieri e tutto il personale sanitario, virologi, infettivologi, personale della protezione civile eccetera. E la scuola? Io sono un’insegnante, è il mio ultimo anno! Andrò in pensione dal primo settembre 2020 senza usufruire di scorciatoie: mi mandano a casa per età…

Che brutta cosa, io non ho mai accettato la vecchiaia. Adesso con il Coronavirus spero di diventare “diversamente anziana” e forse vorrei diventare anche nonna! Chissà se accadrà!? Dipende dai miei figli.

So usare il computer per cose semplici e necessarie per la scuola. Di colpo sono nate le piattaforme come funghi e nel giro di pochissimi giorni siamo passati dalla lavagna di ardesia alla Classroom dove si realizzano lezioni a distanza.

Io amo tantissimo il mio lavoro e sono anche mediamente soddisfatta per tutto ciò che riesco ad elaborare per i miei alunni. Ma non è la stessa cosa! Sarà anche necessario, utile per loro, però l’espressione dei loro occhi e la mimica facciale, che ogni insegnate coglie, non esistono più. E’ stato tutto cancellato velocemente.

Gino Rago (Giorgio Linguaglossa)
Poesia all’Epoca del Covid-19

Ulisse? Un bugiardo inglese

Una vita di seta gialla, un abito con crinolina color lilla.
Un cappellino, una rosa nei capelli.

Con un’amica al Caffè Tommaseo.
Sotto i portici un uomo, forse l’ombrellaio delle favole.

La testa fra le mani, legge un libro di Joyce,
non si accorge neppure chi gli siede accanto.

È la donna della sua vita, ma lui non lo sa, esce dal caffè
e viene inviato sul fronte occidentale, sulle Ardenne.

Lascerà Trieste, andrà a Parigi, dipingerà.
È innamorato della danzatrice francese, ma lei non lo sa.

Ma Achamoth gioca con gli scacchi. Invia una lettera a Marie Laure,
C’è scritto: «Guardati dalle idi di marzo».

E la Colasson parte per Roma. Abita sopra la statua di Giordano Bruno.
Poi Madame Tedio, il tempo, sbroglia le carte,

Si pente e torna indietro.
Sul molo Audace i bersaglieri con le piume al vento.

D’Annunzio inneggia alla guerra.
[…]
Von Karajan al Bolshoj dirige un’orchestra di piatti e di posate.
C’è il mago Woland che dirige l’orchestra, ma lui non lo sa.

La Signora Schmitz s’è invaghita del musicista,
ma neanche lei lo sa. Scoppia la Grande guerra. Joseph è un pacifista,

Scrive un biglietto a Madame Schmitz: «Non sparerò un colpo»,
e invece gli sparano un colpo al cuore, e muore disperato.

Alla biblioteca civica in Piazza Hortis
Svevo scrive La coscienza di Zeno.
[…]
Il Signor L. tiene una conferenza sull’Odissea,
alla Berlitz School.

«Ulisse? Un bugiardo inglese».

Giorgio Biferali
Racconto sulla quarantena

Che giorno è oggi? Sono io che lo chiedo a me stesso, anche perché gli altri non li vedo da un po’. So che c’è il sole, fuori, che la primavera è appena arrivata, e io la guardo da qui, e spero tanto che mi aspetti, che non se ne vada prima che finisca l’isolamento. Nei palazzi intorno a quello in cui mi trovo io, c’è chi corre avanti e indietro, chi prende il sole, chi appende bandiere tricolori e si mette la mano sul petto ogni giorno, alle 18, quando parte l’inno. Ecco, l’inno, posso dire finalmente di averlo imparato a memoria. Il mondo di fuori è come un enorme jukebox che ogni giorno, alla stessa ora, fa suonare sempre le stesse canzoni. Altro che routine, questa è un’altra storia, che non finirà in un romanzo, una storia di quelle da dimenticare, almeno per me, che si sedimentano nel fondo di ognuno di noi, che si aggiungono al nostro vocabolario privato, personale, alla voce “solitudine”. I libri che non ho ancora letto, i film che non ho ancora visto, gli spazi della casa che non ho mai frequentato, sono lì che mi aspettano. Ma faccio fatica a leggere, mi distraggo mentre guardo un film o una serie di quelle con gli episodi che durano al massimo venticinque minuti, ripenso alla mia vita di prima, così, per non dimenticarla. Accendo la tv e vedo sempre le stesse persone che parlano, sempre le stesse strisce, con gli stessi titoli, cose come oggi è peggio di ieri ma tranquilli, andrà tutto bene. Si chiama pulsione di morte, credo, qui a Roma, più semplicemente, mi direbbero che sono io che me la vado a cercare. E forse è così. Il tempo passa, e io continuo a sentire che non mi appartiene, che non appartiene a nessuno di noi. È un tempo imposto, sospeso, una piccola pausa dalla vita. Il segreto, penso, potrebbe nascondersi proprio qui, in questa pausa, nel profondo senso di attesa che comporta. Sarà bello tornare, rivedersi, mescolarsi, respirarsi, viversi, di nuovo. Mi manca tutto. L’importante, allora, è ricordarsi che giorno è oggi, che giorno è domani, chi eravamo, chi siamo, e cosa facevamo prima. Per tornare ad avere fiducia nella gente, come nel finale di quel film, per non abituarci mai a sentirci così soli.

Giulia Morgani
DIARIO IN CORONAVIRUS 2

GIORNO 5

Ho bisogno di aria fresca. Il bisogno sembra essere più impellente da quando ho letto che fino a ieri era permesso passeggiare nel parco, da oggi non sarà più possibile. Ho perso un’occasione. Ci toglieranno tutto, tra poco anche il cibo. Accompagnata da questo pensiero che per ora sa ancora troppo di distopia, mi metto in fila per entrare al supermercato. Non si sa ancora bene come comportarci, certi si tengono a un metro di distanza da chi lo precede, altri a quattro, tutti si mettono la mascherina appena vedono la fila di umani, nessuno ha voglia di parlare. Neanche io. Non ho voglia neanche di inviare messaggi vocali, né di ascoltarli. La solitudine mi ha già sedotta. Partecipo però con entusiasmo al primo flash-mob da isolati. Come comanda il messaggio di whatsapp alcuni nel mio cortile interno, pochi per la verità, intonano l’inno d’Italia. Gli vado dietro, mi fa felice, una felicità quasi adrenalinica sentire che faccio parte di qualcosa, voglio bene a questi sconosciuti fino alla commozione, ma è il massimo della socialità che posso sopportare. Misuro la febbre. Sono 5 giorni che nel pomeriggio mi sale, di qualche grado, condizione sufficiente a farmi temere di essere infetta. Ciò che temo è di aver contagiato gli amici prima che venissero prese le misure di contenimento, di finire in un letto di ospedale, mi gira la testa e il mio battito cardiaco aumenta almeno fino a mezzanotte, quando la temperatura scende e mi convinco che non sia niente.

GIORNO 6

Resto a letto a guardare video dei flash-mob di ieri, sui gruppi whatsapp. Circolano anche parecchi video di gente che fa la spesa, cose normali che diventano eccezionali, persone ferme sulle mattonelle evidenziate dal nastro adesivo che indicano la distanza da tenere, tutti con il volto coperto dalle mascherine, le persone hanno perso la faccia. Mi tengo stretta lo stupore che ancora spinge a filmare e a guardare queste scene, sarà terrificante quando reputeremo tutto questo normale e purtroppo quel momento arriverà presto. Ci aspettano 3 settimane di questa vita, se tutto riuscirà a risolversi, ma il mondo non si ricorderà quello che era, qualcosa inevitabilmente andrà perso.

Mi sento meglio rispetto a ieri sera, sono ancora a letto perché stanotte mi sono svegliata e, angosciata da chissà quale aspetto di un sogno che spaventoso non era, sono rimasta sveglia per un po’. Ma non è stato solo il sogno a impedirmi di riprendere sonno. Appena ho aperto gli occhi ho sentito un rumore, dei colpi cadenzati, mi sono alzata e ho aperto la finestra, fuori tutto era silenzio. Il rumore dentro c’era ancora. Ho controllato che non fosse il mio cuore ma il ritmo lento, che dava al suono un che di ieratico, avrebbe già dovuto spingermi a escluderlo Mi sono ingannata avvolgendomi il cuscino intorno alla testa e immaginando il lieve russare di qualcuno accanto a me.

Mentre salgo sul terrazzo condominiale per prendere un po’ d’aria e ammirare la città deserta rifletto sulla notizia dell’Inghilterra che dichiara che non si fermerà e prepara la gente a perdere i propri cari perché solo convivendo con il virus potranno sviluppare gli anticorpi. Quanto basta per farci accettare di buongrado la prigionia che è stata imposta a noi.

Alle 21 parte il secondo flash-mob, tutti alle finestre con candele o torce dei cellulari accese. Non basta a trasformare il quadrilatero di palazzi del mio cortile interno che ora con la gente alle finestre sembra sempre più un carcere.

Mi addormento tardi, con un messaggio vocale che allerta tutti a lasciare fuori casa le scarpe. Pare che il virus resista sull’asfalto per 9 giorni. Mi rassegno all’idea che presto saremo tutti infetti e che esserlo non è una colpa. Sono fresca, non ho più febbre.

GIORNO 7

Una settimana fa, ma sembra che sia passato un mese, a quest’ora ero in giro, stavo comprando delle cose dopo aver visto un amico e mai avrei immaginato che il giorno successivo non avrei più potuto fare niente del genere. E’ tempo di festeggiare questa triste ricorrenza.

Dal cortile interno sento scontrarsi le grida di un uomo e di una donna. Riesco solo a distinguere la parola “emergenza”. Dalla parte opposta del cortile, in un altro palazzo, in un’altra strada, le urla di donna contro chissà chi.

GIORNO 8

Il mio raffreddore peggiora ma i casi là fuori diminuiscono. “Se continua così per maggio ne saremo fuori!” urlano sul web. Siamo a marzo.

Le giornate, comunque, passano in fretta. Ieri ho spento il cervello giocando alla play station, stamattina mi sono lanciata alla spasmodica ricerca di libri a quanto pare reperibili solo in ebook. Giammai, piuttosto aspetto che riaprano le librerie, mi sono detta, punita immediatamente per la mia cocciutaggine dalla curiosità insoddisfatta.

Non metto piede fuori casa da 2 giorni, oggi devo uscire per buttare la spazzatura. Mi sembra quasi un premio.

GIORNO 11

Un mondo di serrande chiuse, di file immobili davanti al supermercato di una nuova specie: gente senza bocca, volti senza sorriso. La mascherina ci fa sembrare inespressivi, siamo senza faccia ma, chiusi nelle nostre case, ci sbellichiamo con faccine che piangono dal ridere sui gruppi whatsapp, ostentiamo felicità virtuale e non parliamo mai di quanto siamo terrorizzati. Oggi uno in fila aveva la maschera antigas. Mi sono sentita svenire, non riuscivo più a respirare. Chissà se qualcuno mi avrebbe raccolto da terra. Mi sento in trappola, senza via di fuga e nessuno può aiutarmi. La sola sono io e il solo aiuto che posso darmi è stare calma. Non pensare che andrà avanti fino a Pasqua. Non pensare. Andare avanti e aspettare di vivere. Un giorno alla volta.

Il corteo di camion militari che trasportano cadaveri è una realtà.

I morti sono tanti, i guariti pure.

La pizza margherita è bandita dai forni e per qualche ragione che mi sfugge non si possono comprare i quaderni.

In alcune regioni l’esercito è in strada a controllare che chi è fuori casa lo sia per un motivo valido. Motivo che autocertifichiamo compilando un foglio che dobbiamo portare con noi. Diamo il permesso a noi stessi per uscire di casa. E ogni giorno questo foglio cambia, si aggiungono nuove clausole, nuove restrizioni. Stasera è previsto un nuovo decreto che ci toglierà ancora una volta qualcosa. Attendiamo rimpiangendo già l’oggi.

Giuseppe Cerasari*
Riflessioni: il tempo e il coronavirus

Che cos’è il tempo? E’ per l’uomo di oggi una domanda complessa a cui non sa dare una risposta precisa. I filosofi del passato hanno sostenuto che il tempo non esiste. E’un’illusione, un luogo comune sia dal punto di vista filosofico che religioso. Dal mio punto di vista è il bene più prezioso che abbiamo. E’ la ricchezza in senso assoluto. La ricchezza è infatti la disponibilità del tempo. Piu tempo abbiamo a disposizione per noi e più siamo ricchi. Più siamo ricchi più abbiamo disponibilità di tempo.
Ma cosa c’entra il coronavirus? L’epidemia di cui è responsabile questo virus, ha determinato la sospensione di un gran numero di attività. Sono state chiuse scuole, teatri, sospese manifestazioni. Ma anche noi non ci sentiamo più sicuri, evitiamo spazi pubblici, luoghi affollati perfino i ristoranti. Questa situazione però non è del tutto negativa. Abbiamo più tempo da dedicare a noi stessi, ci consente di riflettere sui vari aspetti della vita, sul suo significato più intrinseco, Riflessioni che non potevamo fare, che avevamo trascurato in nome del progresso, della tecnologia. Dobbiamo allora riflettere sui nostri obiettivi, qual è la meta da raggiungere, cosa dobbiamo diventare. E l’opportunità ce la sta offrendo in maniera indiretta il coronavirus offrendoci l’occasione del riscatto, di riappropriarci cioè del “nostro tempo”, della possibilità di pensare e riflettere ed in ultima analisi di conquistare la nostra indipendenza di pensiero.

