Diario in coronavirus

Diario in coronavirus con grani di scrittura – 12°

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Federazione Unitaria Italiana Scrittori
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Diario in
coronavirus
con grani di scrittura

12°
Domenica di Lettura –
31 maggio 2020

Indice

Proponente FUIS – Natale Antonio Rossi
12° testo proponente FUIS


Probabile conclusione del DIARIO: 7 giugno 2020

Tirare le somme per una nuova vita della FUIS
La necessità di indicare per tempo la possibilità di interrompere questa esperienza di scrittura (e di vita da scrittori) che ci ha occupato per giorni, settimane e mesi di coronavirus, offre più di una opportunità di positiva riflessione. Sempre che non si debba continuare la clausura.

La prima considerazione è quella di pensare a come continuare a produrre idee, riflessioni, scritti e ipotesi di scrittura e come la FUIS o Federintermedia possano raccogliere e diffondere ciò che producono gli scrittori associati.
Sono a disposizione ciò che la FUIS ha messo in piedi: i due portali FUIS e di Federintermedia – con relative WEB TV, e i portali delle riviste. Tra queste www.scrittoritaliani.com che apre le porte, anzi le spalanca a coloro che si dichiarano disponibili a collaborare. Saranno preferite, ovviamente, le firme del DIARIO che hanno già dato prova di saper stare insieme (in queste dodici settimane, non si sono state acrimonie, avversità, neppure in caso di errori – sempre possibili – o refusi).
C’è bisogno che siano avanzate proposte personali per costruire un gruppo di scrittori/autori disponibili a collaborare. Insieme a chi dall’estero ci invierà loro contributi.
Continueremo a raccogliere testi? Può darsi. In tal caso, ci daremo altri e nuovi temi.

Intanto, la FUIS propone di
– accogliere idee, progetti di valore, proposte originali per realizzare prodotti audiovisivi utilizzando la CASA DELLO SCRITTORE. E’ in corso un allestimento con scenografie per dare esecuzione ai due premi:
Cinque figure femminile delle tragedie greche” e al casting per attrici conseguente;
Monologhi, biloghi e triloghi
I due concorsi saranno videoripresi, diffusi in streaming e in ragione della qualità delle esecuzioni “montati” come prodotti audiovisivi.
Si potrà, inoltre, nel rispetto di tutte le norme realizzare pomeriggi o serate a spettacolo, diffonderli in streaming.
Sarà necessario fare di più. Si propone, per es., di avviare riflessioni su temi che, per fortuna, l’epidemia di coronavirus ha reso imprescindibili. Quali riflessioni, conversazioni su
diritti naturali, per es., diritto di vita e dignità di morte….,
diritti sociali, istruzione e cultura, uguaglianza e sanità….,
diritti civili, necessità di una riforma della democrazia….,
nuovi diritti, diritto alla conoscenza, diritto all’oblio……
Gli scrittori ritengono che l’epidemia del coronavirus, possa essere occasione per riflessioni e per l’azione futura, nonostante il disastro delle persone offese e morte in isolamento per carenza delle strutture di sanità e non per il coronavirus.
E pensano, ancor di più, che l’universo sia inteso come uno, senza confini: la loro cultura e la loro produzione delle opere e dell’espressione artistica, mai stata domestica né nella progettazione, né nella diffusione.

La F.U.I.S. propone il 1° esempio di
Bandiera del Mondo

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Salvatore Rondello*
Europa, cambiano le bandiere per l’Ue?

Avanti

Un’interessante proposta è stata lanciata dalla Federazione Unitaria Italiana Scrittori per cambiare le bandiere degli Stati appartenenti all’Unione europea.
La Fuis, dall’inizio dell’emergenza per l’epidemia del ‘coronavirus’, ha iniziato una raccolta antologica settimanale dove sono state pubblicate le riflessioni di poeti e scrittori sul particolare momento storico che stiamo vivendo.
Come ha sottolineato il prof. Antonio Natale Rossi: “Gli scrittori, gli artisti che potrebbero continuare con un elenco di situazioni e istituti da considerare con occhio speciale, preferiscono farsi riconoscere per le qualità che la cultura, l’arte e la storia affidano loro: produrre opere dell’ingegno artistico e letterario di risonanza universale (oggi ancora di più di ieri come insegna l’epidemia globale del coronavirus)”.

Nell’antologia della DOMENICA DI LETTURA dopo Pasqua, il prof. Francesco Gui, docente ordinario di Storia Moderna all’Università La Sapienza, ha scritto: “Gli scrittori italiani ed europei auspicano di vedere i due grandi gruppi, gli Stati Uniti d’America e gli Stati Uniti d’Europa, uno di fronte all’altro, porgersi la mano attraverso i mari”.
Come scrive Antonio Filippetti: “Perché questo avvenga, non solo c’è bisogno di rispettare la “carta europea dei diritti dell’uomo”, perché contravvenendo a questo precetto si corre il rischio di vedersi “manipolati” in un bene fondamentale, come quello della libertà, con la scusante dello “stato d’eccezione”, ma c’è anche la necessità di proporre idee e novità”.
A ciò risponde l’inserimento delle bandiere,

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graficamente realizzate dall’artista Mino La Franca nella 7° antologia del DIARIO IN CORONAVIRUS CON GRANI DI SCRITTURA, dove si legge: “Si tratta, infatti, di un’ipotesi letterario-artistica onde corredare le bandiere dei Paesi europei di dodici stelle, simboliche, al fine di dare un segno della volontà degli scrittori per un’EUROPA UNITA con la costruzione degli STATI UNITI D’EUROPA. Una volontà che si inserisce nelle qualità degli scrittori italiani di proporre valori e contenuti universali”.

Così gli scrittori italiani propongono un’Europa Unita anche nelle bandiere. E’ evidente il grande significato simbolico nel ricordare di appartenere all’Europa unita. Ma, soprattutto simboleggia l’anima dell’Europa che pulsa in ciascuna bandiera dei Paesi membri, superando ogni forma di appiattimento nazionalista. Un grande passo avanti verso quel completamento non ancora avvenuto ma per il quale bisognerà impegnarsi nel realizzarlo al più presto. L’emergenza del Coronavirus ha messo in evidenza i limiti esistenti in questa Unione ancora incompiuta che, al momento, somiglierebbe più ad una consorteria tra Stati membri, dove gli attori entrano in scena facendo il giuoco delle parti, dimenticando spesso tutto ciò che Li unisce.

Il sogno è quello di un’Europa con una Costituzione compiuta che regoli i rapporti etici ed i diritti umani, gli apparati istituzionali per il funzionamento della democrazia, l’organizzazione amministrativa con compiti e funzioni ben definiti.
Le bandiere create da Mino La Franca servono a ricordare la meta da raggiungere.
Il professore Francesco Gui, sapientemente ha illustrato il significato della bandiera europea e le motivazioni storiche che hanno portato alla costruzione dell’Unione europea, una grande opera che rischia di crollare sotto i tempestosi eventi della storia, prima ancora di essere ultimata.
Gli scrittori italiani ricordano che siamo tutti sulla stessa barca. Un’immagine realistica e concreta che rende bene l’idea. Ma, la barca deve essere pilotata nel modo migliore per portare l’intero equipaggio “fuori dai pericoli di naufragio, evitando a qualcuno di affogare per conto suo o magari di venir gettato direttamente in mare dai compagni di sventura”.
Anna Frank nel suo ‘Diario’ scrisse una frase di speranza: “Verrà un giorno”. Quel giorno immaginato dagli scrittori italiani: “In cui vedremo i due grandi gruppi, gli Stati Uniti d’America e gli Stati Uniti d’Europa, uno di fronte all’altro, porgersi la mano attraverso i mari, scambiarsi i prodotti, il loro commercio, le loro industrie, le loro arti, i loro geni, collaborare insieme per trarne il benessere di tutti”
E’ evidente che: “Dagli scrittori della Federazione Unitaria Italiana Scrittori (FUIS), vengono fuori spesso delle cose buone da tenere a mente”.
Così per la nuova bandiera hanno fissato un “Appuntamento il 2 giugno con il tricolore a 12 stelle!”