* già dirigente responsabile per la terapia dell’ Hiv presso l’osp. Spallanzani

LUIGI MANZI
OMISSIS

Resto in attesa, di che cosa non so. Può accadere che il primo passante cerchi un luogo, un rifugio. I miei occhi si muovono senza che io abbia dato loro l’impulso. Può essere che io ruoti intorno a me stesso; o che io ruoti intorno a loro. Forse sono un fromboliere che agita in cerchio la corda per scagliare la pietra nell’aria e colpire il bersaglio. O sono i pensieri che rimbalzano sopra una paratoia metallica e tornano indietro. Cercano un rifugio sicuro. Per fuggire da chi? E perché? Oggi è giorno di penitenza, i pellegrini avanzano in corteo sui ginocchi, come se avessero le gambe amputate. Amputate da chi? E perché? […] Mi muovo intorno a me stesso, faccio un giro sull’apice del piede sinistro e ritorno al punto di inizio. Eppure tutto è già diverso. Non c’è orizzonte o riferimento al quale affidarmi. La nebbia coagula in sfere di ghiaccio, senza attraversare la fase liquida. Attraversare la fase liquida. Che senso ha? Potrei essere in esilio da sempre sopra una roccia e non essermi accorto. O semmai essere io la roccia. Magari lo fossi. Molle invece, simile a un polpo, diafano come una medusa. Potrei avvolgermi a un braccio e poi di nuovo ritornare me stesso. Questo è il punto: molle. Qui dove mi trovo, anche i marmi sono mollicci, anche le unghie. Ho bisogno di respirare, di riprendere lena. Perché? Ne ho bisogno, eppure non so. Tutto intorno è molle, se punto il piede sprofondo. Mi agito, provo a risalire. Per fortuna la gola è un budello a forma di imbuto. Respiro ancora, non sono qui, non è vero. Sono altrove. In frammenti […]. Che senso ha? Che senso ha ritrovarmi integro, oggi che persino i battitori di moneta sono stanchi e assetati, si nettano il petto e la fronte. Torneranno presto al lavoro, fra tenaglie e fuochi d’inferno. Dunque, io sono con loro. O io sono loro. Non so, né posso chiederlo. Tutto intorno è desolazione, desolazione e rovine. Può darsi che abbia ragione, ma a chi affidarmi? Chi potrebbe darmi ragione se tutti sono dispersi. E se anche gridassi, risponderebbe un’eco distorta che mi colpirebbe alle spalle. Vietato osservarsi. Vietato guardarsi alle spalle. Sopraggiunge un sospiro, un respiro che soffia alle costole. Guai a voltarsi […]. Sono solo. Non c’è orizzonte, né pietra miliare. Posso provare a chiedere. Ma a chi? Il fabbro è impegnato col forcipe a forgiare lame sul maglio. E poi, neppure esiste. Insomma, sono solo me stesso. Che noia, che angoscia. Vorrei essere un altro e altrove. Provo a guardarmi negli occhi, eppure non posso. Intorno c’è nebbia, una nebbia che coagula. Floccula. Sento i rintocchi nell’acqua. Ma non vedo […]. Anche il maggiordomo è impegnato, stringe il nodo scorsoio al faccendiere che torna al lavoro, gli porge la chiave. Torna in sede, la borsa sale, la borsa scende. La borsa sale, la borsa scende. Fingo di essere io il denaro. O un lingotto. Mi passerebbe accanto distratto, senza voltarsi? O invece m’accarezzerebbe la schiena per accompagnarmi al lavoro? Non ho voglia di andare: qui sono nato e qui intendo restare; se solo potessi. Se almeno fossi un suo pari, allora gli porgerei il braccio, però lui è già oltre, è scomparso. Fossi seppure una blatta, ma un uomo ahimè no, un uomo senza pelurie che senso ha? E perché generare, con tanto di cedole e dividendi […]. Abbiamo bisogno di essere oscuri dentro una fetta di oscurità: la nostra, densa e inderogabile. Gli altri ci passano accanto, ci sorpassano, sembrano un artifizio. Neppure esistono. Non hanno alcuna ragione di esistere. I pensieri ci soffiano in bocca, sono i resti di un accigliato demiurgo che un giorno lontano ebbe l’idea di insufflarci il suo fiato. Per caso. E che ha ottenuto? Un impasto azzimo. Magari fosse così. Dalle fauci fuoriesce metallo prezioso e il magma scorre, denso e rovente, colore di porpora […]. Il macchinista ha smarrito la strada, non segue neanche i binari, va verso un punto lontano che non esiste. Non è in grado di darmi un passaggio. Lo cerca lui stesso, per questo chiede. Chiede e chiede. Ma a chi, se neanche lui esiste. Ci vorrebbe un nuovo demiurgo. L’altro è impegnato, s’affaccia dall’alto mentre si pettina; ci osserva là in basso, si scrolla di dosso una polvere fina che scende oscillando in controluce. Una polvere fragile. Siamo ambigui, servi di chi ci precede. Verrà un giorno; nel frattempo siamo su un nastro in torsione che si ricongiunge a se stesso, senza direzione né limite. Dunque, rifletto: non c’è termine, soltanto un perpetuo ritorno […]. Ero povero, vivevo dentro una misera casa, da adolescente fui relegato in cima a un monte. Lassù altri mi confinarono altrove. Vivevo in esilio sopra il riquadro di una maiolica, potevo fissare appena un’icona e cadere in trance. Ore e ore. Ero povero. Vestivo di panni poveri. Solo un passero, all’alba, veniva a piluccarmi il viso, piluccava la mano, la linea del cuore, della mente, della vita; lasciava intatta la linea del destino […]. Resto in attesa, di che cosa non so. Può accadere che il primo passante cerchi un luogo, un rifugio. I miei occhi si muovono senza che io abbia dato l’impulso. Può essere che io ruoti intorno a me stesso; o che io ruoti intorno a loro. Forse sono un fromboliere che agita in cerchio la corda per scagliare la pietra nell’aria e colpire il bersaglio. O sono i pensieri che rimbalzano sopra una paratoia metallica e tornano indietro. Cercano un rifugio sicuro. Per fuggire da chi? E perché? Oggi è giorno di penitenza, i pellegrini avanzano in corteo sui ginocchi, come se avessero le gambe amputate. Amputate da chi? E perché?

Roma 20.3.2020

Helene Paraskeva
DIARIO NEI TEMPI DI CORONA VIRUS

Caro Diario, oggi, Lunedì 9 Marzo 2020, ho fatto le seguenti considerazioni:

Ho vissuto un colpo di stato e sette anni di dittatura dei Colonnelli;

Ho vissuto l’invasione di Cipro dai Turchi e l’occupazione di una parte dell’isola seguita da una guerra istantanea ma tragica, in cui i greci che hanno combattuto non esistono nemmeno come morti.

Sono immigrata in Italia. Anche questo non è da poco.

Ho vissuto nei tempi della strategia della tensione e del terrorismo;

Tornando indietro e senza sentimentalismi, quando avevo 12 anni mio padre è morto in un incidente sul lavoro.

Ho vissuto anche due terremoti forti.

Ma il fenomeno dell’epidemia-pandemia l’ho sempre considerato roba appartenente al medioevo o alla letteratura, come in Camus, Manzoni, Ionesco ecc.

Adesso, questa epidemia-pandemia mi ricorda tutte le esperienze traumatiche che ho elencato e vissuto fino ad ora. A queste memorie traumatiche si aggiunge il mistero delle cause, il repentino cambiamento da parte dell’autorità delle stime riguardanti la gravità dell’epidemia, l’incoerenza delle istruzioni e colui che le impartisce. E poi il numero di morti, in continua crescita, che fa un brutto effetto e dà un senso d’impotenza.

*

CaroDiario, oggi, Martedì 10 Marzo 2020, comincio a elaborare la mia teoria personale. Naturalmente, se ti sembra ridicola, puoi ridere liberamente. Utilizzo il metodo maieutico e tu, Carodiario, sei pregato di rispondere.

Allora, dimmi! Ma l’epidemia è partita dalla Cina, vero?

E ti ricordi, Carodiario, che prima dell’epidemia, i cittadini di Hong Kong protestavano anche violentemente contro il Governo cinese chiedendo la non abolizione dei diritti civili? Te lo ricordi, vero? All’inizio c’erano solo gli studenti e poi tutti i cittadini di Hong Kong si erano uniti alle proteste e sono avvenuti tanti scontri violenti con la polizia. Te lo ricordi, no?

Adesso dimmi, Carodiario, chi è rimasto a protestare? Chi ci pensa più ai diritti? Rispondi.

Ho deciso di chiamarti Carodiario, tutto attaccato. “Caro diario” non è un nome. Carodiario, invece, sì.

*

Lara Di Carlo

Al di là di ogni barriera

Ci aggiravamo increduli nelle nostre case in un tempo surreale, sospeso tra l’angoscia e l’inedia. Fuori era la morte o forse il carcere.

Ma dentro a un tratto il mondo reagì. Stava per rinascere dalle sue ceneri. Arte, suoni, condivisione al di là di ogni barriera.

Laura Di Gregorio
Martedì 17 Marzo.
Un compleanno ai tempi della quarantena

Sono le 3 ed io non riesco a dormire; in quarantena si ribaltano pure i ritmi circadiani, tanto vale assecondarli e approfittare della veglia notturna per scrivermi una lettera. Oggi è il mio compleanno ed i miei piani erano ben altri; niente di speciale anche se ora il concetto di “speciale” ha tutto un altro significato perché un cinema, una cena fuori e una gita al mare nel weekend sono solo una chimera: scopro sempre più che posso fare a meno di tante cose ma non del mare, il mio mare…chissà quando potrò riabbracciare anche te!

La tentazione di deprimersi è forte se sai che tuo marito non potrà essere con te quando spegnerai le candeline da tua mamma e se sai che dovrai tenerti a distanza da lei quando d’istinto vorrà stringersi a te. Suona come una punizione, un compleanno senza risate e regali, ma non lo è perché oggi c’è più amore che mai nella rinuncia, nella pazienza, nella prudenza, nella perseveranza…Nella distanza, siamo veramente più vicini e per una volta la connessione virtuale è senza dubbio virtuosa: io che credo fermamente nel valore delle parole, sento finalmente risuonare nell’etere solidarietà, responsabilità, comunità ed eroismo. Per lungo tempo, troppo tempo sono state dimenticate dal gergo comune, dal lessico familiare e dal vocabolario della politica. Riscoprirle e vivificarle significa trasformare un evento catastrofico in un ripensamento radicale e complessivo del nostro stare al mondo: quel che non ti uccide, ti porta in salvo…l’ho imparato sulla mia pelle in ogni strettoia dei miei quarantadue anni ma quel che in questi giorni mi sorprende è la coralità della lezione. Dovremmo farne tesoro, dovremo farne tesoro per forza di cose: il destino di tutti dipende da ciascuno di noi, globalmente intesi. Il teorema del Covid 19 lo ha dimostrato in modo tanto impietoso quanto intellegibile. La tesi del teorema spero vivamente non resti soltanto un assioma scientifico ma divenga un paradigma culturale. Perché ciò avvenga, più di ogni altra cosa è necessaria la buona memoria: scongiurare l’emergenza il prima possibile ma non il retaggio del suo ricordo. È prematuro ma guardo più in là di questo tempo immobile e parossistico al contempo perché la lungimiranza ha un enorme potere sulle nostre scelte. Vorrei continuare a credere alla politica del buon padre di famiglia e alla concordia in nome del bene comune; al plebiscito di consensi sulla sanità italiana e alla strenua difesa dei suoi capisaldi; al mutuo soccorso e al proficuo dialogo tanto tra Paesi lontani quanto tra cittadini comuni. Essere parte e partecipi di un cambiamento che solo una pandemia ci ha costretti a fare senza indugio.

Visto che stiamo tutti a casa ed è ormai primavera, facciamo come società civile “Le pulizie di Pasqua”, togliendo di mezzo una volta per tutte individualismi, ideologismi, razzismi e campanillismi di ogni sorta.

Da due giorni orsono, oltre le mura del mio giardino, mi arriva propizia la musica ma sentire alle prime luci dell’alba “Va Pensiero” è davvero il più bel regalo che potessi ricevere!

Che sia di buon auspicio per tutti noi, per la nostra Patria ” sii bella” ma non perduta!

Carlo Bernardi
Diario minimo del coronavirus

Lunedì 16 marzo 2020
Oggi, dopo una settimana di arresti domiciliari causati dal coronavirus, ho deciso di mettere nero su bianco le vicende e le impressioni provate. Questa condizione di domicilio coatto, neanche avessi commesso un delitto, ha determinato ogni attimo delle giornate passate in casa. Non ho ucciso nessuno e neppure il virus che, se lo avessi fatto mi avrebbero dato una medaglia al valore e sarei stato ritenuto un eroe, invece … Molte cose le facevo già, come fare la spesa, cucinare, rifare i letti, pulire la casa, passare l’aspirapolvere e stirare. Pensavo, però, che mi sarebbe stato facile proseguire in queste faccende e continuare a scrivere poesie e altri racconti ma mi sbagliavo. Intanto per fare la spesa ci si deve mettere in coda su lunghe file di gente in attesa per entrare nei supermercati, nelle farmacie, dal giornalaio, dal fruttivendolo, insomma dovunque bisogna comprare qualcosa. Infine mi sono lasciato convincere dalla proposta della consegna della merce a domicilio che in questo periodo viene eseguita gratuitamente. La consegna intendo. Così ho fatto inviando la lista per email, solo che non mi avevano detto, o il problema è sorto dopo, che sarebbero passati almeno quattro giorni prima della consegna e ho rischiato di restare senza cena e senza cibo. E pensare che avevo preso in giro quelli che facevano man bassa di merce e di alimenti come in tempo di guerra. Anche in TV avvertivano che questo modo di fare non sarebbe servito a nulla perché questi esercizi sarebbero rimasti aperti e la merce sarebbe arrivata regolarmente. Tutto vero ma non s’era previsto che per evitare assembramenti e possibili contagi non si sarebbe potuto affollare il supermercato. Ora, per fare la spesa mettendosi in fila occorrono dalle due alle sei ore se tutto va bene. L’ultima novità consisterebbe nell’inviare la lista e ritirare personalmente la merce che in questo caso sarebbe pronta il giorno dopo.

Dopo giorni di iniziative rionali e collettive per cantare e fare musica dai balconi e verificato che avevano fatto presa nelle zone più popolari ma non in quelle centrali della città, e sto parlando di Roma, finalmente ieri anche nel mio quartiere alcuni cantavano e ballavano sui balconi. La cosa che mi ha colpito di più è stata quella di aver visto le persone vicine e anche le più distanti parlare fra loro e scambiarsi pareri e impressioni sul virus e sulla necessità, dapprima vissuta con qualche difficoltà e ora con maggiore abitudine, di restare in casa. Una coppia di sposini ballava e si baciava teneramente. Ho visto che senza il virus neppure gli abitanti dello stesso palazzo avrebbero comunicato come stavano facendo in quel momento tutti quelli affacciati alle finestre. Insomma, eravamo tutti convinti di socializzare e che ci saremmo sentiti penalizzati da queste pesanti restrizioni e invece scopriamo che per socializzare, anche se chiusi in casa, ci voleva il coronavirus.

Martedì 17 marzo 2020

Oggi è l’ottavo giorno di segregazione forzata. Dopo aver fatto colazione e contribuito alle faccende domestiche ho ordinato online al supermercato quanto il ménage richiedeva come frutta, caffè, pane, yogurt e altro. In questo modo, dopo aver telefonato, ho evitato di mettermi in fila andando personalmente a ritirare la merce e al rientro a casa ho pranzato e preparato ogni cosa per la cena. Completate queste operazioni, abbiamo passato il pomeriggio nella lettura del Rinascimento privato della Bellonci. Una rappresentazione storica agli inizi del 1500 che considero eccellente e per me è stata una seconda lettura. Si fa per dire lettura perché ogni cinque minuti squillava il telefono da parte di parenti e amici che sentono un continuo bisogno di comunicare. Poi verso sera ho notato che non c’era nessuno a cantare e fare musica com’era avvenuto la domenica. Evidentemente si sono già stancati e con mio disappunto ho cominciato veramente a sentirmi solo.

Questo mi ha permesso di ricordare episodi del passato e, particolarmente, quello del sequestro di Aldo Moro con tutto quello che ha significato per me e per la politica italiana. Anche quello è stato un evento che ha cambiato la storia dell’Italia come ora il coronavirus sta cambiando e cambierà la nostra vita e forse quella dell’intero pianeta con il suo modo di vivere e di produrre. Ho ricordato anche che oggi ricorre il 159° anniversario dell’Unità d’Italia e la costituzione dello Stato italiano che ha determinato la nostra esistenza senza più essere governati da altri principati e monarchie, cosa che non avveniva dalla caduta dell’impero romano

Era ormai sera quando il coronavirus ha cominciato a intaccare brutalmente la mia esistenza. Non la salute però ma gli equilibri familiari e di coppia, inserendosi come terzo incomodo fastidioso e indesiderato. Insomma il virus si è trasformato in carceriere e ha rischiato di provocare una rottura e una separazione nella coppia che ha resistito amorosamente per ventinove anni. Ci voleva il coronavirus per arrivare a mettere in crisi il mio rapporto pluriennale?

Mercoledì 18 marzo 2020
Il coronavirus stavolta non l’ha spuntata. Ieri non è riuscito a fare danno interrompendo un rapporto d’amore ancora duraturo. Nessuna separazione e nessun divorzio in vista perciò.

La giornata è iniziata come il solito e, dopo una puntata in farmacia, visto che le persone in fila erano poche, sono entrato al supermercato per rinforzare il rifornimento casalingo e comprare qualcosa per il pranzo. Poi abbiamo proseguito nella lettura del Rinascimento privato della Bellonci che, una incipiente raucedine ha reso più difficoltosa e di minore impatto emotivo.

Oggi ho ricordato quando il 18 marzo del 1978, invitato a cena di conoscenti con altre persone, qualcuno espose alla vista dei presenti la prima pagina de’ Il Male che inneggiava al rapimento di Aldo Moro. Ero basito senza sapere cosa dire e, ancor meno, dove mi trovavo. Chi erano quelli che brindavano al rapimento di Moro e all’uccisione degli uomini della sua scorta? Frequentai ancora e saltuariamente quelle persone per cercare di capire se si trattava di fiancheggiatori o di semplici simpatizzanti delle Brigate Rosse con lo scopo di sporgere denuncia nel caso avessi scoperto un loro coinvolgimento nelle organizzazioni terroristiche. In quel tempo facevo parte del Comitato cittadino per la difesa dell’ordine democratico contro il terrorismo. In seguito non ci sono state denunce perché non ho trovato nulla di sospetto anche se oggi sono certo che una mia eventuale denuncia avrebbe messo in pericolo la mia persona. Comunque questa è un’altra storia, storia passata, mentre il coronavirus no, non è ancora passato e ora potrei denunciare solo chi volontariamente o per superficialità mette al rischio la vita degli altri.

Non ci avevo pensato prima ma ora sono sicuro che il coronavirus è un terrorista che sta sconvolgendo la vita delle popolazioni del mondo e non solo dell’Italia. Forse il coronavirus potrebbe avvicinare i popoli realizzando quello che i capi di stato e i dirigenti politici non hanno saputo fare finora? Forse…speriamo.

Giovedì 19 marzo 2020
Le giornate cominciano a essere monotone. Forse lo sono sempre state ma, con questa costrizione casalinga, si avvertono in modo particolare.

L’altro ieri 17 marzo è stato l’anniversario dell’Unità d’Italia. Ricordo quando in occasione del 150° il Presidente Ciampi si fece promotore delle iniziative che misero i cittadini nella condizione di sentirsi italiani dopo diverso tempo che non succedeva. Mi è rimasto, a ricordo, un mozzicone di matita con in testa i colori della nostra bandiera. Lo getterò il prossimo anno quando festeggeremo la ricorrenza del 170° anniversario. Spero di non essere troppo ottimista.

Anche oggi ho ordinato la spesa online andando personalmente a prelevarla così ho evitato la fila poi abbiamo pranzato con spaghetti alla bottarga erano avanzati da ieri sera ieri e che, riscaldati al microonde, sembravano fatti in quel momento. La mia pasta alla bottarga è così buona che nessun ristorante riesce a fare meglio di così. Poi ho finito con un po’ di verdura e un arancio per non farmi mancare la vitamina C.

Avevo intenzione di procedere con la lettura ma una serie di telefonate non l’ha permesso anche perché, dopo una nottata in dormiveglia, sono sprofondato in un sonno di tre ore appena in tempo per ascoltare il TG3 della sera. Le notizie non sono state confortanti. Oltre a un incremento di soggetti positivi, comprendenti anche il personale medico, è aumentato il numero dei morti e le prospettive non sono affatto rosee. Se non si riesce a debellare e a curare la malattia virale potrebbe verificarsi un’estensione dell’epidemia con non milioni di morti (fonte ONU). Quello che preoccupa di più è l’estensione senza limiti delle restrizioni in vigore con vere difficoltà per la nostra esistenza quotidiana.

L’invasione degli ultracorpi era il titolo di un film del 1956 che torna alla mente di fronte a quanto accade oggi col coronavirus. A volte la fantascienza è anticipatrice di terribili eventi che, anche se in modo diverso, potrebbero riguardarci tutti. Per ora gridiamo tutti con forza “Abbasso il coronavirus” così tutto tornerà come prima. Si fa per dire come prima ma bisogna non essere troppo pessimisti. Domani è un altro giorno, si vedrà!

Venerdì 20 marzo 2020
Nel 1916 Albert Einstein pubblica sulla rivista accademica Annalen der Physik la sua teoria della relatività generale. Per la scienza inizia un’epoca diversa proiettata nel futuro. Ora il problema è sapere se il coronavirus faccia parte del passato o del futuro ma forse neanche lui lo sa. Quello che sa è che intanto è capace di sconvolgere il mondo e forse per questo se la ride di cuore mentre noi siamo segregati in casa e non solo non ridiamo, ma non sappiamo se lo faremo in futuro. Io spero di sì.

Per prendere 10 minuti d’aria sono andato a comprare il giornale anche se radio e televisione ci bombardano da giorni di notizie fino a stancare e anche oggi non sono buone notizie.

Abbiamo pranzato con un’ottima pasta e patate e un’arancia e dopo un po’ di lettura, che procede a rilento per via delle telefonate di parenti e amici che sentono il bisogno di uscire dall’isolamento comunicando con tutti a ripetizione. Ho avuto appena il tempo per fare i peperoni sulla piastra per pulirli e condirli con aglio, olio, basilico e sale. Nel frattempo ho preparato e fatto bollire le rape e le cime di rapa per domani sera.

L’invasione degli ultracorpi descrive un virus che si appropria dei nostri corpi e delle nostre menti invadendo la Terra con una razza umana invasiva e invadente che elimina chi non soggiace alla nuova realtà perché il virus in questione non tollera opposizioni o avversari. Per quanto ricordo resta una coppia che sembrerebbe avere il sopravvento ma la storia finisce male e il virus dominerà su tutto e tutti.

Anche nella nostra realtà finirà così? Speriamo di no e mi domando che fine ha fatto l’intelligenza artificiale? Ma intanto: “armiamoci e partite”.

Sabato 21 marzo 2020

Oggi è Primavera, ma alcuni alberi non se ne sono ancora accorti. La giornata è bella ma la voglia di andare al mare o ai Castelli Romani non può essere soddisfatta e dove vorremmo andare possiamo farlo solo con la mente e non con il corpo. Intanto approfitto per fare una carrellata nei social e mi sono fatto molte risate, sorpreso per le tante stupidità che spero siano dovute alla paura del contagio che manda fuori di testa tante persone come per, esempio, la proposta di evacuare intere città o regioni con pericolo di contagio senza dire dove si dovrebbero mandare e inoltre dando la colpa al Governo per non averci pensato. Questa però è solo una delle tante imbecillità che circolano sul Web. Ce n’è un’altra che vorrebbe far chiudere tutte le attività produttive e tutte le rivendite anche alimentari, compresi i supermercati che dovrebbero essere centralizzati. È poi lo Stato che deve ricevere gli ordini e fare le consegne a domicilio. Per fortuna, e speriamo che sia sempre così, non è l’uomo della strada a governare perché in questo caso sarebbero cavoli nostri visto che queste misure produrrebbero più morti del coronavirus. Forse il COVID19 ha iniziato la sua opera di invasione, come nel film del 1956. Forse la paura ha aperto le porte al virus e anche se è un nemico invisibile appare nei pensieri e nelle proposte di persone che si reputano intelligenti e che incoscientemente sono al suo servizio.

Intanto, con un po’ attesa in fila sono sceso a comprare della frutta e della verdura perché dobbiamo arrivare almeno fino a martedì prima di rifare la spesa. Oggi ho pranzato con pasta aglio, olio e pomodoro seguita da peperoni avanzati da ieri sera e per finire con una banana. Nel pomeriggio abbiamo visto due film: un sul digitale terreste e l’altro su Sky, terminato appena in tempo per sentire il telegiornale della sera. Dopo la fin del film Troppa grazia ho sentito il PdC Conte annunciare la chiusura delle attività produttive meno necessarie con la speranza che il provvedimento non duri nel tempo. Questo al fine di bloccare il più possibile la diffusione del virus. Ormai è tutto il mondo che si sta attrezzando per evitare il peggio. Io, da parte mia, spero che questa estate si possa andare al mare, specialmente se le temperature dovessero alzarsi troppo. In realtà, se questo avvenisse vorrebbe dire che stiamo sconfiggendo il nemico nella prima guerra planetaria che, se dovesse durare troppo, ne vedremo delle belle.

Intanto la Polonia ha sequestrato un carico di mascherine che dalla Russia erano destinate all’Italia. Ma non avevano Medjugorje?

Lidia Popa
Dio, c’è così tanto bisogno di speranza …

Il fatto che abbia già attraversato un periodo di vita con meno e altre privazioni durante il comunismo, penso che in qualche modo mi abbia fatto vivere più calma questo isolamento imposto dalle autorità statali, come adeguatezza allo stato di emergenza e pericolo per in cui viviamo tutti, mi ha ricordato in un modo dei giorni rivoluzionari della caduta del muro nel 1989. Poi ho sperato, ora ho ritrovato solo la paura. La paura di morire di quando ero appena ricoverata ultima volta in ospedale in attesa di accertamenti per quelle sensazioni di svenimento e vertigini di imminente caduta durante il viaggio di vacanza di due anni fa’ al ritorno in Italia dalla Grecia, dove siamo riusciti a incontrarci con le figlie e le loro famiglie. Che gioia! Vorrei tanto ritornare a rifare magari la prossima volta nel paese di origine.
Cucinare il cibo per lungo tempo era già un’usanza ereditata da mia madre che mi disse: “Il cibo per essere gustoso deve essere bollito”. Questa settimana mi sono arrangiata non ho fatto spesa, mi manca anche l’appetito, e va bene così perché devo dimagrire ed è il tempo di quaresima e delle preghiere. Ho pranzato una sola volta, in un silenzio totale, non mi va di sentire nemmeno i programmi di radio che diffondono musica. Le immagini delle bare di Bergamo mi rendono triste. Il pianto è liberatorio, mi aiuta a riflettere e riprendere la vita in mano. Se fossi più sana andrei a fare del volontariato dove c’è bisogno, la necessità, almeno per dare un supporto psicologico, o portare le buste del cibo. Purtroppo sono uno dei soggetti a rischio. Per non dare problemi ad altri devo rimanere in casa.

Pulire la mia casa più spesso, non solo una volta alla settimana, è stato un mio riflesso da sempre e specialmente negli ultimi vent’anni di pulizie per le famiglie italiane. Passare attraverso le crisi finanziarie sembra un po’ facile da superare, se non si dispera allungandosi più della trapunta. Passare attraverso periodi con difficoltà per la salute ha avuto lo stesso effetto finora, in quasi cinquantasei anni non mi sono delusa leggermente. Ma ora con la pandemia, questa situazione è diventata preoccupante per tutti i bambini, i giovani o gli anziani. Non solo gli altri sono feriti, ma possiamo diventare vittime noi stessi. Dobbiamo essere più responsabili. Stare a casa è un dovere di ognuno di noi se non hai un lavoro responsabile che ti costringe ad uscire e compiere il dovere, anche quando ti senti come tutti gli altri, altrettanto vulnerabile.

Il vicino ogni due giorni urla da tutti i bronchi in sovradosaggio, so che si è isolato da molto tempo, non è malato, ha più di ottant’anni. Era forse così stanco di stare in casa per così tanto tempo, usciva ogni giorno a fare una passeggiata, anche se non andava a fare la spesa da solo da molto tempo, e il suo cane lo portano fuori solo le figlie. L’estetica è chiusa dall’inizio di marzo, probabilmente non aveva più una clientela così frequente, è molto silenziosa e l’ingresso non profuma più di olio aromatico e creme. A volte sento i bambini dei vicini sotto di noi ridere o contraddirsi a vicenda, il più piccolo ha sviluppato la dipendenza di una madre manifestata soprattutto al mattino. Se non lavoro e voglio dormire di più, praticamente ho l’orologio che dice: “mamaaaa …” e mi sveglio di colpo con il sole che bacia i miei occhi attraverso la finestra. I moldavi del piano terra non grigliano più, potrebbero essere partiti per Chisinau, molti di quelli con bambini sono fuggiti per la paura. Il fatto è che nessun ragazzino batte mai la palla contro le pareti della casa vicino ai garage. Solo qualche auto o la sirena di una ambulanza ogni tanto suona in strada. Ieri ne abbiamo contate sette, una si è fermata sopra di noi, oggi ho visto solo una che ha aspettato in silenzio che le altre macchine si fermassero, perché sulla strada dal dispensario stavano proprio in quel momento a rifare l’asfalto.

Ieri è stata una giornata di sole, sono uscita sul balcone per innaffiare le piante e guardare le foglie di cipolla rossa che hanno iniziato a uscire, anche se avevo piantato alcuni fili una settimana fa, alcune cipolle di Tropea novelle con i baffi in una ciotola dove tenevo basilico l’anno scorso. Vedere la vita mentre continua il suo ciclo è incoraggiante.

Mi fa sperare, anche se il notiziario suona peggio che in tempo di guerra, solo il numero di vittime e morti. Invece di pistole, si sente la campana del campanile della chiesa all’angolo della via e ogni volta mi spavento. Quanto dolore e paura per la sofferenza! Quanta forza e dolore per coloro che perdono un’anima vicina! Sola nella mansarda, prego per la salute di tutti, per coloro che sono stati colpiti dal destino di tutto il mondo, per mia madre, fratelli, figli e nipoti in tutta Europa, e per i miei altri sul continente o di oltre oceano, la mia famiglia e i miei conoscenti. Sembra così irreale … Sento così freddo dappertutto … che chiederei un abbraccio.

Ora più che mai, se torniamo alla normalità, oltre alla compassione sarà necessario radicare il sentimento 1di appartenenza e la solidarietà con la sofferenza, non solo nella città in cui viviamo o lavoriamo, ma anche verso le altre vittime della guerra, fame, sete, malattie incurabili, calamità o altre tragedie, di cui conseguenze dovremmo preoccuparci perché siamo solo ospiti temporanei di questo pianeta. Niente ci va bene perché non abbiamo dato abbastanza nella vita.

Non ho mai sentito il bisogno più di adesso di un angelo custode. Un angelo per aiutarci a superare qualsiasi tragedia. Dio ci aiuti! Possa il Signore custodire i morti. Amen. Vediamoci di nuovo al ritorno!

Liliana Smerea Vacaru
“Restate a casa!”

Gli allarmi non suonano
come nei tempi di guerra
ma l’aria che si respira e quella!

In città le strade deserte,
le scuole chiuse
le chiese vuote!

Raramente qualcuno esce
,,solo se è  assolutamente necessario:
per lavoro, per la spesa, per cure mediche ”

( E poi rientra in casa!
Ne la stessa casa dove abitano tutte le persone care !!!)

Ogni cinque minuti
la tivù o la radio ti martella cervello
con l’invito di restare a casa
e con la minaccia  che se usciamo di casa
un nemico invisibile ci uccide
e se non ci becca lui, ci becca la polizia e
ci fa arrestare per tre mesi
per il bene di tutti!

Abbiamo capito: restiamo a casa
noi quelli che una casa
bene o male ce l’abbiamo,
affinché la possiamo ancora pagare …
ma quelli che non hanno una casa qui
quelli che neanche a casa loro non possono tornare
di quelli che né sarà?!

Speriamo bene!
Un bene che si vede sempre più lontano,
più annebbiato,
un bene invisibile, uguale a questo nemico
che ci sta massacrando!

Un nemico che sembra che è dappertutto
che diventa più forte
perché riesce a colpire sempre di più!

Ma finirà!

E poi?
Come sarà dopo?!
Ho tanta paura che dopo
questa paura di morire
arriverà per molti di noi
la paura di vivere!

Paura di abbracciare stretto
Paura di stringere la mano
Paura di amare…

E la pace? e il bene…
ci sarà mai?!

Lasciate accesa la luce della speranza!
Solo lei ci può ancora salvare.

21 marzo 2020

Lorenza Caroleo
Fa male avere a che fare

Fa male avere a che fare con la propria solitudine. In un rapporto obbligato con noi stessi non possiamo più fingere. Deponiamo la maschera e viene fuori il nostro io. Il nostro vero volto. Mai così vero. Ci accorgiamo che siamo fragilità, pezzi rotti, che nessuno si è mai curato di riattaccare.  Dobbiamo abituarci alla crudezza della vita. Una vita che strizza l’occhio alla morte, all’incertezza, alle paure. Quelle che la nostra società ha voluto coscientemente affrancare dalla nostra percezione di realtà. Perché solo ora ci rendiamo conto che siamo ciò che percepiamo. E se la vita là fuori è un gioco costruito ad arte, noi siamo pedine impazzite a cui è stato tolto l’arbitrio della vita. L’esclusione del brutto ci ha reso vulnerabili. Non ci ha immunizzato dal dolore. Lo abbiamo tenuto nascosto, perché sbagliato, ed ecco che, in questi giorni, riemerge e ci paralizza. Un esercito smarrito, disarmato, mandato in prima linea a fronteggiare un nemico che non c’è, perché non lo vediamo. Siamo nulla adesso. E allora che fare. Come uscirne ora che non si può fuggire. Ora che non possiamo sbattere la porta e correre con le nostre belle scarpe da runner. Banditi i disertori. Al senso della vita non puoi voltare le spalle. Bisogna farci i conti. Ora che siamo costretti a rimanere lì. In quello che è il nostro posto. Perché ci hanno detto che il dove è rifugio, è luogo, è calore, è amore. Il posto che ci siamo costruiti o nel quale ci siamo ritrovati e ci sta stretto o troppo largo. Che fare adesso? Com’è difficile ascoltare i nostri sussurri. Noi abituati a muoverci con disinvoltura fra le urla della strada, quanto è forte questo silenzio. Quanto è tenace il suono del nulla. Ma noi vogliamo distrarci. Abbiamo bisogno di appigli. Non possiamo rimanere fermi con noi. Là fuori è pericoloso, ma dentro è distruttivo.