La bandiera d’Europa, il tricolore con 12 stelle,
proposta dalla FUIS. Francesco Gui e Natale Antonio Rossi a Roma, a piazza Venezia, il 2 giugno 2020

La motivazione della Fuis: “Gli esseri umani hanno bisogno di riti e di simboli, fa parte della loro vocazione come produttori di opere dell’ingegno e di cultura. Tanto più si avverte tale necessità nelle fasi di emergenza, quando il dolore colpisce tantepersone… come il contagio da Covid-19”.
L’emergenza non consente quest’anno di celebrare la ‘Festa della Repubblica’ con la sontuosità tradizionale. La nuova bandiera sfilerà comunque idealmente con un appello diretto al Presidente della Repubblica: “Caro Presidente Mattarella, con il tricolore a 12 stelle la sfilata ai Fori Imperiali verrà fuori ancora più bella!”

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Auspichiamo che l’iniziativa degli scrittori italiani possa presto essere presa in considerazione anche dal Parlamento Europeo.

*E’ Presidente del Circolo “Giustizia e Libertà” di Roma

2. Dacia Maraini , scrittrice
Intervista a cura di Carmelo Cedrone*


DOVE VA l’EUROPA?

Di fronte alla pandemia l’Europa è incerta e sbandata. Le sue debolezze, il suo vuoto confusionale, la sua assenza sulla scena mondiale, risultano evidenti e preoccupanti. Non ha gli strumenti per dare risposte efficaci all’emergenza dal punto di vista sanitario, economico e sociale. Tanto meno è in grado di indicare soluzioni in prospettiva, a medio e lungo termine. Le mancano gli strumenti, la volontà politica e la cultura per farlo. Difficile che le persone possano trovare riparo solo sotto l’ombrello della religione, per secoli comodo rifugio e rimedio ad ogni cosa. A 75 anni dalla fine della guerra, nemmeno di fronte ad una pandemia, l’Unione, meglio alcuni paesi, sono in grado di indicare e di “giustificare” la “ragione” dello stare insieme. Anzi. La decisione della Corte Costituzionale tedesca di questi giorni va in senso contrario. Ci ha ricordato, non trovando nulla di meglio da dirci, che in Europa non si può costruire una Unione democratica, perché manca “un popolo omogeneo” (incredibile, ma fino ad oggi cosa siamo stati a fare?). Perciò il diritto nazionale (tedesco) è prevalente su quello dell’Unione, perché la Germania naturalmente il “popolo omogeneo”, da tutelare, ce l’ha. I giudici della Corte, non un partito xenofobo, hanno utilizzato i principi giuridici con un approccio ideologico, come la Germania fa spesso anche in campo economico e contabile. Una decisione, reiterata, molto grave, che rischia di far saltare il lavoro della costruzione europea fatto sinora.

1^ Domanda Oggi di fronte alla crisi ed alle paure che la Pandemia sta generando si fa un gran parlare, spesso vacuo. Secondo te ci sono le condizioni per un ripensamento serio sul modo di concepire la vita ed i suoi valori? Ciò potrà favorire l’introduzione di regole nuove nel rapporto tra gli attori a livello globale?

RISPOSTA: Ci sono due modi di guardare all’Europa: quelli che la condannano per le sue manchevolezze e finiscono per fare il gioco dei do chi la vuole cancellare come Unione e quelli che vedono le comuni radici, che si concentrano sulle somiglianze più che sulle diversità, che amano le cose fatte ,come per esempio l’ottimo programma Erasmus, per non dire della pace ottenuta dopo secoli di guerre, e per non dimenticare la moneta forte nonostante le tante critiche e i tanti malumori. Io penso che se vogliamo bene all’Europa dobbiamo cercare di mettere in luce le sue qualità, malgrado le difficoltà e i difetti. Dobbiamo suscitare nei giovani la voglia di partecipare. Se tutti criticano l’Europa, sia da destra che da sinistra, è chiaro che poi nascono le voglie di andare via. Il che sarebbe un gravissimo errore storico. Perciò l’Europa ci dovrà essere. In questa prospettiva, sicuramente saprà fare la sua parte.

2^ Domanda. In questo scenario drammatico, com’era prevedibile, emerge chiaramente la divisione e l’assenza dell’Europa, nonostante i suoi generosi tentativi in corso. Questo può portare ad un definitivo distacco dell’opinione pubblica dalle Istituzioni attuali, meglio dalla Germania, che respinge qualunque principio di solidarietà, si oppone al processo di integrazione politica ed alla nascita di una vera Unione? Uno scenario di distruzione che dobbiamo accettare passivamente o si può ipotizzare una Unione senza la Germania per evitare la fine di tutto?

RISPOSTA. Lei dà come scontata la mancanza di adesione della Germania al processo di integrazione della Unione, ma non è così. Chi la pensa in questo modo è una piccola minoranza, anche se istituzionalmente potente. Io sono stata tante volte in Germania e ho potuto constatare che la maggioranza dei cittadini è molto attaccata all’Europa, si considera amica dell’Italia e tiene all’Euro. Non diamo troppo importanza ai catastrofisti. Non mettiamo ogni volta in discussione l’Europa, anche se con l’intento sincero di volerla migliorare. L’Unione già c’è e va difesa a tutti i costi e con amore e fiducia, oltre che con spirito critico puntigliosamente critico.

3^ Domanda. Gli/le intellettuali, le donne e gli uomini di pensiero, della cultura, ignorati e spesso assenti dal dibattito, salvo eccezioni, cosa possono fare per evitare tale “rottura” e/o per salvare quel che resta dell’Unione?

RISPOSTA. Gli intellettuali sono i più attaccati all’Europa. Sono coloro che da giovani hanno utilizzato lo Schengen per viaggiare in altri paesi, che hanno studiato le lingue, che a volte si sono fermati a lavorare nei paesi vicini. Se lei va a guardare, nel campo della scienza, della ricerca, delle arti, del linguaggio, molti italiani sono ormai parte del tessuto connettivo europeo. Non c’è bisogno di fare i portabandiera. Anche se in forma poco visibile e poco riconosciuta costoro esprimono con il proprio corpo l’attaccamento alla Unione. È con fiducia in questi italiani che dobbiamo pensare al futuro dell’Europa.
26 Maggio 2020

*E’ coordinatore del LABORATORIO EUROPA/Eurispes
SALVARE L’EUROPA
* * *

Siamo tutti sulla stessa barca

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Elaborazioe grafica di Mino La Franca

3. Roberto Esposito, filosofo
Intervista a cura Carmelo Cedrone*



E gli intellettuali?
Premessa. Di fronte alla pandemia l’Europa è incerta e sbandata. Le sue debolezze, il suo vuoto confusionale, la sua assenza sulla scena mondiale, risultano evidenti e preoccupanti. Non ha gli strumenti per dare risposte efficaci all’emergenza dal punto di vista sanitario, economico e sociale. Tanto meno è in grado di indicare soluzioni in prospettiva, a medio e lungo termine. Le mancano gli strumenti, la volontà politica e la cultura per farlo. Difficile che le persone possano trovare riparo solo sotto l’ombrello della religione, per secoli comodo rifugio e rimedio ad ogni cosa. A 75 anni dalla fine della guerra, nemmeno di fronte ad una pandemia, l’Unione, meglio alcuni paesi, sono in grado di indicare e di “giustificare” la “ragione” dello stare insieme. Anzi. La decisione della Corte Costituzionale tedesca di questi giorni va in senso contrario. Ci ha ricordato, non trovando nulla di meglio da dirci, che in Europa non si può costruire una Unione democratica, perché manca “un popolo omogeneo” (incredibile, ma fino ad oggi cosa siamo stati a fare?). Perciò il diritto nazionale (tedesco) è prevalente su quello dell’Unione, perché la Germania naturalmente il “popolo omogeneo”, da tutelare, ce l’ha. I giudici della Corte, non un partito xenofobo, hanno utilizzato i principi giuridici con un approccio ideologico, come la Germania fa spesso anche in campo economico e contabile. Una decisione, reiterata, molto grave, che rischia di far saltare il lavoro della costruzione europea fatto sinora.