Ma noi siamo altro. Siamo quello che dobbiamo tenere nascosto. Siamo le nostre risate senza senso, i calici alzati in alto, i pensieri più profondi e lacrime a dirotto. Siamo i medici in corsia, filosofi mai studiati, arte che non capiamo. Quel libro mai finito o quello che vorremmo scrivere. Politici corrotti, attori che vanno a braccio. Un anno da dimenticare. La preghiera disperata in un Dio che non capiamo. Siamo il condominio su un balcone e bandiere al vento. Il colloquio di lavoro andato male o un provino superato. L’incontro mai avvenuto ma che ci aspetta dietro l’angolo. Siamo amore per il bello. Siamo l’altro quando ci capisce. Curiosità allo stato puro. Viaggi improvvisati. Litigate al telefono. Bronci da tenere e sorrisi da scatenare. Siamo una pizza in settimana e il week end in riva al mare. Un selfie che spacca e una storia a termine. Siamo il mondo in cui viviamo, primavera ed estate torrida. Il non detto e quello che accadrà. Il passato dei nostri cari e il futuro per i nostri figli. Noi siamo il senso della vita  ed è la vita che alla fine vince.

Un altro piccolo scritto.
Manuale di sopravvivenza al codiv19.

Contorcersi fra le emozioni. Attivare i ricordi. Guardarsi allo specchio. Munirsi di aspirapolvere. Riordinare armadio ma anche incasinarlo ancora di più. Sfondarsi di addominali e rompere tutto con acrobazie improbabili. Leggere leggere e leggere e leggere. Tappezzare i muri di postit pieni di buoni propositi e di cose che non si faranno mai. Misurare tutti i cappelli accantonati e che non indosseremo mai davanti agli atri per un latente senso di pudore. Sfilare con vestiti improbabili e tacchi vertiginosi davanti allo specchio o ad un pubblico casalingo. Ad intervalli regolari affacciarsi alla finestra o correre in terrazzo (per chi ce l’ha). È permesso urlare e soprattutto è obbligatorio cantare a squarcia gola, stonando possibilmente. Provare a cucinare (io non ci provo nemmeno). Scaricare film e video anche illegalmente. Sognare e sognare h24. Sonni profondi e disordinati. Docce calde. Manicure perché non si mangia le unghie. Giocare a palla (il muro ottimo partner). Ubriacarsi a intervalli regolari. Fumare una sigaretta ogni ora o altro se siete dei viziosi. Ricordarsi di sognare (devo ripetermi). Ballare saltando sul letto. Fare video scomposti. Ascoltare un sano telegiornale. Bere caffè. Fare l’amore o attrezzarsi come meglio si può. Scrub casareccio. Cambiare lampadine, serve luce calda. Scarabocchiare le pareti. Scrivere e scrivere. L’arte del cucito la trascurerei. Abusare di disinfettante. Nutrirsi o abbuffarsi a dismisura. Attaccare pipponi al telefono. Chattare con nipotino o parenti lontani. Rimanere muovendosi. Insomma reinventarsi. Siamo noi il luogo e il dove.

Luciana Argentino
Non ce l’aspettavamo

Non ce l’aspettavamo. Proprio no. Questo virus ha sconvolto il ritmo della nostra vita. Abbiamo dovuto risintonizzarci su nuove e più lente modulazioni di frequenze. Sento Anna Maria, la ragazza del piano di sopra, che spesso va a correre al vicino Parco degli Acquedotti che cammina avanti e indietro per l’appartamento e le voci di Alessandro e Andrea, due fratellini di 6 e 3 anni, al di là della parete della cucina che ora giocano ora si azzuffano. Ieri Loredana, la signora del primo piano, si è portata a casa l’anziana madre per non farla stare sola. Oggi, domenica 15 marzo, quando sono scesa per far fare un giro a Teo il nostro cane ho visto attaccati al portone due disegni di Alessandro e Andrea con due arcobaleni sotto ai quali hanno scritto “andrà tutto bene”. Sì ne sono sicura andrà tutto bene. E credo, spero, che questo tempo di sospensione, ci abbia fatto sentire quali sono le cose davvero importanti nella vita di ciascuno, che per qualcuno sia stata l’occasione per guardare a chi ha accanto come non faceva da tempo, per parlarsi veramente e non solo scambiarsi frasi frettolose e superficiali. Riscoprire e rinsaldare relazioni che davamo per scontate. Questo è uno dei più grandi errori che facciamo. Dare tutto per scontato, per dovuto. Come poeta ho sempre cercato, nel momento della scrittura e anche prima della scrittura, la solitudine e il silenzio. Ora mi sembra di sentirli pieni dell’apprensione e della preoccupazione di tutti i miei connazionali, delle loro paure e angosce ed è bello vedere con quanta solidarietà cerchiamo di allontanare questi sentimenti negativi attraverso l’arte, la musica, la poesia. Mi auguro con tutto il cuore che tutto ciò lasci una traccia profonda in noi, che sia come un pozzo di acqua pura a cui anche quando sarà tutto passato si potrà attingere per trovare nuove energie. E allora dono una breve prosa poetica inedita che parla del legame tra parola e silenzio.

Sosta a lungo nel farsi luogo della parola. Impara ad accendere fuochi che ripetano sulla terra il volto delle stelle – un loro tratto almeno – e siano di ristoro allo sforzo di perdurare che ogni cosa ed essere compie. Insegna al pensiero l’uso domestico e quotidiano del silenzio, il suo mutare di sostanza attraverso la liquida sonorità dell’inchiostro.

Tiziana Colusso
CASSANDRA CROSSING E ALTRE CASSANDRE

Cassandra Crossing è un film degli anni 70, uno dei molti che trattano la guerra batteriologica e la creazione di ceppi virali in laboratori specializzati. Al di là del plot da film di spionaggio, per forza di cose e per necessità di cassetta, mi ha molto colpito del film il nome del ponte fatidico che il treno dei contagiati, blindato e sorvegliato, deve attraversare per sprofondare, come previsto dalle autorità politiche e sanitarie, dalla struttura fatiscente del ponte al fondo di un burrone.

Cassandra è uno dei personaggi mitologici che riscuotono meno simpatie, ed essere “una Cassandra” significa essere un rompipalle se non addirittura un menagramo. Eppure se le doti di profetessa di Cassandra fossero state ascoltate, molte guerre e sventure narrate nei poemi epici sarebbero stati evitati. Essere profeti è già una posizione scomoda, ma profeti inascoltati è veramente un karma pesante. Si narra che Apollo donò la dote profetica a Cassandra per ottenerne l’amore, ma lei, una volta ricevuto il dono, rifiutò di concedersi; al che Apollo adirato le sputò sulle labbra, condannandola con questo gesto ad essere profetessa inascoltata. Questa versione del mito non mi ha mai convinta. Dopo aver ricevuto il dono prezioso della profezia, Cassandra poteva benissimo prevedere cosa le sarebbe successo se avesse rifiutato l’amore ad Apollo. E comunque non c’è bisogno di essere profetesse per capire che un uomo (o un dio) rifiutato è capace di qualsiasi vendetta.

In ogni caso, essere Cassandre è scomodo, inattuale e antipatico. Dunque consiglio a tutti coloro che hanno sensibilità e antenne per capire in anticipo cosa succede di tapparsi le orecchie con ottimi auricolari per la musica, indossare occhiali da sole ed ostentare credulità verso tutto e tutti. A me non riesce. Se faccio la finta tonta se ne accorge anche un orso in letargo.

Comunque lo sguardo lontano è l’unico che valga la pena di coltivare. Per questo non ho voglia di parlare dell’attuale quarantena da virus, delle nostre vite blindate. Ne ho parlato già nel lontano 2000, esattamente 20 anni fa, in un atto unico teatrale intitolato “Il tempo del vaiolo” (poi pubblicato in un’antologia nel 2003 delle edizioni Datanews). E’ ispirato all’atmosfera di cupio dissolvi del Decameron, che mescola con altre suggestioni e visioni.

Questo l’incipit: “Un bordello con le finestre sprangate, senza alcuna comunicazione con l’esterno, è diventato l’estremo luogo di riparo, una zona franca di “intoccati” tra gli intoccabili di una Roma devastata dall’epidemia di vaiolo. L’epidemia – provocata inizialmente da un’offensiva del terrorismo biologico e aggravata poi dall’avidità delle industrie farmaceutiche che rifiutano la cessione dei brevetti sui vaccini- è stata il punto d’avvio del disfacimento fisico e morale della città “eterna”, immersa ormai in un medioevo senza ritorno. A fare il collegamento tra la “città malata” e la clausura volontaria dei gaudenti, è Andrea, figura androgina del tutto peculiare, che non appartenendo a nessuna identità e a nessun mondo può attraversarli tutti…”.

Direi che come diario di quarantena possa bastare, vi invito a leggerlo, l’ho messo in libera fruizione sul mio sito, https://www.tizianacolusso.it/tempo-del-vaiolo-atto-unico-teatrale-edito-aavv-lorrore-della-guerra-datanews-2003/

E le profezie per il futuro? Con uno slancio di altri vent’anni, dovrei scrivere oggi cosa succederà nel 2040. Qualche idea ce l’ho, ma per non spaventare né me stessa né gli altri è meglio che io vada a prepararmi un aperitivo. “Laisse tomber!” , dicono i parigini quando vogliono essere gai e leggeri. Au revoir

Lucio Castagneri
DOMENICA 15 marzo

Caro Tonino, e cari tutti
con cui si sta grazie a Tonino condividendo in queste pagine ognuno a suo modo questo momento strano.
Ho raccontato a mia cugina che vive in Portland, Oregon (USA) della bella idea di questo diario, e poiché ho la testa vuota e non saprei scrivere di meglio, chiedendole il permesso di pubblicare queste due lettere, ha acconsentito con entusiasmo.

Ho incontrato mia cugina (di cui ho scoperto l’esistenza solo da un anno) per una settimana, mia ospite il settembre scorso in Tunisia, e adesso che ci troviamo agli antipodi scambiamo pensieri. Mi ha inviato un lavoro del suo compagno Victor con un messaggio di spiritualità e lenimento del dolore che mi piace accludere.

Ecco le lettere in originale, traducibili:

Elizabeth a Lucio, gio 12 mar, 18:13

Dearest cousin!
You are in my thoughts so I wanted to send you a quick note of encouragement. And see how you are faring health wise? I know this is an unprecedented situation in our lifetimes. I have seen the pictures of Italy with no one in the streets and it is quite breathtaking, be that I was there not too long ago and all my memories of my time there are flooding back.

Please keep me posted as to how you are feeling. I know you are a very healthy person, and that keeps me very confident you will stay that way through this wave of world sickness.

I am sending you a very big hug and hope that you will take heart during this time, especially with your creative writing and your plans to travel to the Sahara. I love you dearly!

Love your SH,
Eliza
……………………..

Lucio a Elizabeth (Sweet Hurricane è il soprannome che le ho dato e che le piace molto) ven 13 mar, 12:33

So sweet your thoughts for me, dearest cousin, this moment is tough for everybody here, and the general feeling, even not spoken openly, is like a movie of  war time. Only food shops and drugstore of pharmacy open. I take care of myself, of course, but during the sleep my mind is run by schizophrenic images, and all the day long, trying to fill time with not coherent thoughts, painting so and so, writing nothing really interesting, because  life is interrupted, and anyway everybody holds on. Managing with. The most impressive issue is the lack of breathing machines, I mean not enough for all the patients, and from hospitals doctor claim about choosing to give them to most possible survivors. It is first of all young people, of course.  I believe that all a country in the world history locked in chains in a cage like this never succeeded before, and it is something surrealistic. Or science fiction. This morning I went shopping for food twenty meters from home with a silk scarf on my face like Jessie James, because everywhere sold over, impossible to get masks…My dearest Sweet Hurricane, I was requested to give my contribution of a little  script for a diary  of writers about  the plague among us, and I believe that our correspondance is something in some way with the veritable strenght of our feelings between so long distance in miles among Rome and Portland Oregon. May I publish our two letters?

All my love and hugs, you healing me. So long, dear SH,

your cousin, Lucio.

I never had your address in Portland in case mailing to you a postcard…

Elizabeth a Lucio ven 13 mar 18:40

Aww dearest Lucio, Of course! Please do what we will help make this difficult time more bearable. I would be delighted if you used our letters and correspondence in a published story!  […]
Your Sweet Hurricane.

36. Lucio Castagneri
giovedi 19 marzo 2020
Dialogo con Giuseppe Cerasari, già dirigente medico responsabile per la terapia dell’Hiv presso l’ospedale Spallanzani.

Caro Giuseppe,
eravamo a cena, parlando tra le altre cose del progetto di scrivere a quattro mani la storia della tua vita di medico negli anni tremendi in prima linea sull’Hiv. Era qualche settimana fa, e si stava solo profilando il timore del Coronavirus… adesso non possiamo vederci a cena e dunque scriviamo. La testimonianza è la prima cosa, densa del suo sapore di verità, pensavo mentre mi dicevi dolente al telefono del tuo giovane collega medico mutualistico infettato, a casa con la febbre alta, non ricoverato e spaventato. Quando se non ora cominciare la tua esperienza di scrittore insieme, anche a quattro mani, se infine non conta tanto chi scrive di fatti epocali, se non lo scritto che resta? E lo scritto che si firma di per sé in via autobiografica (la tua in primo luogo) può riverberarsi attraverso l’amanuense compilatore (il sottoscritto) che poi te la metterà per esteso, percorrendo anche l’ardua via della ricerca nella forma narrativa del consenso e dell’interesse del lettore. Scrivimi dunque poche righe d’accompagna-mento ai due scritti che mi ha già inviato e guardiamo al tempo che c’è qui ed ora. 

Un abbraccio, Lucio

venerdi 20 marzo
Carissimo Lucio,
ti scrivo per fissare alcune idee da condividere.

Assistiamo ad uno smarrimento della popolazione in generale, ma ho il sentore che anche la scienza, credo ne sia coinvolta. Il dato più impressionante ed allarmante di oggi, su cui dobbiamo riflettere, è il sorpasso dell’Italia nei confronti della Cina per numero di morti. In televisione e sugli altri mezzi di comunicazione si assiste alla più palese discordanza di opinioni mai espressa e all’emergere delle ipotesi più strane e fantasiose circa l’origine dell’epidemia, l’interpretazione dei dati, la gestione dei malati, le profilassi da effettuare, le cure da erogare.
Per mettere un po’ d’ordine io direi di iniziare con le definizioni di infezione e malattia. L’infezione non necessariamente sottende allo sviluppo della malattia. E’ il contatto di un agente patogeno con il nostro organismo a cui può seguire, se nel rapporto aggressione-difese dell’organismo ospite, queste non siano in grado di arrestare lo sviluppo dell’aggressore, con la progressione in malattia mediante la diffusione nell’organismo dell’agente patogeno e il conseguente manifestarsi dei sintomi clinici.

Spesso troviamo solo la presenza, nel caso del coronavirus, nel cavo orale e nelle secrezioni nasali di batteri e virus.

Certo in corso di epidemia è fondamentale accertarne la presenza, anche solo per identificare i portatori. Ma anche qui va fatta una precisazione. L’indagine mediante tampone, per rilevare la presenza del virus, viene eseguita con una tecnica nota come PCR (Polymerase Chain Reaction) che è solo qualitativa e non quantitativa, vale a dire non conta il numero di copie del virus cioè la carica infettante, ma solo la sua mera presenza.
Merita anche su questo aspetto fare una considerazione: sono uniformate a livello europeo e poi internazionale, visto che parliamo di pandemia, le metodiche di rilevamento del virus con l’utilizzo dei vari kit in commercio? Vale a dire nel ricercare le medesime sequenze dando risposte univoche? Analogamente dobbiamo soffermarci, prima di entrare nello specifico delle nostre interessanti conversazioni, sulle definizioni di caso e sulla successiva determinazione di causa di decesso.

Una piccola premessa a questo riguardo va fatta.
Il Covid -19 ha come nome scientifico Sars-CoV2 e non a caso. Identifica la nuova variante del virus della sindrome respiratoria che ha causato la precedente epidemia. Sindrome che ha nella grave insufficienza polmonare la manifestazione clinica più importante. Ed allora dobbiamo analizzare anche le cause di morte e verificare se è stata effettivamente l’insufficienza respiratoria terminale a causare la morte nel paziente con infezione da coronavirus.
Ciò sembra ovvio e banale, ma in medicina e soprattutto in questa pandemia è fondamentale, per la raccolta e l’interpretazione dei dati per le successive misure da prendere, uniformare le procedure. E’ proprio in virtù della definizione di pandemia che dobbiamo parlare tutti lo stesso linguaggio nei vari paesi, condividere le definizioni precise di causa di morte, condividere in maniera realistica i dati raccolti.
Ma questo sarà oggetto del nostro prossimo incontro.