1^ Domanda

In questo scenario drammatico, com’era prevedibile, emerge chiaramente la divisione e l’assenza dell’Europa, nonostante i suoi generosi tentativi in corso. Questo può portare ad un definitivo distacco dell’opinione pubblica dalle Istituzioni attuali, meglio dalla Germania, che respinge qualunque principio di solidarietà, si oppone al processo di integrazione politica ed alla nascita di una vera Unione? Uno scenario di distruzione che dobbiamo accettare passivamente o si può ipotizzare una Unione senza la Germania per evitare la fine di tutto?

Risposta: caro Carmelo, a questa domanda decisiva, se l’Europa possa fare a meno della Germania, risponderei di no. Ciò non toglie che, all’interno dell’Europa, si possa dar vita a un’aggregazione latina. Kojève già dopo la guerra scriveva di un “impero latino”, alternativo sia al blocco centro-settentrionale sia alla linea atlantica del Regno Unito. Non so se oggi possa essere attuale – dipende in realtà dalla Francia. Se voglia o meno sfidare la Germania…


2^ Domanda

Gli/le intellettuali, le donne e gli uomini di pensiero, della cultura, ignorati e spesso assenti dal dibattito, salvo eccezioni, cosa possono fare per evitare tale “rottura” e/o per salvare quel che resta dell’Unione?

Risposta: Anche se gli intellettuali restano fondamentalmente esclusi dalle dinamiche politiche, una determinazione concettuale del significato dell’Unione e, prima ancora, della stessa Europa, sarebbe fondamentale per offrire un quadro complessivo capace di orientare le scelte politiche, sociali, economiche in questi anni di crisi drammatica – una triplice crisi, epidemica, economica, istituzionale – il pensiero deve ritrovare la sua funzione costituente. Anche un discorso ragionato sulle istituzioni – su cosa sono e su cosa possano essere – sarebbe indispensabile. L’istituzione oggi non coincide affatto con lo Stato. Esistono istituzioni infra-statuali e istituzioni ultra-statuali, come l’Unione europea. Ma anche le ong, il volontariato, le associazioni sociali sono istituzioni. Io sto cercando in questa fase di lavorare sul concetto di istituzione, spostando l’accento dall’apparato istituzionale alla prassi istituente. Anche il processo di unificazione politica dell’Europa è parte integrante di questa prassi. Dopo che il diritto – i Trattati – è stato il fondamentale soggetto istituente dell’Unione, oggi deve essere la politica giocare questo ruolo.

* NB: le domande e le risposte sono state formulate prima della proposta franco-tedesca favorevole all’emissione di titoli di debito europeo che potrebbe cambiare la prospettiva dell’Unione, a seconda di come la proposta verrà realizzata.

*E’ coordinatore del LABORATORIO EUROPA/Eurispes
SALVARE L’EUROPA

4. Bruna Corradetti (da Huston – USA ora Galles)
(courtesy di Lorena Fiorini)

Costretti alla cattività, in nome della libertà

Sono trascorsi due mesi da quando abbiamo accettato speranzosi di chiuderci in casa e di rispettare le regole del distanziamento sociale, del non affollare luoghi di svago e limitare i contatti. L’isolamento ci ha imposto di guardarci dentro, di convivere con tutti gli aspetti del nostro essere, di comprendere i nostri limiti fino a riconoscere le nostre forze. Le mie giornate sono scandite prevalentemente dagli impegni lavorativi, riunioni online che si susseguono l’una dopo l’altra a volte senza lasciarmi il tempo di mangiare un boccone. Nonostante la ristrettezza degli spazi in cui mi muovo, il ritmo è rimasto lo stesso. Virtualmente saltello con velocità da una parte all’altra dell’oceano e mi divincolo tra leggi e nuove regole imposte da sistemi governativi e sanitari completamente diversi. Oltre la mia innata tendenza ad affacciarmi sul mondo per capire da che parte stiamo andando, sono le scelte che ho fatto nel corso degli anni a dividermi tra due parti lontane nel tempo, nello spazio e nei valori. A separarle l’Oceano, sette ore di fuso, strategie economiche e politiche, e una diversa percezione dei rapporti umani. La storia della mia vita, piena di colpi di scena, non mi ha tradito nemmeno questa volta, di fronte all’emergenza Covid-19.

Sono una donna, italiana. Sono una scienziata e appartengo alla categoria dei tanti ricercatori precari che hanno lasciato la patria Italia per rendere giustizia ai sacrifici fatti in nome dell’innovazione e dell’avanzamento biomedico. Con passione, per una missione. Sono una di quelle persone convinte che la scienza non può aspettare, che il cambiamento può e deve accadere ora. Non c’è tempo per lungaggini burocratiche e blocchi amministrativi. Non c’è un reale motivo per aspettare che arrivi il tuo turno, basta sporgersi un po’ oltre il confine per trovare altre opportunità e braccia disposte ad accoglierti. Volere che le cose cambino, ovviamente, non basta. Per una scelta del genere c’è bisogno di coraggio, di riconoscersi vulnerabili, essere disposti a perdere, cadere e ritrovare la forza di rialzarsi, ogni volta, lontano dagli affetti e dall’odore del caffè di casa. Bisogna essere disposti a tutto, ad accettare, per esempio, di restare bloccati per mesi in una realtà del tutto sconosciuta, a causa di una pandemia.

Prima che il nuovo Coronavirus ci mettesse in ginocchio la mia vita era una corsa costante tra i grattacieli che spiccano brillanti nell’umida Houston. Quei palazzi hanno il colore dell’innovazione, della scienza che non può fermarsi, profumano di soldi e di opportunità. Una moltitudine di storie si intrecciano per quelle strade ogni giorno. I personaggi hanno i nomi più disparati, culture e lingue diverse. La ragione della loro visita è però spesso la stessa: trovare una cura a un male per cui in altre parti del mondo sembra non esistere una soluzione. Quei giganti fatti di centinaia di piani e finestre riflettenti rappresentano il centro del sapere scientifico e tecnologico e costituiscono il distretto medico più grande del mondo. Coperta dal cielo texano che si riflette sulle pareti lucide, le mie giornate trascorrevano tra strette di mano, riunioni, nuove idee da esplorare, esperimenti e interpretazioni di dati. Lontana da casa, con il tempo diviso tra due fusi orari e il cuore a metà tra due passioni molto forti, quella per la scienza e quella per la mia famiglia. Telefonate rapide al mattino tra il caffè e un trucco veloce mi riportavano temporaneamente in uno spazio più familiare, attraverso la voce rassicurante di mia madre che descriveva con attenzione le vicende che si svolgevano, con lo stesso ritmo calmo, nel mio paesino del Piceno.