Ti saluto e ti abbraccio

Le Due Risposte di Giuseppe Cerasari

1 – Riflessioni: il tempo e il coronavirus

Che cos’è il tempo? E’ per l’uomo di oggi una domanda complessa a cui non sa dare una risposta precisa. I filosofi del passato hanno sostenuto che il tempo non esiste. E’un’illusione, un luogo comune sia dal punto di vista filosofico che religioso.

Dal mio punto di vista è il bene più prezioso che abbiamo. E’ la ricchezza in senso assoluto. La ricchezza è infatti la disponibilità del tempo. Più tempo abbiamo a disposizione per noi e più siamo ricchi. Più siamo ricchi più abbiamo disponibilità di tempo.

Ma cosa c’entra il coronavirus? L’epidemia di cui è responsabile questo virus, ha determinato la sospensione di un gran numero di attività. Sono state chiuse scuole, teatri, sospese manifestazioni. Ma anche noi non ci sentiamo più sicuri, evitiamo spazi pubblici, luoghi affollati perfino i ristoranti.

Questa situazione però non è del tutto negativa. Abbiamo più tempo da dedicare a noi stessi, ci consente di riflettere sui vari aspetti della vita, sul suo significato più intrinseco, Riflessioni che non potevamo fare, che avevamo trascurato in nome del progresso, della tecnologia. Dobbiamo allora riflettere sui nostri obiettivi, qual è la meta da raggiungere, cosa dobbiamo diventare. E l’opportunità ce la sta offrendo in maniera indiretta il coronavirus offrendoci l’occasione del riscatto, di riappropriarci cioè del “nostro tempo”, della possibilità di pensare e riflettere ed in ultima analisi di conquistare la nostra indipendenza di pensiero.

2 – COVID-19 (2019-nCoV)

COVID-19: un betacoronavirus, come MERS e SARS

I coronavirus sono una grande famiglia di virus comuni in molte specie di animali, tra cui cammelli, bovini, gatti e pipistrelli. Questi virus, raramente, possono infettare le persone e poi diffondersi tra uomo e uomo come è avvenuto con MERS, SARS entrambi provenienti dai pipistrelli e ora con 2019-nCoV. Le sequenze dei virus isolati su pazienti statunitensi sono simili a quella inizialmente pubblicata dalla Cina, il che suggerisce una probabile singola, comparsa di questo virus da un serbatoio di animali.
L’attuale epidemia da coronavirus (COVID-19) in Cina è la terza di questo secolo dopo dopo SARS e MERS.

37. Anna Maria Petrova – Ghiuselev

IL TEMPO

Ehi, tempo tempo..

Il tempo corre, scorre,

incurante di noi,

delle nostre piccolezze e di tutto tutto…

S’insinua nei nostri atomi, nelle memorie, nei sogni…

E loro…passano.

Passiamo noi, le nostre idee, i nostri ideali, gli amori,

tutto passa poi…

Un fugace sguardo allo specchio

e ti sembra di conversare con uno sconosciuto.

Ti aggrappi ai ricordi, alle memorie di famiglia,

alle mille cose che hai fatto, pensato, creato..

Ma niente da fare,

arrampicarsi agli specchi ti corrode solo le unghie.

E cosi arriva la rassegnazione.

Anche ai più duri,

a quelli che amavano Mao e sembravano imbattibili…

A quelli che erano i più razionali, i più saggi, arriva ai più ironici pure.

Il tempo è asettico, ateo,

il tempo è arbitro – di tutto il resto.

E’ sereno, è il più sereno nell’universo.

Il tempo è saggio – si è rubato quella nostra di serenità.

E ci ride in faccia. Come ora…

Ma alla fine il tempo siamo noi.

E senza di noi è niente e nessuno.

Il nulla. La fine e l’inizio…

Di tutto.

E di noi rinati nuovi.

Annabelle

La Primavera non lo sa

Ecco, ci siamo alla terza guerra mondiale.

Ma non come la s’immaginava prima.

Ed è più spietata … perché subdola.

Ma la Primavera non lo sa.

Lei arriva e ci porta il suo dono come sempre,

di beltà, di vita, di speranza…

Mentre noi siamo rinchiusi nelle nostre paure.

Quelle dalle quali ci lasciamo avvolgere.

E ci rendiamo ancora ridicoli…

Ma la Primavera non lo sa

e si affretta a riempire i nostri sensi di felicità,

di vigore e di squisita aria profumata…

Mentre cerchiamo di navigare tra le fake e quelle vere novità.

Mentre ci rassegniamo al rinuncio dei progetti.

Mentre ci proiettiamo in un futuro più che incerto, da brividi…

Ma la Primavera non lo sa

e ci vuole un bene immenso, ci vuole gioiosi e saggi,

c’invita a svegliarci e apprezzare il dono…

Mentre noi ci scopriamo pure più umani.

E ci viene voglia di aiutarci a vicenda.

E ci si scopre più amati e uniti tra noi.

Ma la Primavera non lo sa.

Perché Lei c’immagina già nati saggi e umani.

E porta i suoi doni come balsamo delle anime.

Mentre noi ci si domanda il perché di tutto ciò

e del perché di tante virtù in tempi di guerra

e non in quelli di pace e di belle primavere?…

E forse ad avere una qualche risposta ci si arriverà

in un bel giorno di Primavera da capogiro

quando riscopriremo anche le nostre anime …

Annabelle

Adonella Montanari
Diario del coronavirus

Mentre la pandemia del coronavirus è esplosa in tutta la sua forza negativa trasformando le nostre vite e tutto ciò che ci circonda, il mio pensiero corre all’indietro in tempi assai lontani. Mi riferisco ai miei quindici, sedici anni. In quel periodo ero ossessionata da uno strano ricordo che veniva e svaniva nella mia mente come un flash e poi il nulla. Si trattava di una visione non chiara di una immagine di colore azzurro intenso che sfumava verso una linea arcuata che poteva sembrare il mare ma, nello stesso tempo, poteva essere uno squarcio di cielo che si immergeva o viceversa? In realtà si trattava di un sogno ricorrente che mi lasciava sempre lo stesso indefinito senso di incomprensione insieme a una inquietudine che durava tutto il giorno. Dopo qualche tempo che questo fenomeno si ripeteva sentii il bisogno di parlarne con mia madre. Mia madre fu molto attenta in questo mio disagio e mi consigliò di fare una o più sedute da uno psicologo. Eravamo alla metà degli anni cinquanta e già si sentivano arrivare una ventata di novità dall’America. Nell’immediato dopo guerra ci fu un fermento culturale importante, il cinema americano era in prima linea con giovani registi che producevano film a sfondo psicologico e tutto questo fu una ventata di novità in un paese come l’Italia che si stava rialzando dal doloroso passaggio della guerra. Cominciai così ad andare dallo psicologo, era un freudiano che aveva nel suo studio il classico lettino nel quale mi sdraiavo e lui si sedeva scostato all’indietro. Dopo poche sedute in cui avevo parlato ampiamente del problema del sogno ricorrente lo psicologo mi fece domande approfondite e da questo il sogno fu chiarito. “Dovetti regredire fino ai miei otto mesi di vita. Mia madre amava il mare e, in tempo di guerra, non c’erano mezzi di locomozione per andare da Roma a Ostia e viceversa, ci si doveva accontentare di camionette di fortuna, quando si trovavano. La camionetta aveva l’abitacolo guida davanti e dietro era un camioncino aperto con dei lunghi sedili di lato. La corsa quindi era piena di vento e di strattonate per le strade piene di buche. Chiaramente queste cose le ho sapute crescendo, allora mi accontentavo di dormire nelle sicure e amorevoli braccia di mia madre. Quella volta, arrivati al mare, probabilmente ebbi un sicuro brutto risveglio sulle braccia di mia madre che mi teneva col viso rivolto all’ingiù. Così io vidi per la prima volta il mare e il cielo confondendoli in un’unica meravigliosa visione a schermo panoramico.” Tutto questo fu possibile con le sedute di un giovane bravo psicologo che mi liberò da questa confusione infantile. Questo episodio mi è venuto in mente in questi giorni fantascientifici di quarantena in casa per la pandemia del coronavirus. Il confronto a distanza di così tanti anni non è necessario spiegarlo, viene con sé naturale confrontare due diverse guerre, questa di oggi senza bombardamenti né eserciti, né carri armati, bensì con uno sconosciuto virus che si chiama corona e che ha messo knockout il mondo velocemente senza mezzi bellici ne eserciti, così da solo agguerrito, potente, crudele e determinato continua, indisturbato ospite, a mietere vittime senza pietà, senza confini, con la cieca crudele continuità di un Killer! Ora il Coronavirus merita la mia poesia:

Il virus

si accontenta

di sostare

ovunque lui può stare

un po’

per riposare

in po’

per far del male

si propaga

si trasforma

per non esser

sempre uguale

miete vittime per caso

un po’ di più

per ammazzare

insistendo

con tenacia

propagandosi

nel mondo

tutti sono

in quarantena

colmati di fobia

intanto sta crollando

l’intera economia.

 

FRANCESCA LO BUE
Bivio

Siamo umanità offesa e marginalità,

rappresentiamo l’abisso,

abbiamo l’aura dell’assenza.

Quando si perde la speranza della soggettività

si accetta il proprio essere distrutto,

destituito di ogni strada,

di ogni forma prefissata.

Costruire il proprio presente

è vivere in ogni presente,

in un dopo che è il nulla del futuro,

distruzione mangiatrice,

naufragio nella catena interrotta del momento.

Uomini,

fogli accartocciati fra ossari che rinverdiscono

mentre geni instancabili aprono strade di sale

e una sequenza di aneliti appare nuovamente.

Le forze si sovrappongono in un punto fatale,

tragica glorificazione di una grazia che si compie,

luminescenza dal tratto cinerino.

Una è l’intuizione divina,

bivio che si carica di significati sempre più intensi,

tempo e grazia dell’esistere.

Gridano tenui nell’aria i gelsomini

e niente, niente nelle valli abbattute dai nembi.

Da un nugolo d’abisso il ricordo che acceca,

dal luogo della Memoria Infinita l’occhio di un raggio.

Pascal Schembri
La passeggiata

Esco al mattino per andare al duello ai bastioni. Mi fermano due carabinieri e mi chiedono l’autocertificazione. Dove sto andando? Perché? Sto andando ai bastioni. Ho bisogno di prendere aria, dico. Un po’ di attività motoria è permessa anche dall’ordinanza d’emergenza. Si autocertifichi, mi dicono. Vabbè, autocertifico che sto andando a fare due passi ai bastioni, per tenermi in salute. Mi lasciano andare. Dicono che verificheranno. Come, mi chiedo. Probabilmente tracciandomi il cellulare con il GSM di Google Maps. Non c’è problema, tanto io è proprio ai bastioni che sono diretto.

Arrivo e l’altro è lì che mi aspetta. Padrini non ce n’è, bisogna evitare gli assembramenti. Anche per questo non ci si affronta con la sciabola. Non sarebbe garantita la distanza di sicurezza. Lui tira fuori una Luger, rimasuglio della Seconda guerra. Io estraggo la più attuale P.38. Contiamo dieci passi a testa dalla posizione iniziale di sicurezza, un metro come stabilisce il Ministero dell’Interno. Puntiamo. Fa in tempo a dirmi “cornuto” mentre schiacciamo insieme il grilletto. Sento sibilare qualcosa all’orecchio sinistro, lo copro d’istinto e vedo lo stronzo cadere all’indietro. Non sto neanche a guardare se rantola. Mi volto e torno verso casa. Mi fermano di nuovo i carabinieri. Mostro la carta d’identità. Dico che sto tornando a casa dopo essermi sgranchito le gambe ai bastioni. Sì, dico, a casa c’è mia moglie che mi aspetta.

Prima di rientrare butto l’arma nel canale.

Pietro De Santis
Venti marzo, venerdì

Appena sveglio, sfogliando le pagine dei giornali online come ogni mattina, ho appreso che forse – ovvero con ogni probabilità –, l’attività scolastica si concluderà con scrutini ed esami a distanza e le scuole riapriranno a settembre, il prossimo anno (scolastico). Inevitabilmente, banalmente, ho preso a canticchiare “Caro amico ti scrivo, così mi distraggo un po’” poi, sottovoce, e siccome sei molto lontano più forte ti scriverò…

Il disco uscì nel 1979, nel mezzo degli anni di piombo; il testo della canzone, tra speranze e disillusioni, credo volesse esprimere il disincanto sociale e politico: un omino piccolo così per citare un altro brano, non avrebbe potuto che stare in casa ed evitare, per quanto possibile, gli incroci con la sorte.

Di quel periodo, in cui ero molto giovane e distratto e cioè, a dirla tutta, “me ne fregavo” (come si direbbe anche ai giorni nostri) ricordo poco, ma un flashback rimane vivo. Tornavo verso casa, insieme a due amiche (per fare cosa?) alla guida spericolata di una macchina, la famosa deux chevaux, lentissima ma capace di vere acrobazie; svoltando a tutta lentezza in una strada, praticamente su due ruote, pescai un posto di blocco: essere fermato, tirato fuori dalla macchina, sbattuto contro il cofano, sentire la canna del mitra poggiato contro la schiena fu tutt’uno. Non dimentico la sensazione e il timor panico al pensiero che una distrazione del poliziotto giovane avrebbe potuto lasciare il segno.

Ancora oggi mi ripeto Dio non mi ha voluto.

Quella canzone mi sembrava eccessiva; il si esce poco la sera, cantato in un verso successivo, non mi riguardava. A quarant’anni di distanza, invece, mi sembra ben adattarsi al caso.

All’epoca non ammettevo si ponesse la questione del rispetto: scherzando con le mie amiche a chi avrei fatto del male? Il nervosismo dei poliziotti non dipendeva certo da me; eseguivano il loro dovere nel dare la caccia ai cattivi ed io, a pieno diritto, andavo per la mia strada. Mi esponevo, e guidavo come un cretino per le ragazze – che erano belle davvero –, ricordo con precisione; ma anche per far figura con gli amici ai quali avrei raccontato esordendo con un invece io…

E poi forze dell’ordine, politici, giornalisti, esagerano per gli interessi di qualcuno: si sa – e ne sembra sicuro soprattutto chi fa circolare files di Youtube pieni di idiozie –, perciò è lecito fregarsene.

Così pensavo allora e se accadeva che ad un povero cristo, che avrei potuto essere io, facendo la curva con la macchina a tutta, venisse sparato – e accadde – la responsabilità era solamente dei poliziotti, servi dei padroni, aguzzini ed ignoranti anche se che, a loro volta, subivano incidenti e morivano.

In quei casi la riflessione era: mica gliel’ho chiesto io…

Non mi veniva in mente che se qualche cretino – io per esempio – si fosse risparmiato una bravata, forse al medico alla guida di una Porsche, magari distratto, non avrebbe sparato – la sera successiva al mio ricordo – un poliziotto esasperato, forse insonne.

Alle venti della sera di ogni giorno, dall’inizio di marzo, ascolto il quotidiano bollettino di guerra con morti e feriti – tra i quali medici, infermieri, agenti di polizia, addirittura vigili urbani o i fatidici impiegati delle poste – e mi vergogno un po’.

Mi sono imposto di leggere, studiare, lavorare restando a casa e fare anche molta ginnastica per stare bene: il mio star bene lo dedico anche a loro.

 

Sabino Caronia
“FAI CONOSCERE IL TUO AMORE”

Ascolto dal computer la recente canzone di Bono, il frontman degli U2, intitolata “Let your love be known” : “Canta/ come atto di resistenza/Canta, anche se il tuo amore è travolto/ Canta, quando canti la distanza non esiste/ Quindi fai conoscere il tuo amore/ Oh, fai conoscere il tuo amore/ Anche se il tuo cuore è travolto/ Fai conoscere il tuo amore”.

Giorni terribili!

La corona di spine che degenera in coronavirus.

La quaresima che degenera in quarantena.

Che ne è oramai dei tempi liturgici?

E’ tempo di demagogia, di polemiche, di mani avanti, e non solo metaforicamente.

C’é una boccata di ossigeno per la natura ma c’è anche la crisi dei sogni europei di fronte al trionfo dei sovranisti più sfrenati.

Si sentono l’Inno di Mameli, “Azzurro” di Celentano o “Viva l’Italia” di De Gregori cantati dai balconi e a sera si intravedono le lucette dei cellulari tremolanti dietro i vetri delle finestre.

Ecco l’orgoglio e la retorica.

Ecco, con gli eroi in corsia e il “tutto andrà bene”, le lacrime di coccodrillo, la violazione delle più elementari misure di profilassi con le carrozze dei treni stipate fino all’inverosime di persone anche febbricitanti fuggite via in massa come al richiamo di una voce di mamma: “ Scendi giù bello ! Affrettati!”.

Al posto della fede vera ecco l’ansia pseudo-religiosa, con il ricorso discutibile a un Dio tappa-buchi come quello di cui parlava Bonhoeffer.

Niente più “Padre nostro…”, niente più parabola del Buon samaritano!

Come è stato giustamente osservato, il male peggiore è la mancata confidenza col messaggio biblico, l’incapacità di ricavarne l’ascolto nei confronti di Dio, la difficoltà di ricorrere alla preghiera, che è sì comunione ma non coro da stadio.

C’è il “Salve Regina”.

“ Salve Regina,/ madre di misericordia,/ vita dolcezza e speranza nostra, salve/ A te ricorriamo…”.

Con la lettura della Bibbia, si può pregare “nella santa assemblea o nel segreto dell’anima”, come recita l’inno delle lodi mattutine che quotidianamente i sacerdoti recitano.

La gravità del momento chiama le pecorelle del gregge a una maggiore autonomia e a un maggiore protagonismo umano e religioso.

Salvatore Rondello
Q U A R A N T E N A

Quanta prudenza.

Untori sospetti,

Accolti d’inferno,

Restano confinati

All’isolamento

Nelle stanze

Temute di morte.

Evitato il contagio,

Nutrita speranza

Arriva alla vita.

Roma, 20 marzo 2020

Don Santino Spartà
Sono prigioniero nella mia dimora

Sono prigioniero nella mia dimora, senza la nostalgia di trascorrere i giorni in casa, come confida lo scrittore inglese, Gilbert Keit Cherstarton  nel romanzo Padre Brown.

Sogno in un cantuccio dell’anima di restare seduto su un vergine raggio di sole e di accoccolarmi sull’incanto di una iridescenza misteriosa.

Per non privarmi di questo giorno felice, secondo Papa Francesco nell’Evangelii gaudium, mi affaccio al balcone per griffare nella mia giornata, i rosei istanti di un’alba di favola e l’incertezza dorata del crepuscolo.

Il coronavirus, più che scolorire la vivacità intellettuale, ha lasciato, suo malgrado, dondolare sulla penna, paradossalmente, la considerazione di riflettere non sulla inevitabilità della morte , ma di meditare sulla continuità della vita, stando all’opera Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino.

In questo periodo epidemico, incrocio psicologicamente per le strade, i viali,  i parchi e i giardini, appesantiti di una spettrale immobilità, qualche passante, sperduto in questo invisibilmente reale contagio.

Riesco a stordire  questo focolaio  di sindrome febbrile con polmonite di origine sconosciuta, assimilando le Poesie dello spagnolo S. Giovanni della Croce, dove il vigore e l’equilibrio della immagini, tralasciano il registro discorsivo, per spingere l’anima verso l’Altissimo.

Il coronavirus, ingelosito della mia ferrea volontà di stordirlo in un modo inequivocabile, tenta di accusarmi con seducente provocazione, di un quid, che non ha mai palpato immoralmente l’entità del mio agire, alleandosi con caduta di stile, a Il Processo Di Franz Kafka.

Ma sempre innamorato del soprannaturale, lascio dormire nelle mie mani giunte il futuro, senza svegliarlo prima del tempo per non ottenere un presente assonnato.

Soldano Accursio
18 marzo Il cominciamento

La quarantena da coronavirus continua ed io continuo a gironzolare per casa. Ancora non sono arrivato al punto da contare i passi, quando inizierò a farlo comincerò a preoccuparmi seriamente del mio stato di salute mentale. Al momento mi tengo impegnato cucinando quel che capita e in un eccesso di euforia, oggi ho deciso di riprendere le care vecchie telefonate ad amici e parenti. Da quando mia figlia mi ha installato watzupp le ho quasi totalmente dismesse e mi limito ai messaggi scritti; più veloci, più di impatto, meno divagatori.

La quarantena però ha dilatato il tempo e mi ritrovo ad averne a disposizione più di quanto ne vorrei. Preso coscienza di questo e considerate le varie opzioni giornaliere su cosa fare nelle ore che intercorrono fra la preparazione del pranzo e l’ora di cena, ho deciso che oggi sarebbe stata la giornata dedicata alle telefonate, che magari non allungano la vita ma almeno tengono impegnato. Il problema si è presentato quando, scorrendo la rubrica, dovevo decidere chi chiamare per primo, con chi iniziare, chi sarebbe stato il soggetto che avrebbe dato via al nuovo cominciamento.

Di certo non potevo iniziare da mia sorella. Al mio “ciao come stai” avrebbe risposto con una serie di domande in ordine sparso passando da un “dove sei stato” con tono di rimprovero al racconto interminabile dei suoi malanni cronici e, conoscendola, all’analisi tragico/politica/economica dell’attuale situazione che non le permette di uscire da casa per portare a passeggio Nuccio (il cane). La telefonata sarebbe finita dopo venti minuti senza che io potessi spiccicare una parola. La seconda opzione in rubrica era il mio amico Antonio con il quale non ci vediamo da tempo. Ma scartai anche lui perché l’ultima volta che ci eravamo sentiti al telefono (tre anni addietro) mi aveva comunicato che era morto suo padre, e considerato che ci telefoniamo una volta ogni tre anni avevo paura che mi chiedesse chi, questa volta, ci aveva lasciati. Le nostre telefonate si possono catalogare nel genere thriller, una versione casalinga di “In linea con l’assassino”, quel film con Colin Farrell in cui lui è dentro una cabina telefonica mentre un killer lo tiene sotto tiro armato di una carabina. E in questo periodo è meglio evitare questo tipo di domande e di telefonate, se non altro, per mantenere stabile il livello già abbastanza scarso di ottimismo casalingo. Alla fine decisi di telefonare a mia nonna.

Luigi Fontanella

DE GU(a)STIBUS

Guardo sgomento ciò che accade

dal mio specchio e quello altrui…

Arrivare in fondo alle nostre storie

schivando ogni lama che squarcia e divide.

Aprirsi alle ali di un uccello

che lento si levi

e trapassi le nostre disgrazie…

e sgorghi un sagrato di pensieri buoni

sull’acqua liscia e segreta

che lentamente ci sciolga dalle ansie.

Violino d’acqua. Sapienza del tempo.

Orlo e misura. Sogno o abbandono.

21-22 marzo 2020

Stefano Morabito
Semplici pensieri quotidiani

Eccomi qua, un altro pomeriggio simile tanti altri, sdraiato sul letto; pc acceso a cercar di studiare. Pomeriggio simile, ma non uguale agli altri, questa volta un senso d’inerzia e di angosciosa immobilità mi circonda.
Siamo in quarantena a causa del coronavirus, dobbiamo restare in casa! Tento di concentrarmi, una nuova lezione di storia contemporanea mi attende, ma il mio pensiero spazia, attraversa queste nuove incombenze, vuole scorgere una fine, immagina un futuro.
Smarrito in questo astratto viaggio, mentre cerco di riprendere l’attività, d’un tratto la mente si sofferma su una riflessione:
Si dice che il virus attacchi principalmente “i vecchi”. Chissà se i nostri anziani, dopo aver affrontato la guerra, superato la fame e mille altre battaglie, avessero mai pensato di giungere ad una veneranda età per poi trovarsi inermi ed indifesi di fronte ad una minaccia invisibile? Tutto questo è successo in un lasso veramente brevissimo, si stenta veramente a crederci!
Riporto gli occhi allo schermo e mi concentro nuovamente, giungo alla parte sull’Imperialismo inglese e sul capitalismo finanziario. A distanza di un secolo sembra quasi strana tutta questa brama di conquista, di assoggettamento dei popoli e di rapporti esclusivamente d’interessi. Eppure, pensandoci meglio e volendo essere realisti, queste bassezze dell’animo umano non sono mai passate di moda.

Nuovamente la concentrazione mi abbandona e ricomincio a vagare. Stavolta rimango in tema e penso all’Inghilterra.
Il ministro ha detto che per contrastare il virus seguiranno una linea di prevenzione diversa.
“Linea di prevenzione……” Non la definirei proprio così, visto che è basata sull’adottare misure minime che potrebbero portare all’infettarsi anche del 60% della popolazione, per poi creare un’immunità di gregge. Questo politico ha portato uno dei suoi professori in televisione a spiegare la teoria e ha concluso il discorso con una frase che mi risuona continuamente in testa: “Molte famiglie perderanno i propri cari”.
So che gli inglesi non sono famosi per il loro tatto, ma queste parole crude, che in un certo modo suonano come un’imposizione, mi fanno veramente pensare al possibile ritorno di un’epoca buia.
Non mi va di riflettere più di tanto su questo argomento anche se il mio intelletto ritorna ad un discorso affrontato qualche sera prima con una mia amica dottoressa. Si parlava della questione inglese e dopo avermi confidato che, qualche mese fa, ha rifiutato un lavoro da quelle parti, ha posto l’interrogativo su un problema più centrale:
“Come faranno gli italiani che lavorano in Inghilterra, e che magari sono contrari a questa teoria del libero contagio, a ritornare in patria?”
Sicuramente c’è una risposta concreta perché il governo avrà previsto una situazione del genere, ma quella sera non eravamo informati nessuno dei due.
Mi ero prefissato di documentarmi su questo punto.
Che bella idea, adesso comincio a girare un po’ su Google.

M. Teresa Serafini De Fazi
Giornata della poesia 21 Marzo 2020

Splende anche oggi

il Sole

caldo e luminoso

seppur la quarantena

Separa

la poesia unisce

cuori e speranze

inducendo a pensare

a giorni migliori.

4Valentí Gómez i Oliver

HAIKU TRILINGUE

“coronavirus”

Covid 19

s’amaga i ens tortura,

un virus nou

“coronavirus”

Covid 19

se esconde y nos tortura,

un virus nuevo

“coronavirus”

Covid 19

si nasconde e tortura,

e pur si muove

Vincenzo Ruggero
Guerra NBC

Ai primi anni ’70 di un secolo fa a Roma, ufficialetto di complemento ero addetto allo studio della guerra NBC (Nucleare- Biologica-Chimica) presso il Ministero dell’Aeronautica in viale dell’Università. Stavamo agli inizi degli anni di piombo e le riunioni si susseguivano frenetiche presso lo Stato Maggiore; lì io rimanevo impressionato e angosciato dai dettagli tecnico-operativi di un’eventualità terroristica su larga scala o addirittura bellica: tute stranissime da marziano e maschere antigas, docce purificatrici e rifugi anti-atomici, letalità di massa causabile facilmente da virus o agenti chimici.

L’ubicazione dell’ufficio mi permetteva comodamente di tornare a casa a piedi verso le due, in viale Ippocrate, sempre preso dai miei soliti pensieri ma spesso ottenebrato da ciò che via via apprendevo. – Una valigetta di microbi lanciata da un piperino su Roma, e mezza città muore… no, non può accadere, – mi dicevo. Oppure: – Chiusi in un rifugio? E come si fa, senza la libertà di uscire? Impossibile viverci.

Ricordavo da scuola la Grande Guerra con l’uso dei gas asfissianti, per non dire le memorabili pagine di Erik Maria Remarque in Niente di nuovo sul fronte occidentale, eppure quei pensieri all’ombra dei platani lungo il cammino a casa erano più forti. Alla conclusione della ferma rinunciai così, senza troppi dubbi, ad una sicura carriera militare per dimenticare quell’esperienza NBC, seppure solo descritta o al massimo simulata.

E’ cinquant’anni da quei dì e fortunatamente il mondo non ha mai conosciuto tragedie di tal fatta, malgrado sia ad ogni latitudine insanguinato da conflitti e terrorismo, il cui lascito fra qualche anno ridisegnerà confini e realtà geopolitiche. Però ciò che è accaduto nelle ultime settimane ci avvicina virtualmente e velocissimamente allo spettro di una guerra batteriologica planetaria senza precedenti. Come società ci ha trovati fragili ed impreparati, succubi e non dominatori della Storia che, lungi dall’essere deterministica – Karl Popper insegna – si impenna e si sbizzarrisce nel propinarci scenari assolutamente imprevedibili, ad onta di soloni, politici, sociologi e vari parolai.

Oggi sono qua a vivere la quarantena, giusta, che il Governo ha imposto per Decreto Legge, in una guerra forse insidiosa come non mai per la società moderna, contro un microrganismo assassino, nemico invisibile che non conosce razze e confini, che ammazza non tanto per letalità intrinseca quanto per alta contagiosità e conseguenze sanitarie cui è difficile far fronte. Il senso d’impotenza mi investe accanto all’angoscia, col pensiero che per adesso si possono salvare vite umane solo come nel ‘300, isolandoci in casa ad evitare il moderno lazzaretto, aspettando il miracolo del farmaco o del vaccino del coronavirus. L’immagine di Papa Francesco leggermente claudicante per via Del Corso ed in preghiera a San Marcello è stata veramente toccante: mi sembrava di rivivere la peste manzoniana dei Promessi Sposi.

Ringrazio Iddio e mia madre, ora in cielo, che mi hanno fatto così come sono, amante di tutta l’Arte quale pane dell’anima, approdo di ristoro nei momenti drammatici – e ce ne sono…-, salvezza dalla solitudine d’ogni genere. Tutti i giorni mi ripasso qualche libro che ho scritto anni fa – pubblicati o ancora su pennetta – e ascolto la musica degli anni giovanili; telefono a qualche amico ingiustamente trascurato nella frenesia di sempre o riordino un po’ l’emeroteca, archivio prezioso di sessant’anni di lettura di giornali; vago nel mio giardino di sera – in questa primavera ante tempus – o respiro il cielo, magari a caccia di qualche verso da scrivere. Sono un sognatore indomito, lo so, ma percepisco pure i limiti dell’illusione, il pericolo del rifiuto della cruda realtà che ci vede di fatto privi della libertà di uscire, di abbracciarsi, forse di amare, e Dio non voglia di vedere nell’altro il nemico mortale, suo malgrado. Allora nel mio piccolo mi aggrappo a ciò che ho dentro, che sia Arte o Pensiero fa lo stesso, in attesa che il buio si diradi nell’alba incipiente di un tempo che forse sarà epoca nuova per il mondo.

casa mia, oggi 18 marzo 2020

 

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Fabrizio Labarile
APPREZZARE LA LIBERTA’ (un’esperienza covid19)

Molte volte, quando ascoltiamo una sentenza di condanna di “ arresti domiciliari”, specialmente se coinvolge personalità di spicco, riteniamo, quasi sempre con sarcasmo, che si tratta di una pena irrisoria. Anzi, di una specie di “ferie forzate” per restare a casa a trastullarsi o, comunque, fare i comodi propri. Da quando il Governo nazionale per combattere il Coronavirus, con il decreto specifico dell’11/3/2020 ha obbligato i cittadini a restare a casa, il nostro pensiero circa la sentenza succitata, è alquanto cambiato. D’altronde gli esempi di vita c’insegnano che si apprezzano le nostre consuetudini: la salute, gli affetti, le amicizie e, specialmente la libertà, quando si perdono. Molto spesso, quando un’influenza o un lieve intervento chirurgico ci costringe a rimanere a letto per pochi e, a maggior ragione, per molti giorni, rimpiangiamo il periodo di buona salute. E, quasi sempre, ci ripromettiamo che, non appena saremo guariti, sapremo stimare appieno la nostra vita, ringraziando il buon Dio. La maggior parte delle volte, però, quei buoni propositi diventano promesse da marinaio.
In queste due prime settimane, quando c’intratteniamo con i nostri parenti, amici e conoscenti, ovviamente via mediatica, la principale lamentela verte sulla nostra attuale “quarantena”; fortunatamente volontaria per la maggior parte di noi. I rimpianti, spesso simili ai pianti delle prefiche, di dovere restare a casa hanno sostituito frasi come: state tutti bene a casa, il lavoro procede bene, i vostri familiari s’impegnano nello studio e via discorrendo. Al provvedimento governativo, si è aggiunto il comportamento del sole, che regna in un cielo azzurro e terso dall’alba al tramonto regalandoci giorni di primavera e, di conseguenza, rende il nostro “iorestoacasa” una tortura. Molti di noi ci sentiamo come degli ammalati immaginari o convalescenti che devono restare chiusi in casa, escluso l’ora di aria quotidiana che, nel caso specifico, serve per fare la spesa o recarci in farmacia. Si tratta di una realtà che ci penalizza tanto, ma troviamo conforto nel pensiero che ci preserva dall’aggressione del Coronavirus, sempre in agguato. Sia pure con il cuore in subbuglio e un pensiero di solidarietà, siamo costretti ad assistere alle cattive notizie delle persone infette sempre più numerose, e a quelle pietose dei deceduti, anch’essi in continuo aumento.
Il sacrifico momentaneo della nostra “Clausura” deve servire, dopo il periodo del Coronavirus che tutti auspichiamo termini quanto prima, ad apprezzare e lodare la nostra vita che, grazie al rinnovato rispetto delle regole, ci potrà offrire più democrazia collettiva e libertà personale. Il nostro augurio più fervido è che non appena ritornerà la normalità, noi tutti continueremo ad essere uniti e disciplinati come lo siamo ora. Questo invito concerne tutti: cittadini, dipendenti, imprenditori associazioni, sindacati, ma soprattutto le forze politiche. Esse devono evitare le polemiche e le demagogie, ma impegnarsi a risolvere i problemi di tutti gli italiani.