Eppure, sto vivendo il mio isolamento nel Regno Unito. Ero qui, temporaneamente sistemata in una stanza in affitto per svolgere il mio ruolo professore di Nanomedicina in una delle Università più prestigiose della zona quando il mondo si è fermato, spaventato e attonito, di fronte a un’emergenza che ci stava mettendo letteralmente in crisi. Ero qui quando il mio volo di rientro è stato cancellato e ho scelto, consapevolmente, di non intraprendere un viaggio di fortuna, per non mettere a rischio la mia salute e quella degli altri. Ero qui, qualche settimana fa, quando il governo americano ha dichiarato che chi non gode della cittadinanza americana non può rientrare negli Stati Uniti almeno fino alla fine di giugno. Sono qui oggi, dopo due mesi, a condividere questa esperienza con una famiglia che ha deciso di aprirmi le porte della sua casa e di accogliermi nella sua quotidianità. Aprendosi a un estraneo, questa famiglia si è resa vulnerabile con me. La loro accoglienza ci ha messo tutti sullo stesso piano. Abbiamo ri-strutturato insieme una nuova quotidianità. Mentre io mi riscoprivo in una realtà ordinata, calma e di gruppo che poco ha in comune con la mia vita americana caotica, veloce e da single li osservavo muoversi nei loro spazi. Li ho visti rinascere più forti dalle loro fragilità e iniziare a immaginare un futuro pur nella piena consapevolezza dell’aver temporaneamente perso il controllo della propria vita. Dopotutto, per il momento nessuno sa come sarà il mondo dopo questa esperienza.

Mi sono chiesta più volte se tutto quel correre intorno al mondo, cercare e ricercare, valga la distanza temporale e spaziale dagli affetti. Penso spesso a come sarebbe stata la mia vita se mi fossi fermata e avessi accettato uno, anche uno solo, dei compromessi che mi sono stati proposti. Sono però arrivata alla consapevolezza che tutto quel vagare è servito ad approdare qui, due mesi fa. Da qui, in un paese “neutro” rispetto a quello in cui vivo e a quello a cui appartengo, ho potuto osservare gli eventi attraverso una lente differente. Ho ammirato la bellezza imponente della mia Italia esprimersi più forte che mai, la mia gente rispettare in religioso silenzio le regole imposte, limitarsi nei saluti, negli abbracci, nei contatti. Con loro ho contato i morti, i nuovi casi, i posti letto disponibili in terapia intensiva. Il mio cuore è sempre stato lì, tremolante, non solo con la mia famiglia, i miei amici e conoscenti, ma con tutti gli italiani che hanno affrontato questa emergenza con dignità. Da qui, ho controllato costantemente la situazione in America, le differenze delle linee guida seguite da ciascuno stato, in maniera del tutto indipendente.

Sembra che l’esperienza italiana non abbia insegnato nulla: ogni stato sta ripetendo gli stessi errori. Frasi sconclusionate risuonano ancora in televisione e tra le parole dei grandi capi di stato scorgo la difficoltà di esprimere una visione che tenga conto della componente umana di questa pandemia. Il credit score, il numero associato a ciascun individuo sulla base della sua capacità di far muovere l’economia, sembra addirittura essersi ingigantito sulle nostre teste. Siamo avatar con un unico scopo: produrre. L’idea di tornare negli Stati Uniti mi ha tenuto per settimane sul filo del rasoio, bloccata dal terrore di contrarre il virus lontana da casa. Non ci sono statistiche che reggano di fronte alla possibilità di ammalarsi, di una malattia di cui ancora non sono state delineate molto bene le caratteristiche, e di cui non si conoscono le conseguenze a lungo termine, in completa solitudine. Con la stessa abilità con cui scanso l’idea che l’aereo in cui sono seduta venga dirottato, ho sempre ignorato la possibilità che un giorno avrei avuto, mi sarei ammalata e avrei avuto bisogno di aiuto. Proprio in questi giorni, invece, quando l’incertezza delle procedure da seguire, l’insicurezza del dichiararsi malato e la possibilità di infettare le persone intorno rendevano tutto più complicato, sia dal punto di vista amministrativo che emotivo, ho riscoperto l’importanza della vicinanza fisica delle persone. Ho avuto paura. Due settimane di febbre alta sono bastate per togliermi di dosso i panni della donna indipendente per accettare le attenzioni della mia famiglia acquisita. Mi sono riscoperta più vulnerabile che mai in un gruppo di donne che come me si sono messe a nudo rivelando le loro difficoltà, le loro paure. Insieme abbiamo trovato il coraggio di condividere, di superare i blocchi e, lentamente, sempre insieme, ci siamo liberate dei pesi di una vita. Abbiamo trovato il coraggio di fidarci le une delle altre e abbiamo cominciato pian piano a rivolgere lo sguardo al futuro, pianificando progetti sociali attraverso i quali dare respo noi e ad altri un respiro ampio di condivisione e missione.

Da qualche anno una frase mi risuola nella testa. Sono le parole che Roosvelt dedicò agli studenti della Sorbona di Parigi nel 1910: “L’onore spetta all’uomo che realmente sta nell’arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perché non c’è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l’obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza”.

È di coraggio che abbiamo bisogno nella vita. Di coraggio dobbiamo vestirci oggi per fronteggiare questa emergenza con dignità. Il coraggio di buttarci nell’arena, di alzare la voce, di batterci per un ideale, di essere solidali, di dare l’esempio con il nostro operato. Ci vuole il coraggio di affrontare la cattività per ritrovare la libertà. Ci vuole un grande coraggio per aprirsi al mondo, osare, e fare la differenza.