CARLO PIOLA CASELLI
Appunti sul Coronavirus

Un consiglio per i saluti: a parte quello romano, descritto dal bel sonetto di Trilussa, ce n’è uno molto elegante e più asettico, che va bene per amici e amiche: la mano destra portata sul cuore ed un lieve inchino, reciprocamente un po’ più accentuato verso l’altro sesso, invece più sobrio verso il medesimo.

Mi telefona una mia amica, le è piaciuta la soluzione, parliamo del più e del meno, della situazione, poi il discorso si fa più stringente, le dico «Non m’indurre in tentazione» ed ella, essendo molto spiritosa, mi risponde «Noli me tangere!». Ma, come potrei? Siamo ad almeno 7 chilometri di distanza.

Incontrando le forze dell’ordine, ci potrebbe venir chiesto «Quo vadis?» , nel qual caso dobbiamo esibire il modulo rimodulato.

Passando dalle reminiscenze sacre a quelle profane, in base al permesso di portare fuori il fedele amico dell’uomo (e della donna, per pari opportunità), possiamo dire «ma ndo’ vai, se il cane non ce l’hai?».

Romanticherie il tenero bacio di «Amore e Psiche», o quello tra due dame ne «La visita» di Silvestro Lega o quello assai più appassionato di Tranquillo Cremona, per non parlare poi di quell’altro, concentrico, di Giotto; nella letteratura “l’apostrofe rosa” che proponeva Cirano de Bergerac (quando sono stato di passaggio a Bergerac ho udito i più disparati commenti); nella cronaca quello fatalmente compromettente di Andreotti, in quell’albergo al di sopra di ogni sospetto di qualsiasi minima venatura mafiosa, come certificatomi dalla Prefettura.

Ricordo che da bambino, quando udivo una parola muova, chiedevo a mia mamma cosa significasse. Eravamo al mare, nel 1947 (o nel 1948), a Varazze, dove avevo sentito per la prima volta delle persone discutere della “quarantena”, mi spiegò che c’era una nave ferma fuori del porto di Genova, che non poteva esser fatta entrare, per motivi sanitari.

In questo mese, nella prima settimana non si trovavano le mascherine protettive, ora gran parte delle persone le ha, specialmente coloro che lavorano negli esercizi pubblici; alcune assumono un aspetto buffo, anche perché esse sono di diversa foggia, ma ad altre, specialmente se hanno dei begli occhi, stanno molto bene.

Hanno disdetto il carnevale di Venezia, ma senza dover andare nella Serenissima, sono tutti in maschera, anche in quaresima. Era bello il sistema antico veneziano delle bautte, per le signore, o del ventaglio, che può proteggere anche da uno starnuto, specialmente quelli a stecche di legno, sulle quali venivano scritti i nomi dei cavalieri, nei balli.

Invece oggi in televisione anche gli “scienziati” dicono di starnutire sul braccio, che schifo, un sistema veramente antigienico. In che mani siamo finiti?

Tornando alla bautta, o al coprivolto mussulmano che lascia scoperti gli occhi, dando risalto ad essi, nel 2016 sul n. 38 di «Voce Romana» avevo scritto «Via col velo», disquisendo sulla libertà di vestirsi come si voglia, salvo la proibizione dell’uso in pubblico del “burka”.

Entrare in Banca in questo periodo è come passare le “forche Caudine”, interrogatorio espiatorio di quarto grado, molti se e molti ma, tanti respingimenti. Trovo giusto assumere tutte le cautele, ma che non occorra per questo trattare delle persone sanissime, magari più sane di loro (con «mens sana in corpore sano»), come degli appestati. Venerdì della scorsa settimana dovevo fare un bonifico urgente, mi è stato detto di farlo telematicamente, ma non ho la chiavetta poiché non uso il telefonino; dovevo far annullare un assegno, la funzionaria mi ha risposto arrogantemente che lo potrò far annullare con calma tra alcuni mesi, le ho fatto presente che se non si annulla quello non posso richiedere un altro libretto (cosa che avrebbe dovuto sapere). Posso tuttavia manifestare indulgenza plenaria da parte mia, poiché, sia pur “obtorto collo”, mi ha dovuto far entrare! Mi ha fatto accucciare su un divanetto, mi ha chiesto i documenti, poi dopo un po’, forse scrutando nel suo sistema informatico che ero degno di attenzione, mi ha fatto passare al cospetto di un’altra funzionaria per svolgere, a rispettosissima distanza, le mie pratiche.

Fin qui tutto abbastanza normale, salvo la voce irritata, prima del vigilante, poi della prima funzionaria e quindi della seconda, una vera e propria reazione a catena.

Ma ciò che mi ha riempito di stupore e di meraviglia, e me lo ricorderò per tutta la vita, fin che campo, e forse anche oltre, è stato quello che ho udito pochi istanti dopo, poiché parlavano ad alta voce tra di loro ed animatamente, quindi non si poteva non sentire, mentre la seconda funzionaria mi svolgeva le tre pratiche, il vigilante con la prima funzionaria ed un’altra persona (o con altre due, non mi sono impicciato) hanno ripreso la loro conversazione e si son messi a discutere animatamente, poiché lui sentiva il bisogno, il grande, il grandissimo bisogno di andare in chiesa, di andare a messa, la mattina di andare a fare tutti i giorni la comunione, sentendosi così più forte, fortissimo, per affrontare la giornata, e tutto quel gruppetto, null’altro avendo da fare, annuiva, inveendo contro il Papa, dicendo che lui aveva proibito le funzioni pubbliche perché aveva paura, lodando invece un cardinale, ritenendo che avesse fatto bene a conceder di praticarle nella parrocchia di cui era titolare.

Sul piano religioso, considero che avessero la massima libertà di esprimere, di esporre, di discutere sui loro punti di vista, sui loro bisogni interiori, ammirando che la loro fede fosse più forte del coronavirus. Anche perché si potrebbe andare in chiesa e porre l’ostia in una scatoletta sull’altare, come fanno i celiaci, e poi prenderla, tenendo le dovute distanze di sicurezza e facendo delle messe per poche persone di fede adamantina.

Non mettendo in discussione quindi i loro legittimissimi sentimenti, trovo però assai incongruo il loro concetto liberale al massimo sulle pratiche religiose ed altrettanto restrittivo nel luogo di lavoro, a livello di sgarbo, in un altro genere di servizio pubblico, mentre sarei, forse, anzi sicuramente, stato ben accetto se avessi espresso il desiderio di andare a messa con loro a fare il baciapile. L’unico che, a modo suo, mi poteva sembrare abbastanza sincero era il vigilante, avrà sicuramente avuto dei problemi da superare.

Purtroppo i contagi nell’Italia del nord sono molto elevati, ma ciò è anche dovuto al differente clima, rispetto al resto della penisola, al tipo di territorio, circondato da montagne, al ricco sistema irriguo, ai grandi fiumi, ai laghi, ai canali, alla condensa dell’aria, assai utile all’agricoltura ed alle industrie alimentari ma non altrettanto alle vie respiratorie; sul territorio, ricordo le bellissime pagine di Carlo Cattaneo, negli «Scritti sulla Lombardia».

Siamo quasi tornati ai tempi neri della peste, ossia indietro da qualche secolo, ricordo quando una ventina d’anni fa facevo delle ricerche storiche sull’argomento, ed ero andato a fare un sopralluogo all’Isola del Lazzaretto Vecchio di Venezia, consultando anche gli «Annali d’Italia» oltre che «Del Governo della Peste e delle maniere di guardarsene, trattato di Lodovico Antonio Muratori, Bibliotecario del Sereniss. Signor Duca di Modena, diviso in Politico, Medico ed Ecclesiastico, da conservarsi et aversi sempre pronto per le occasioni, che Dio tenga sempre lontane», Modena, 1714, con alla fine la preghiera a Gesù e le note musicali, poi un’altra edizione del 1721 in cui al titolo è framezzato «Accresciuto con giunte e con la Relazione della Peste in Marsiglia, pubblicata dai medici che hanno operato in essa con alcune osservazioni ed altre aggiunte da unirsi», o la sua «Lettera su la peste di Messina».

O siamo tornati come ai tempi del colera. Proprio un mese fa ho letto un rarissimo opuscolo, di grande formato e di molte fitte pagine, di Alessandro Lamarmora, «Il Cholera Morbus del 1854 nel Presidio di Genova» (in cui il suo nome però compare nella sua prima pagina di presentazione, datata Aprile 1855), pubblicato nella medesima città, poche settimane prima della sua partenza per la Crimea, dove è morto colpito da esso, in cui egli, essendo comandante di quella divisione militare, si era interessato moltissimo all’epidemia, nelle varie caserme, negli ospedali, sulle navi, discutendone con i medici, con acutissime osservazioni al riguardo; ha provveduta a scrivere anche il paragrafo «Norme che si consigliano doversi seguire nelle invasioni coleriche», a p. 45; la pagina che, però, ha maggiormente attirato la mia attenzione è la 41, con quello «Scuderie – Loro benefica influenza sulla salute dell’uomo in mezzo al cholera», poiché ha osservato che i luoghi non colpiti (o minimamente) dal morbo fossero quelli usati dalla cavalleria. Chissà che oggi la scienza non possa riflettere su un’osservazione empirica ma comunque estremamente interessante.

Franco Carlo Ricci
Appunti per un racconto ai tempi della pandemia “Corona virus”. Anno del Signore 2020, marzo

“E’ la solita storia del pastore…” (Francesco Cilea, L’Arlesiana)

Era nato a Rocca di Mezzo, in Abruzzo, da genitori dediti alla pastorizia da sette generazioni, Gabriele. Con il suo gregge trascorreva non pochi mesi dell’anno sui Prati del Monte Sirente, nel lato sud-ovest della catena, ricco di erba da pascolo e di fieno di montagna.

Suo madre aveva voluto chiamarlo così perché molto devota a San Gabriele dell’Addolorata che morì giovanissimo, a ventiquattro anni, nel 1962. Con l’amato, unico, figlioletto, periodicamente, ma soprattutto quando aveva bisogno di qualche grazia speciale, si recava al Santuario a lui dedicato nel comune di Isola del Gran Sasso d’Italia, dove il Santo era morto.

Gabriele, ugualmente legato al suo culto, viveva in montagna, ad eccezione dei mesi invernali, da quando, terminata la scuola elementare, senza poter frequentare quella dell’obbligo, aveva dovuto farsi carico della famiglia. Il padre, infatti, precocemente invecchiato per una serie di mali contratti in guerra, non era in grado di lavorare e la madre non riusciva a fare altro che occuparsi delle sue infermità.

Se la vita spartana aveva giovato alla crescita in ottima salute di Gabriele la solitudine ne aveva acuito le capacità di riflessione e valutazione di ogni evento. I primi anni trascorsero serenamente, anzi si sentiva orgoglioso di essere capace di affrontare, così giovane, una vita tanto dura e sacrificata. Presto divenne di bell’aspetto, anche se di modi rustici per l’esclusiva compagnia delle pecore e dei cani pastore. Con le pulsioni del corpo sempre più impetuose, però, e le ore di noia più frequenti incalzava l’esigenza di cambiare vita e sostituire agli orizzonti della natura, pur meravigliosi, quelli umani, ancora ignoti.

Tali esigenze gli fecero desiderare di ampliare le proprie conoscenze con la lettura di libri che raccontassero storie d’amore e di ascoltare, con una radiolina a transistor, tanta musica, soprattutto classica. Da quando, per puro caso, si era imbattuto in una sinfonia di Čajkovskij, la musica era come se gli dilatasse i polmoni, travolgesse le dighe della sua mente.

Per procurarsi da leggere, la prima volta che andò in paese a trovare i genitori, si recò in una piccola libreria dove gli furono consigliati, anche se in edizioni ridotte e semplificate, alcuni romanzi ottocenteschi, soprattutto francesi e russi. In un’edicola fu attratto da rotocalchi le cui copertine sfoggiavano fotografie di avvenenti attrici del cinema.

Tali esperienze, naturalmente, non potevano non sollecitare pensieri ed emozioni mentre accrescevano la sua inquietudine e il desiderio di porre fine, quanto prima, alla sua vita monotona. Gli appariva ormai priva di significato. Ne voleva una diversa, movimentata, tra la gente, desiderava prendere parte a feste, avere avventure amorose.

Il giorno del compleanno del padre mise al sicuro le pecore nel grande stazzo e scese in paese per qualche ora. Lo festeggiò amorosamente, poi si avvicinò alla madre, le prese la mano e, dopo qualche esitazione, disse:

  • Papà, mi dispiace molto, proprio il giorno della tua festa, darti forse un dispiacere. Da alcuni anni, come sai, vivo in montagna, in assoluta solitudine, e non mi sono mai lamentato. Ora però sono stanco e ho assoluta necessità di cambiare vita. Tra poco diventerò maggiorenne e ho anche il diritto sacrosanto di assumermi completamente la responsabilità della mia vita e di andare alla ricerca di quello che mi sta a cuore.
  • E che ti sta a cuore, figlio mio? – chiese il padre allarmato mentre la madre, improvvisamente impallidita, non riusciva ad articolare parola.
  • Voglio andare a vivere tra la gente, smettere di parlare soltanto alle pecore e ai cani. Posso realizzare questo desiderio soltanto andando a vivere in una città.
  • E come fai a mantenerti? Lo sai che in città la vita è molto cara e che si compra tutto, anche l’aria che respiri?
  • Lo so ma io mi troverò un lavoro, uno qualsiasi.
  • E tu pensi che appena arrivato in città troverai un lavoro?
  • Spero di sì perché non ho alcuna pretesa. E un lavoro, anche umile come quello che fino ad ora ho fatto, nessuno me lo vorrà negare. E poi, se avrete pazienza di vivere per un po’ di tempo soltanto con la tua pensione di invalidità, ti prometto che presto comincerò ad inviarvi qualche aiuto dalla città.

Seguì un lungo silenzio durante il quale Gabriele tenne gli occhi fissi al pavimento. Li alzò soltanto quando il padre, stringendo le mani della moglie tra le sue, dopo un profondo sospiro, disse:

  • Figlio mio, tu sai quanto ti vogliamo bene e che siamo pronti a qualsiasi sacrificio pur di farti contento. Che Dio ti protegga.
  • Rimane da decidere cosa fare delle pecore. Pensi di venderle o affidarle a qualche altro pastore? – chiese il figlio.
  • Non posso venderle, sarebbe per me un dolore troppo grande. Ci hanno dato da vivere da tante generazioni!
  • E’ giusto – rispose Gabriele – Appena avrai trovato un’altra soluzione me lo farai sapere. Non ho fretta.

Abbracciò e baciò i genitori con grande tenerezza e, dopo un’ultima carezza alla madre in lacrime, se ne andò per raggiungere le sue orfanelle in montagna.