5. Pascal Schembri (da Parigi)
Finalmente a Parigi si ricomincia a vivere

Finalmente a Parigi e in diverse altre regioni francesi, dopo 78 giorni durante i quali tutti gli esercizi commerciali sono rimasti chiusi, tranne i supermercati alimentari, il 2 giugno tutti apriranno le porte dei loro commerci.
Dopo varie modifiche, finalmente sarà consentito a ristoranti, bar e
terrazze di ospitare nuovamente i clienti, così potremo di nuovo gustare un aperitivo con amici, anche se al massimo in quattro, perché è proibito ritrovarsi attorno ad un tavolo in tanti, a meno che non si faccia parte della stessa famiglia.
Ciò che non capisco, però, è come mai, da quando è terminato il lockdown, si consente a gruppi numerosi di giovani, a volte senza mascherina, di assembrarsi in tanti posti di Parigi, sdraiati sui prati con le loro bottiglie di acqua e alcolici (nascosti) da consumare nonostante si vedano poliziotti in giro.
Ogni giorno, nonostante gli avvisi della TV, che consigliano di indossaresempre la mascherina, ci sono tante persone che ignorano il consiglio, come chi usa i mezzi pubblici e va in contro a multe di 135€, ma in merito a questo ci sono stati pareri di esperti che sconsigliano l’uso della mascherina in quanto sarebbe dannosa per il nostro organismo. Non si sa più a chi e a cosa si deve credere.
In merito alla vendita di libri a Parigi e alla nostra editoria In questi giorni di libertà, ho visitato diverse librerie piccoli e grandi, i cui responsabili mi hanno detto che le vendite sono calate rispetto a prima e che gli articoli più venduti sono libri tascabili, alcuni libri usciti in questi mesi e quelli di usati perchè costano di meno, forse per colpa della crisi che ci ha investito in questo periodo.
Riguardo alla pubblicazione dei libri, vorrei parlare degli editori in generale, senza distinzione tra piccola e media editoria, perché le grandi case editrici, anche prima di questo momento storico erano entrate nel giro di porta carte, come vengono chiamate da diversi scrittori, questo per dire che di veri editori ne restano veramente pochi. Ora con la crisi causata dalla pandemia le cose sono peggiorate.
Confrontandomi con altri scrittori, sono venuto a sapere che anche loro hanno ricevuto le stesse proposte che ho ricevuto io. Diversi editori, che continuano a proclamarsi veri editori, non chiedono alcuna partecipazione e quasi tutti si vantano di essere distribuiti dalle Messaggerie, niente di più falso perché dopo aver accettato un testo che corrisponde ad una delle sue linee editoriali, ti inviano un contratto con tante pagine “18 – 20 “,
piene di “bla, bla, bla” e alla fine ti chiedano di comprare dalle 100 alle 300 copie al prezzo di copertina, mentre la grande casa editrice, per pubblicare un libro con loro ti chiede di comprare un minimo di 500 libri tramite qualche agente letterario che fa da intermediario. Personalmente ho ricevuto tre proposte in questi giorni da tre editori, i quali, oltre all’acquisto delle 100/300 copie, mi “impongono” l’acquisto di altre copie in conto vendita con spedizione a carico mio, oltre l’organizzazione di
minimo 10 presentazioni. Un altro editore ha avuto il coraggio di far scrivere sul suo contratto, che se io avessi avuto bisogno della sua presenza durante la presentazione, avrei dovuto pagargli le spEse di viaggio e di soggiorno. Una cosa da pazzi.
All’inizio degli anni 2000, quando ho cominciato a pubblicare, gli editori di allora, non solo, mi davano un piccolo acconto dopo aver scelto un mio testo, ma quando organizzavano una presentazione, mi pagavano il viaggio e il soggiorno, non chiedevano nessuna partecipazione e in più l’editore per la prima stampa, regalava all’autore 20/30 libri, con un contratto con 8%,, 10%,, 12%, e una clausola, che se entro massimo 24 mesi l’editore non avesse ristampato un minimo di 100 copie, il contratto era automaticamente cessato.
Ora questi nuovi editori, oltre ad imporre tutte queste clausole per la stampa di un libro, chiedono all’autore la cessione dei diritti per 5 o 10 anni, troppo tempo secondo me. Mi domando il perché di tutti questi anni, una volta che il loro compito si limiti a stampare solo i libri che riescono a vendere all’autore, oltre una cinquantina di copie per motivi di amministrazioni editoriali. In merito al resoconto che dovrebbero inviare ogni 12 mesi come da contratto, l’80% degli editori non lo invia mai.
Lasciamo perdere i bollini della SIAE….. Come si fa a continunare a chiamarli editori?
Un vero editore quando sceglie un testo per la sua casa editrice, è perché crede a ciò che ha letto, quindi dovrebbe occuparsi del testo dalla A alla Z. Se un imprenditore vuole guadagnare sui prodotti che vende, deve fare dell’ottima promozione altrimenti nessuno li comprerà, ecco cosa dovrebbe fare l’editore. Ma siccome da un po’ di anni sono nati come i funghi scrittori di un solo libro, di conseguenza per colpa di questi scrittori
casuali, sono nati centinaia di editori, che non fanno altro che impaginare il testo, a volte leggendo solo la presentazione del libro, per la copertina prendono un immagine da qualche sito e poi chiedono la partecipazione all’autore , come ho scritto sopra, stampano il libro senza fare alcuna promozione.

Mi auguro che altri veri scrittori possano anche loro raccontare le loro peripezie per la pubblicazione di un loro testo. Se qualcuno non dovesse credere a tutto ciò, posso inviare i contratti che ho ricevuto
Sarei grato se il Presidente della FUIS, Professor A. N. ROSSI, potesse fare la sua personale inchiesta, per avere la prova che ciò che ho scritto corrisponde a verità.

6. Ass. It. Professionisti per la tutela del Diritto d’Autore
(Riceviamo e diffondiamo, proposta di Lorenza Caroleo).
AL VIA LA CAMPAGNA SOCIAL #ILDIRITTODICHICREA DI PRO.DI.DA., LA PRIMA E PIÙ GRANDE ASSOCIAZIONE DI PROFESSIONISTI DEL DIRITTO D’AUTORE*



Parte oggi #IlDirittoDiChiCrea, la campagna social lanciata da Pro.Di.Da., la prima e più grande associazione di professionisti del diritto d’autore, volta a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza del riconoscimento dei diritti d’autore e quanto essi siano fondamentali per tanti artisti che in tale compenso trovano la principale fonte di sostentamento. Chi crea una musica, un testo, un’opera audiovisiva, una composizione letteraria è un lavoratore e quella realizzazione è la sua fonte di sostentamento. Negare tale diritto, vuol dire annientare la dignità di una persona. Il progetto si pone due grandi obiettivi: arrivare al singolo fruitore, grazie all’impatto mediatico di tante personalità che, giorno per giorno, con i loro contributi, ne arricchiranno i contenuti nonchè richiamare l’attenzione della politica e delle istituzioni, perché le future proposte e progetti di legge consentano di preservare l’immenso patrimonio culturale e popolare della creatività del nostro grande Paese.

* Associazione Italiana Professionisti per la tutela del Diritto d’Autore, Piazzale Principessa Clotilde 8 Milano 20121 +39 3933350263 +39 3292577895 – prodida@pec.it

7. Antonio Filippetti (da Napoli)
Il festival del coronavirus

Nel tempo del coronavirus sono accadute molte cose, purtroppo le più tragiche ce le porteremo nella mente e nel cuore per lungo tempo giacché afferiscono a perdite di vite avvenute per di più spesso in condizioni disumane. Si tratta di un bagaglio di colpe pesanti sulle cui responsabilità non sappiamo se mai riusciremo a venire a capo e conseguentemente fare giustizia.

Ma ciò che è bizzarro è che sono anche successe cose che mai ci saremmo aspettati di vedere. Pur nel momento più drammatico ha, per dirla con Guy Debord, prevalso la società dello spettacolo che non smette mai di esercitare il suo predominante e ingannevole fascino. In questo caso i protagonisti che sono venuti alla ribalta a primeggiare e a spartirsi la scena sono stati proprio coloro che avrebbero dovuto offrire spiegazioni per la risoluzione dei problemi o almeno proferire parole di incoraggiamento e conforto. E’ l’esercito dei cosiddetti esperti: virologi, infettivologi, biologi, epidemiologici, ecc., tutti studiosi di rango che avrebbero avuto il compito d’indicare al povero “vulgo” come uscire dalla pandemia. Ma non è successo proprio così, giacché questi soloni non hanno offerto una bella immagine di sé e della scienza di cui li credevamo portatori; hanno finito per litigare con tutti e spesso perfino con se stessi, affermando oggi una “assiomatica” verità per poi contraddirla il giorno dopo. Perfino l’OSM ha dapprima imposto la chiusura del territorio a noi poveri italiani affermando che questa era l’unica soluzione da adottare salvo poi finire per elogiare la Svezia che avrebbe avuto “l’intelligenza” di non chiudere tutto.

La cosa più sorprendente sembrerebbe un’altra. A seguito della richiesta di informazioni che il “popolo” chiedeva per avere lumi su cosa stava realmente accadendo e su come comportarsi, l’esercito degli esperti non si è fatto pregare e da “mane a sera” si è imposto su tutti gli schermi disponibili per discettare e declinare il proprio indefettibile sapere. E’ così che abbiamo scoperto felicemente di avere una quantità immensa di “scienziati” atti allo scopo, disposti a venire fuori da asfittici e noiosi laboratori per indirizzare le nostre scelte. Solo che le idee ce le hanno via via sempre più confuse non sapendo, noi poveri creduloni, a chi dare fiducia e a che santo votarci. Il successo per loro però è stato mediaticamente straripante e oggi questi professoroni sono trattati da star, hanno cioè occupato lo spazio che fino a ieri veniva concesso alle prime donne dello spettacolo, dello sport, dell’eccentricità internazionale, ecc. E a qualcuno è stata dedicata perfino la copertina del rotocalco “à la page”. E’ nato insomma un nuovo star system tutto dedicalo a loro. Un istituto demoscopico ha pensato subito di fare un sondaggio per stabilire chi fosse tra di loro il più affidabile o simpatico (il più figo come usa dirsi oggi). Questa classifica è destinata probabilmente a variare nel corso del tempo a seconda delle prestazioni dei vari protagonisti (come avviene ad esempio nella classifica apt del tennis, dove c’è chi scende e chi sale a seconda dei punti conquistati nei vari tornei). Oppure le performance saranno misurate in un contesto festivaliero più adeguato e giudicate dal pubblico a casa col televoto. E i più graditi faranno sempre la fortuna degli anchormen di turno e finiranno sugli amatissimi album di figurine. Solo che in questo caso sfugge un particolare non proprio secondario: che si ha a che fare (e non a giocare) con la vita delle persone e col futuro di chi riuscirà a venir fuori, seppur malconcio o malandato, da questo terribile momento.

8. Massimiliano Kornmuller
Oggi tocca alla lucidatura

Oggi tocca alla lucidatura dei marmi di casa, in primis del busto di Paolina Borghese, copia di metà Ottocento dell’originale canoviano, con una base in marmo, un’elegante colonna baccellata con base ionica. Questa statua, che oggi si trova in un angolo del mio salone di Roma, ha rischiato di uccidermi, ma non come quella del Commendatore nel “Don Giovanni” di Mozart, ma perché stava precipitando su di me…!
Infatti, mentre stavo accomiatandomi dai miei nonni paterni (avrò avuto quattro o cinque anni), abbracciandoli e baciandoli, pensai bene di abbracciare scherzosamente anche la statua, che si trovava lì nell’ingresso, attaccandomi al basamento, e facendola così cadere, per fortuna non sopra di me: il tappeto attutì l’ urto e la statua si ruppe solo una spalla , come si può vedere anche oggi, malamente restaurata..
Questo busto di marmo conobbe ovviamente anche lui dei tempi migliori, come tutti i mobili di casa mia..
In particolare questo proviene da una villa che io non ebbi mai modo di abitare, essendo stata venduta qualche anno prima che io nascessi.
Si trovava a Fiesole, sulla Via Vecchia Fiesolana, vicino alla villa dove Arnold Boecklin sperimentava l’encausto dipingendo delle pompeiane sulle pareti delle stanze, e dove, a guisa di novello Leonardo sperimentava i suoi studi sul volo umano) .

L’immagine della nostra villa si può vedere a pagina 96 “Le ville di Firenze (di qua d’arno9″ di Giulio Cesare Sensi Orlandi Cardini, sotto il nome dei precedenti ( o successivi…) proprietari, i Setti. In realtà la villa, costruita in quello stile rustico-italico che tanto andava di moda negli Anni Trenta, non aveva nulla di architettonicamente notevole, tranne il giardino, curato ed ampliato personalmente da mio nonno, che vi profuse molte spese, anche per i vasi dell’ Impruneta che ospitavano i limoni, cosi’ mi diceva lui.
Mi narrava anche che la proprietà era limitata ,in un lato, da un muro d’ epoca etrusca, oltre il quale iniziava la proprietà di una famiglia citata da Dante nell’Inferno, con cui mio nonno non era in buoni rapporti, da quando scoprì (era un mago nelle “fiondate”..) che il suo giardiniere nei giorni in cui doveva lavorare da lui, si recava invece nell’altra proprietà…
Mi narrava inoltre che quella statua, mia potenziale assassina, si trovava non in casa, ma dentro una grotta artificiale del giardino. Mi diceva inoltre che lui avrebbe desiderato stabilire lì la sua residenza, ma per opposizione ostinata di mia nonna e di mio padre , si rassegnò a rimanere in più grigi e freddi luoghi.
Né maggior fortuna ebbe l’ altra villa da questi posseduta in località S. Genesio,  presso S. Sebastiano Po (TO), dietro il colle della Basilica di Superga: si trattava di una costruzione ottocentesca con tanto di sala da biliardo, fondamentale per la vita in villa…! Purtroppo mio padre  la utilizzava solo per farvi delle feste….
Sparì miseramente anche questa, senza che l’abbia mai potuta vedere: ne ho solo potuto ammirare il cancello d’entrata del parco, essendo l’edificio nascosto dalla vegetazione…
Come recitava uno dei versi aurei di Pitagora:

“il sapiente deve con egual animo accettare tanto il divenire, quanto il dipartirsi delle ricchezze”.
Non è una gran consolazione, ma nel mio animo ha sempre avuto un certo qual potere lenitivo…

Tornando ora a parlare dei marmi, debbo confessare che ho sempre avuto una strana attrazione per questi minerali , ove la natura pare abbia dato il meglio della sua fantasia per affascinare l’uomo.
Sono state trovate delle tombe preistoriche in cui, accanto al defunto, erano state deposte conchiglie fossili (già allora…!) e pezzi di marmo dalle venature screziate (non dimentichiamo che le caverne ben lungi dall’essere tetre spelonche, erano a quell’epoca dipinte di dorata ocra gialla ….). E quindi gli uomini di quell’epoca avevano sviluppato senso estetico, oltre che musicale: sono stati trovati dei clarini realizzati con ossa di avvoltoio forate per far uscire le note, sul cui boccaglio era presente l’impronta di una linguetta vegetale.
Quando l’uomo non poteva procurarsi questo materiale, se lo creava con artifizi: penso a Santorini (la Pompei dell’età del Bronzo seppellita nel XVI a.c. dal vulcano), ove le strombature delle finestre e gli zoccoli degli interni di molti edifici erano dipinti in faux marble ad imitazione dell’agata..
Plinio narra inoltre che Nerone, non pago di tutte le tipologie di marmo di cui poteva disporre, ordinò agli artisti di dipingervi per suo diletto nuove e curiose venature …
io stesso confesso di aver dipinto ad encausto su alabastro dei piacevoli surrealistici (o piuttosto tardo manieristi) paesaggi mitologici e composizioni floreali …
Comunque anche creare marmi con venature fantastiche è molto piacevole, anche se non molto apprezzato nell’epoca attuale, tanto che ho rinunciato a proporre le mie creazioni su cui inizialmente confidavo un qualche successo …
Da che mi ricordi, ho sempre collezionato marmi: da quando dei lontani cugini, concessionari di una cava a Carrara, mi regalavano campionari dei loro marmi, a quando, nel mercato antiquario, trovavo collezioni di marmi antichi, che compatibilmente alle mie limitate risorse, cercavo di acquistare: alabastro cotognino e tartarugato, breccia frutticolosa e africana, cipollino verde e rosso, porfido, rosso antico, paonazzetto, giallo antico, greco scritto, fior di pesco, breccia di Sciro, Barbiglio … Sono tutti nomi a me molto cari che ritrovo a Roma, per lo più nelle chiese e nelle cappelle laterali di queste, frutto di chissà quali rapine a monumenti antichi.
Queste depredazioni non avvenivano solo a Roma, ma in tutto l’ambito dell’Impero Romano, da Oriente a Occidente: quando il Medio Oriente osservo le colonne delle moschee, ommayyadi o mamelucche o, in Occidente, le chiese paleocristiane, carolinge, romaniche (se non addirittura quelle rinascimentali barocche …) cerco di immaginare da quale tempio o frons scaenae di teatro siano state depredate.
Il marmo più curioso che tentai di procurarmi, fu ad Apamea in Siria, nella valle dell’Oronte, prima della orribile guerra. Nelle rovine di questa città trovai dei pezzettini di marmo azzurro con venature bianche mai viste prima: purtroppo venni intercettato dal custode e non ne potei fare nulla … Di quel viaggio che mi portò ad Apamea ricordo poi che raggiunsi anche il santuario di Baalbek in Libano, l’antica Heliopolis, che è quanto di più grandioso si possa immaginare nell’architettura antica: si tratta di una serie di templi di dimensioni ciclopiche, per lo più intatti, radunati intorno ad un cortile centrale esagonale. Quello che colpisce, come dicevo, sono le dimensioni: le colonne del Tempio di Baal-Giove sono alte più di quelle del Pantheon: templi di simili dimensioni a Roma erano solo quello di Vespasiano, sotto il Palazzo della Provincia, e quello di Dionisio sotto al Palazzo Colonna ed ai suoi giardini. Quello di Baalbek era il più grosso complesso templare dell’Impero Romano, costruito nei secoli II, III dopo d.C.
In verità, quello che mi ha sempre colpito non era questo complesso templare stile barocco-asiano, ma il cosiddetto “Tempio di Venere” a poche centinaia di metri da questo, edificato tra torrentelli che scorrono in canali scavati nella roccia.
Il tempietto, a pianta centrale rotonda, è attorniato da colonne corinzie unite tra loro da un frontone curvilineo decoratissimo che tanto, troppo, mi ricorda le architetture di Francesco Borromini … Io sono convinto che il grande architetto abbia avuto tra le mani un disegno di questo tempio e forse anche di altri edifici simili distrutti nel tempo, consideriamo che, nella sua biblioteca, ricca di più di mille volumi, si sa pochissimo …
Sono certo che questi sia giunto in possesso dei disegni per mezzo dei monaci cristiani maroniti che nei dintorni del grande complesso templare avevano una rete di monasteri ed ospitavano i pellegrini o i viaggiatori provenienti dall’Europa ….