Nell’affrontare la faticosa salita ai prati del Sirente si sentiva più leggero. Gli sembrava di avere le ali ai piedi e non vedeva l’ora di riabbracciare soprattutto gli agnellini nati da non molti giorni. Prima ancora di vederlo le pecore lo accolsero con un gioioso, corale, belato mentre i cani pastore si misero ad abbaiare e gli corsero incontro. Era il tramonto. Il cielo si tingeva di un rosso intenso, quasi a sottolineare con un sorriso la bontà della sua scelta. Quel momento non lo dimenticherà mai.

Dopo un paio di settimane un pastore che custodiva il proprio gregge non molto lontano dal suo lo raggiunse per comunicargli che, su richiesta del padre, tra una settimana, lo avrebbe sostituito nella cura degli animali.

Nei sette giorni prima di lasciare i prati del Sirente visse in uno stato di indescrivibili emozioni; la gioiosa speranza di andare incontro ad una vita totalmente nuova e gradita si fondeva con il rimpianto di abbandonare, forse per sempre, una pace e una natura di indescrivibile bellezza che difficilmente avrebbe potuto godere altrove.

Al momento di partire, chiamò per nome le pecorelle e i cani pastore ai quali era più affezionato; quando gli furono intorno li salutò amorosamente con le stesse parole che avrebbe rivolto a persone amiche. Tra le lacrime confessò che non avrebbe mai dimenticato gli anni trascorsi con loro.

Passò a salutare i genitori che vide molto preoccupati perché non sapevano dove sarebbe andato ad abitare e che lavoro avrebbe fatto per vivere. Ma li tranquillizzò dicendo che sarebbe stato ospitato dalla Comunità di S. Egidio, a Roma, finché non avesse trovato un lavoro e un alloggio. In ogni caso li avrebbe tenuti costantemente informati.

Così fu, finché la Comunità, che gli aveva assicurato per alcuni giorni vitto e alloggio, non gli trovò un lavoro di cameriere in una trattoria a Trastevere. Il locale, dove ebbe modo di farsi apprezzare per la diligenza e la gentilezza nel servire i clienti, era frequentato da ogni sorta di artisti e attori cinematografici, anche di una certa notorietà. Un giorno uno di essi, che lo aveva preso in particolare simpatia, lo informò che a Cinecittà stava interpretando un ruolo di una certa importanza in un film prodotto dagli americani. Era ambientato nell’antica Roma e prevedeva scene di massa; sarebbero state girate nei prossimi giorni e il regista era alla ricerca di numerose comparse.

  • Perché non ti fai vedere? – disse l’attore a Gabriele – Penso che per l’età, la statura e la tua avvenenza potrai avere buone possibilità di una qualche scrittura.

A Gabriele parve un buon suggerimento. Nel giorno di riposo dal lavoro si recò a Cinecittà e si presentò nell’ufficio che registrava le aspiranti comparse. Fortuna volle che, in quel momento, fosse presente il regista del film che, da una rapida occhiata, si rese conto che era idoneo per una particina. Quando tornò dopo una settimana gli fu detto che gli era stata assegnato un piccolo ruolo che lo avrebbe impegnato per almeno un mese.

Il proprietario della trattoria, a malincuore, lo lasciò libero sperando di rivederlo presto.

La particina non dispiacque affatto a Gabriele non soltanto perché gli fruttava un certo guadagno ma soprattutto perché lo impegnava in una clandestina relazione con una matrona romana, all’insaputa dell’impegnatissimo marito senatore. L’attrice con la quale doveva girare le scene d’amore, giovane e piuttosto avvenente, facilitò il compito a Gabriele che, per la prima volta, aveva tra le mani tanta bellezza. Interpretava con tale slancio la sua parte che il regista, suscitando l’ilarità di tutta la troupe, più di una volta dovette invitarlo a non scambiare la finzione con la realtà.

Le scene d’amore continuarono anche privatamente con la matrona che sparse la voce tra le numerose attricette di spirito liberale; in molte cominciarono così a corteggiare e a sedurre il focoso pastore abruzzese ben contento di realizzare quello che tante volte aveva sognato nella solitudine montana.

Presto Gabriele uscì dall’anonimato e a Cinecittà divenne un personaggio; era infatti richiesto non soltanto in privato per le sue capacità amatorie ma anche per un istintivo talento attoriale che gli consentiva di interpretare in modo efficace qualunque parte gli venisse assegnata.

Dopo alcuni mesi, durante i quali viveva a tempo pieno nella città del cinema, il colpo di fortuna; un importante regista italiano lo scritturò per un impegnativo ruolo che sembrava concepito per lui; il protagonista infatti era un giovane don Giovanni di provincia, medico di professione, tormentato e alla ricerca di sé. Dopo una vita dissoluta egli comprende finalmente il male e le sofferenze che ha sparso a piene mani nell’universo femminile e decide di dedicarsi alla ricerca; vuole scoprire una cura per la sclerosi a placche che aveva colpito una delle ultime, bellissime, sue vittime.

Gabriele lesse il copione e ne rimase colpito; molte erano, infatti, le affinità con il protagonista del film che, pur affascinato da una vita sregolata, alla ricerca del piacere senza limiti, è tormentato da un’esistenza senza costrutto, ispirata all’egoismo più cieco.

Il film, che si avvaleva di bellissime attrici di fama internazionale, ebbe un enorme successo. Gabriele addirittura fu candidato all’Oscar come migliore attore protagonista di un film straniero.

In considerazione della sua avvenenza e della straordinaria, innata attitudine alla recitazione che si andava sempre più e meglio delineando, intrattenne “storie” amorose, più o meno impegnative con alcune protagoniste del film. Ma anche al di fuori del turbinoso mondo del cinema la sua attività erotica sembrava irrefrenabile. Dopo il primo compiaciuto stordimento, Gabriele cominciava a sentire amarezza, frustrazione, sensi di colpa. Avvertiva, oltre alla smania di possedere tante donne, tra loro anche molto diverse, la necessità di non rinunciare al loro amore, alla loro sensibilità.

Ogni storia lo faceva crescere, maturare, gli dilatava lo spirito, la mente tanto che desiderava condividere l’amore con tutte, sempre.

Le esperienze che viveva, le persone che incontrava ed amava rispondevano ad una precisa necessità interiore: conoscere profondamente sé stesso per poter vivere una vita intensa, piena, non banale che placasse le inquietudini e gli desse pace.

Approfondì sempre più la riflessione sulla natura umana maschile, l’unica di cui poteva fare esperienza a causa del suo assoluto egocentrismo. Si rese conto della complessità sfuggente dell’uomo e della sua necessità, per realizzarsi a pieno, non soltanto di scavare nella propria interiorità ma anche di compiere grandi viaggi, avere numerosi incontri, conoscere tante persone diverse.

Tutte le donne della sua vita, di varia cultura, estrazione e carattere, lo avevano arricchito e, in qualche caso, reso anche momentaneamente felice, ma nessuna lo aveva completamente appagato. Fossero state sensualissime, o dolci e sottomesse, o vivaci e intelligentissime o materne. Da tutte aveva avuto molto, a tutte aveva dato molto; tutte gli avevano lasciato un segno.

Ad un rapporto che si concludeva o si raffreddava, però, seguiva sempre una lacerazione, un senso di morte, in netto contrasto con il suo disperato bisogno di vita.

Quando maturava il proposito di non rendere esclusivo un amore per orientarsi verso altre esperienze, cercava, per questo, di convincere le sue donne, con passione, non di rado con successo, che i suoi comportamenti non nascevano da animo perverso ed egoista e che il suo era un sincero e disperato bisogno di capire sé stesso e il mondo, di trovare serenità e pace.

Alcune condividevano il suo modus vivendi, che a volte coincideva con il proprio, spesso però cedevano alla nostalgia di rapporti convenzionali, meno inquietanti e precari, e interrompevano ogni legame. La sofferenza acuta che ne seguiva distruggeva in lui, immancabilmente, una parte essenziale.

L’ultima lacerazione lo aveva fatto cadere in una crisi profonda. Ne era stata causa una creatura molto bella, con soffici capelli biondi come oro, occhi di un verde cupo e lo sguardo perduto in una ineffabile nostalgia; di intelligenza sottile e femminilità irresistibile appagava ogni suo sogno. Senza volerlo, però, proprio lei, lo aveva ferito a morte con la sua stessa arma.

Eleonora, così si chiamava, per l’amore totalizzante per Gabriele, ne aveva compreso il rapporto nuovo, libero, originale che le aveva proposto e lo aveva adottato senza esitazione. Spinta da profonda pietà e spirito di redenzione, pur continuando ad avere comunione d’intenti con lui, si era lasciata attrarre da un giovane bellissimo, intelligente ed inquieto che presto, però, le aveva rivelato la sua invincibile tossicodipendenza. Come un naufrago senza speranza, si era legato a lei in modo disperato ed esclusivo con comportamenti asfissianti che angosciavano la ragazza. Arrivò persino a minacciare di uccidersi e di ucciderla se avesse dovuto dividerla con Gabriele.

La ragazza, mossa da pietà e paura, aveva accettato fino in fondo il ricatto e anche quando il giovane venne meno non volle più vedere Gabriele.

Dopo non molti anni, grazie ai successi che come attore lo avevano reso famoso nel mondo e alla cospicua ricchezza, Gabriele concepì il progetto di una comunità che, se poteva apparire utopistica, riteneva assolutamente realizzabile; avrebbe consentito, infatti, a tutti i suoi componenti, di vivere, nella meravigliosa realtà dell’esistenza, l’amore in tutte le manifestazioni, con assoluta libertà e senza sofferenza per nessuno.

Per esporre il suo avveniristico progetto invitò nella sua bella villa nella Valle d’Orcia, in Toscana, molte delle sue conquiste, con i loro eventuali partner del momento, e anche, ma senza speranza, Eleonora.

Dopo un festevole pranzo espose il suo piano di una comunità ideale, anche se in apparenza utopistica, che potesse dare forma e vita ad una società articolata e policentrica. I suoi componenti però non dovevano comportarsi come monadi chiuse e impenetrabili ma essere sempre in libera e spontanea comunicazione grazie all’amore e alla donazione reciproci. Nei rapporti interpersonali la libertà di ognuno doveva avere come limite soltanto la generale accettazione.

Ognuno, quindi, poteva compiere le proprie azioni ed esperienze soltanto se esse non avessero procurato sofferenza ad alcuno.

La gestione di tale comunità, preferibilmente non molto ampia, doveva essere affidata a turno, e per un periodo limitato, ad un primus inter pares coadiuvato da alcuni collaboratori.

Nessuno poteva rifiutare di assumersi tale responsabilità, pena l’esclusione dalla “comune”, anche coloro che non si ritenevano in grado di sostenere tale incarico o non ne avevano desiderio. Tale impegno di “servizio” avrebbe aiutato tutti ad essere autenticamente umili e a scongiurare qualunque forma di egoismo.

I figli, per la loro educazione e formazione, dovevano essere sentiti e vissuti come di tutti ma non si doveva negare ai genitori “naturali” di provare un affetto particolare per i propri.

Allo stesso modo i nati nella comunità non dovevano privarsi di sentimenti particolari nei confronti di coloro che non li avevano generati.

Nei rapporti d’amore tra adulti ognuno poteva manifestare le proprie preferenze, rimanendo, unico vincolo, la disponibilità dell’altro a corrispondere. Ognuno, anche se con comprensibile sofferenza, doveva rispettare le scelte e le decisioni di coloro che intendessero mutare predilezione.

Profondamente convinto dell’unicità di Dio Gabriele voleva si lasciasse ad ognuno la libertà di professare la propria fede anche in periodici incontri di preghiera collegiali.

Tutti gli amici e le amiche di Gabriele ne condivisero, anche se con diverso grado di convincimento, i principi e il progetto. Persino la titubante Eleonora, cui Gabriele teneva in modo particolare, li aveva accolti. Si decise così di dare inizio all’esperimento tra qualche mese, in primavera, per trovare uno spazio idoneo, organizzare il tutto al meglio e consentire ad ognuno di risolvere i propri problemi.

Poiché l’adesione era stata libera e convinta, dopo qualche incertezza iniziale, la coesistenza nella piccola comunità sembrò dare buoni frutti. Inizialmente i rapporti amorosi erano rimasti sostanzialmente quelli iniziali, nel senso che ogni coppia rimase fedele a sé stessa. La stagione primaverile e poi estiva, trascorrendo tutti molte ore all’aperto, nella verdeggiante e poetica campagna toscana, favorivano la serenità e la pace che sembravano aleggiare in ogni dove.

Dopo alcuni mesi di convivenza, però, il naturale affievolirsi dei convincimenti e dei propositi, la quotidianità vissuta in spazi più angusti, il serpeggiare di simpatie e antipatie che non sempre si riuscivano a dominare e a nascondere, cominciarono a diffondere incertezze e malumori. Eleonora che aveva accettato la proposta di Gabriele, nella segreta speranza di riannodare con lui un rapporto ancora vivo nella sua anima, già da qualche tempo si era allontanata. Da più parti si sollecitavano incontri e discussioni perché sembrava che la comunità navigasse a vista in un mare sempre più inquieto. Anche Gabriele, soprattutto dopo l’uscita di Eleonora, non si nascondeva il dubbio, se non il pentimento, di aver coinvolto tante persone in una esperienza che rischiava di fondarsi su principi astratti e forse inattuabili.

Nulla di questa iniziale crisi, però, trapelava nelle località circostanti nelle quali si vennero creando, in ogni caso, due schieramenti; a coloro che invidiavano i protagonisti dell’esperimento, tanto da ipotizzare l’adesione a quello che era ritenuto un modello di grande civiltà, si opponevano coloro che la ritenevano un inaccettabile centro di corruzione e depravazione nel cuore della millenaria e sana civiltà contadina toscana.

Il dibattito all’interno della comunità si andava sempre più animando senza che si intravvedesse una via di uscita. La soluzione al problema, però, non tardò a venire, ma dall’esterno. In una cupa notte d’inverno, inaspettatamente, ci fu un assalto brutale da parte di un gruppo di fanatici integralisti, tra i quali non pochi giovani, che si richiamavano nientemeno a un famoso vescovo francese. Senza alcuna pietà furono date alle fiamme le modeste ma confortevoli e aggraziate abitazioni che andarono interamente distrutte. Non ci furono vittime, per fortuna, ma numerosi feriti.

Il sogno ormai era infranto. Nei membri della comunità, seriamente provati da un’aggressione così dura, violenta e ai loro occhi inaccettabile, si acuirono i dubbi sulla bontà di un esperimento utopistico e velleitario, che doveva essere considerato fallito. Tutti si dispersero disordinatamente e rientrarono negli ambienti e, per chi ancora le aveva, nelle famiglie di provenienza.

Eleonora, che era andata a vivere da una cara amica in un’altra regione, apprese dai giornali l’accaduto. Poiché conservava amorosamente il numero di telefono di Gabriele lo chiamò d’istinto. Si dettero un appuntamento a Roma, in un albergo vicino alla Comunità di S. Egidio, a Trastevere, per il giorno seguente.

Protagonisti dell’incontro furono i loro occhi e il silenzio. Dopo essersi abbracciati Gabriele prese le mani di Eleonora e le strinse tra le sue. Si guardarono a lungo senza proferire parola mentre, di tanto in tanto, i loro occhi si illuminavano di lacrime di luce.

Giunta ormai la sera, Eleonora che aveva promesso all’amica di tornare presto, chiese a Gabriele di essere accompagnata alla stazione dove l’attendeva un treno notturno per Venezia. In taxi, abbracciati, in un silenzio più espressivo di qualunque gesto d’amore, decisero che non si sarebbero più separati.

Andarono a vivere nella villa di Gabriele in Toscana, abbandonata durante l’esperimento comunitario.

Con il passare dei giorni, con crescente meraviglia e gioia andarono prendendo coscienza che solo personalità complesse, libere, maturate nella sofferenza, come le loro, potevano realizzare un’unione autentica, avveramento di un sogno altrimenti difficile, forse impossibile. L’unità poteva contenere la molteplicità; la molteplicità, invece, non era in grado di fondersi in unità e vitale sintesi, senza residui insidiosi e dolorosi.

Al termine del racconto son venuto a sapere da Gabriele che gli anni che sta trascorrendo con Eleonora accanto, nel ricordo anche di quelli vissuti nella splendida solitudine del Monte Sirente, regalano a lui e a lei una serenità e una pace che mai avrebbero sognato di godere. Di questa notizia gli sono molto grato.

 

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