Edifici dello stesso stile li possiamo vedere a Petra e a Palmira, ma furono scoperti dagli europei solo nel Settecento … Di Palmira mi ricordo il mio arrivo al tramonto: infuriava una tempesta di sabbia, ma, sebbene velata da pulviscolo, potei ammirare l’arco (oggi distrutto) della Via Colonnata, il Tetrapylon e, più lontano, il tempio di Baal (distrutto dai terroristi dell’Isis …) .. una delle più belle visioni della mia vita, un’immagine veramente senza tempo …!
In realtà tante sono le città che avrei voluto visitare, in particolare, oltre a quelle dell’oasi del Nomo Arsinoitico (oggi Regione del Fayyoum), in Egitto, quelle delle città costruite agli estremi orientali del suo impero da Alessandro Magno, dai suoi successori, i Seleucidi, ovvero dai satrapi di quelle lontane regioni che seppero crearsi dei regni indipendenti che durarono fino all’età romana, nel 70 d.C., i cosiddetti reni greco-buddistici.
Parlo, in particolare, di quei governatori dipendenti da Antiochia che seppero rendersi indipendenti prendendo il titolo reale, a partire da Diodoto I (circa 240 a.C.) che inaugurò una serie di trentanove re, conosciuti per la loro bellissima coniazione monetaria, in grado di pareggiare con quelle della Magna Grecia (Siracusa, Taranto, ecc.).
Il regno si divise verso il 250 a.C. in due parti, quello greco bactriano (prima del Hindu-Kush e quello greco-indiano, fondato da Melandro, dopo l’Hindu-Kush.
Menandro si convertì al buddismo tanto che i suoi “Detti di Milanda” (= Menandro) sono riconosciuti come testi canonici in quella religione ed occupò il Pendjab nell’attuale Pakistan. Di queste capitali ellenistiche così lontane vorrei vedere almeno Ai Khanum, l’antica Alessandria Oxiana citata dal geografo Isidoro di Charax (I sec. d.C.) sulle sponde del fiume Oxos al confine tra l’Afghanistan e il Tagikistan, che si erge sulle sponde del fiume oltre il quale, di fronte ad essa, si eleva un cupo massiccio roccioso di inquietante bellezza, ove è stata portata alla luce l’intera agorà, con capitelli corinzi asiatici utilizzati adesso, capovolti, come basi di pilastri di una sala da thé costruita nelle vicinanze dagli jaidisti afghani. Sembra che tutto il resto della città sia stato distrutto e depredato da costoro: ma non voglio disperare …
Comunque, durante gli scavi effettuati dai francesi negli anni 70, fu scoperto anche heroon di uno dei fondatori della città, il greco Kineas sotto la base del cui monumento sono stati trovati anche alcuni precetti tratti dal santuario di Delfi in Grecia (tipo “Conosci te stesso”, “Sii ciò che devi essere”, “Giovane impara le buone maniere, uomo cerca di essere giusto, anziano dà buoni consigli, senza avere rimpianti”). Penso anche a Taxila (capitale del regno greco buddista) e a Begram, in Afghanistan, ove sono stati trovati squisiti elementi architettonici greci di marmo e terracotta, sculture ellenistiche, vetri dipinti a temi dionisiaci …. Tutte queste città potrebbero essere celebrate nei versi di Sidonio Apollinare (secolo V d.C.) che, commiserando la città di Narbona, in Gallia, distrutta dai barbari, scrisse.

“Superba in mezzo alle rocche rovinate
Riveli ancora il decoro della passata guerra
Mostri blocchi possenti gravemente spezzati
Sei splendore delle rovine gloriose”
(Carm. XXIV, 59 e ss.)

Purtroppo queste città temo che quando, se mai riuscirò a vederle, potrò solamente dire: Etiam periere ruinae (scomparvero anche le rovine) ….!

C:\Users\Rossi\Desktop\MARZO 2020\FOTO di scrittori\Kormuller\0001 la città di tiro in fenicia.jpg

M. Kornmuller, La cirttà di Tebe, acquaforte, 2019

9. Silvana Cirillo
DAL 3 GIUGNO SI PASSA AI PROGETTI!

TONINO caro,

eccoci finalmente all’inverno che non abbiamo vissuto finora, alla pioggia che ci ha snobbati per interi tre mesi! Meglio così, certo, in quei lunghi riposanti giorni in cui il popolo delle terrazze giocava, faceva ginnastica, correva , mangiava talvolta, baciata dal sole e da un venticello leggero.., che quasi le sembrava di stare in vacanza. Le case piccole si sopportavano grazie agli spazi enormi sull’ultimo piano, le fanatiche e i fanatici pensavano che in fondo non era tempo perduto se alla fine di tutto tornavano in mezzo agli altri abbronzati “sani” e belli come il sole, i bambini e gli adulti si rafforzavano così la vitamina D che aiutava – lo dicevano  virologi e immunologi – nella difesa dal corona virus…e i giorni si accumulavano lisci come l’olio, inutili come la gramigna, ma andava bene: mal comune mezzo gaudio, e tutti erano contenti di stare nella stessa barca. Senza pensare che  interi mesi della propria vita  se ne andavano  (e per i meno giovani sono  doppiamente preziosi!) senza lasciare traccia. Sì, mi obietterai tu, ma c’è chi ha scritto un saggio, chi ha composto musiche e canzoni, chi video, bandiere, papere chiacchierine, e barche colorate, chi si è perduto in mille videoconferenze.., ma in realtà sono pochi, credimi. La voce comune invece è che quasta vacanza forzata, senza sensi di colpa, uguale per tutti, e senza scadenze, bensì piena di prolungamenti e dilazioni, ha finito per impigrire un poco tutti avvolgendoci in una sorta di torpore intellettuale. Così si poteva rimandare tutto al ” dopo”: “tanto c’è tempo” si pensava…Io per prima, eh, che ora devo correre per tener dietro alle promesse fatte e agli impegni da assolvere…In compenso ho letto quanto mai tanto serratamente in vita mia…Troppi libri autobiografici, però, troppe storie personali , anche sotto mentite spoglie: un po’ di strategie letterarie, alternanze di presente e passato.., qualche monologo da cervello scoperchiato e il libro è fatto. Ma non è questo che mi  crea un bel romanzo! L’invenzione, la costruzione dei personaggi, di un plot”magico”, di dialoghi articolati , di dialettiche argute, ecc. ecc. dove è andata a finire?  Ti ricordi quante volte abbiamo parlato di racconti che avessero una tenuta forte, europea direi? Si contano sulle dita di una mano! Apriamo un dibattito!

Ma torniamo alla giornata uggiosa di oggi. Alla pioggia. Sentirla scrosciare accompagnata da uno o due tuoni da terremoto, è quasi eccitante! Siamo tornati indietro? Ci pare di essere ancora agli inizi di marzo,quando si usciva col cappotto e si usciva tranquilli, anche se avevamo davanti almeno 4 mesi interi interi di lavoro prima delle vacanze estive! Che nostalgia delle scadenze e di impegni da rispettare, dell’ Università e del mio studio( ora per entrare devi addirittura esibire una autocertificazione!); dei ragazzi seduti per terra a cui dicevo sempre ” e su, un poco di aplomb, ci sono le panchine per tutti…”; delle lezioni in presenza, di quel meraviglioso scambio di fiducia e passione che ci faceva sentire tesi ad uno stesso obiettivo : cultura e preparazione alla vita insieme!; degli esami in presenza; del freddo di Todi, quando arrivavamo la sera e con camino e stufette accesi si tremava lo stesso, degli amici, tanti insieme, nelle serate a casa a commentare un paese – il nostro – che nessuno di noi capiva più..; che nostalgia di un futuro che non sarà più lo stesso, di viaggi non fatti che chissà se farò più, di paesi che abitano il mondo, di genti che vivono muoiono e io non li avrò mai conosciuti, né visti……Questa pandemia ci toglie la serenità dell’altro e, sicuramente, anche i tempi necessari per raggiungerlo. Vorrei recuperare questi tre mesi, ma vorrei anche altre due vite per realizzare tutti i miei desideri e sogni…Sai qual è un altro guaio? Che mi sono talmente impigrita, che quasi sono contenta perché con questa pioggia non esco: piove a dirotto, dove vado?

A far spese, programmate per oggi da giorni, anche necessarie…Non vado. Continuo a leggere, con la mia Tippete che si struscia felice addosso ( e quando mai la mamma a casa  a disposizione tutto il giorno?) e le nipotine che mi aspettano per stringersi forte forte alle mia gambe!  E ogni volta è una sorpresa e ogni volta il loro amore sincero e urlato, le loro giravolte di accoglienza mi sembrano un miracolo…

Caro Tonino, ora si ricomincia a girare liberamente nelle regioni e a ritrovare anche qualche vecchia abitudine, come la camminata per km sulla spiaggia fino alla antica torretta o la raccolta dei primi fichi dall’albero vicino al mare. Ora, qui, il mio diario racconto ai tempi del corona virus si chiude…Dal 3 giugno si ricomincia a progettare!

Un abbraccio ai tanti compagni di strada e grazie a te per questa bella carovana in viaggio che ci ha tenuto tanta compagnia,

Silvana

10. Flaminia Colella

TRADURRE SHAKESPEARE IN QUARANTENA.

con Davide Rondoni

Quando decisi di cimentarmi in quest’impresa così tanto più grande di me, su proposta e invito di uno dei miei maestri, Davide Rondoni, si viveva ancora all’aperto e si girava e si andava a ballare, a mangiare la pizza la sera in ristoranti affollati. Ma quando mi sedetti al tavolo la prima volta con di fronte questo volume antico, vertiginoso e che mi faceva paura, il nostro paese era già stato risucchiato nel vortice nero che di lì a poco avrebbe stritolato il mondo. Eravamo già in quarantena. Decisi di prendere in mano la faccenda dopo tre giorni dall’emanazione del primo decreto governativo che imponeva misure anti-contagio. La vita ci si restringeva intorno. Tutto ciò che era lecito, consentito, collaudato, si congelava improvvisamente in uno strano limbo che non sapevamo quanto sarebbe durato. Capii subito che tutto questo sarebbe potuto accadere anche alle nostre menti. Non occorrono due mesi di clausura perché la psiche inizi a dar segni di squilibrio in tali condizioni, bastano poche settimane, pochi giorni. Conscia di questo, mi posi di fronte a una severa domanda: lasciare che l’annichilimento facesse il suo corso, accettandone le conseguenze, o tentare di mantenere vigile lo sguardo e la visione e addentrarmi nelle parole di un genio come sola salvezza? Per me ogni istante è fatale, definitivo. Ogni giorno ha una sola occasione. Vivo con un forte senso della fine, che a volte mi tortura, a volte mi libera. Non vi era possibilità altra, altra scelta plausibile dunque, avendo tra le mani una miniera d’oro, se non quella di entrarvi e sforzarmi, nel buio fitto, di trovarvi luce e gemme preziose. Passarono due settimane, poi un mese e un altro ancora, e nello sforzo illuminante di dar voce a quelle rime sentivo risorgere nel cuore l’ardore e la passione per tutta la vista che andavano togliendoci. Passavano i giorni, si avanzava nella lotta tra il buio, nutrito da schiere di catastrofisti pronti a dare il futuro in pasto all’inferno, e il resistere della luce e della speranza, dell’affidamento al bene che continuava a indicare la strada. Questi testi, mentre la iattura dilagava, beata e feroce, sono stati il mio credo, la mia disciplina. Alzarsi la mattina e ascoltare il meno possibile il bollettino della morte, anche se c’era, la morte, non fingevo il contrario, ma volgere lo sguardo altrove su ciò che invece fioriva, sulla potenza generativa della vita e dell’amore che mi inchiodavano ancora a questa vocazione fedele, all’arte, questa obbedienza che interroga l’incanto. Il tutto. Ho iniziato il lavoro credendo che non avrei inteso nulla, che avrei sbagliato, e avrei fatto torto a chi prima di me, con molta più esperienza e perizia, si era speso per lo stesso scopo. Mi veniva da piangere, da ridere, lasciar stare tutto. Invece dovevo cominciare. E ho cominciato, e chi leggerà saprà dire se la fatica sarà valsa a qualcosa. Ogni sonetto in cui mi immergevo era un mondo, di significato, di ardore, di contraddizione, di umiliazione, di ferita, di sfida. Sono una scrittrice molto giovane, inesperta. Ed è quindi sulla base dei miei pochi riferimenti, della mia inesperienza, che ho provato a fare quello che sapevo di non essere in grado di fare. I Sonnets sono un’opera enigmatica, scomoda. A volte ho avuto l’impressione di trovarmi sempre di fronte allo stesso punto, come se la voce dell’autore girasse in cerchio ossessivamente per farci approdare più e più volte nello stesso luogo. Generazione, bellezza, distanza, tempo. L’amore che supera tutte queste grandezze. Col passare delle settimane mi accorgevo che pian piano la mente andava accordandosi ad una frequenza, e ho iniziato a notare che riuscivo a procedere più con il senso e l’intuito, che con gli strumenti propri della tecnica della traduzione. Non ho avuto mai possibilità di tirare il fiato. Questi testi sono come colpi di pugnale. Sono sentenze contro cui non è previsto appello. E ci dicono e fanno vedere più di quanto vorremmo sentire o vedere. Ho perso tanto di me, per entrarvi dentro. Ho acquisito, mentre mi smarrivo, un orizzonte immenso.

C’è un monte sopra casa mia, una grande foresta. Sono stata tra i pochi fortunati a poter godere della natura, a poterla sentire e respirare anche nella privazione. Dopo quattro ore passate a tradurre, mettevo le scarpe da ginnastica e salivo fino a su, dove la vista non cede e regala, nel silenzio della valle, uno spettacolo di sconfinata meraviglia. E ad ogni passo il fiato si alternava a quelle immagini, a quei lampi di amore disperato. Davvero esistette il suo giovane innamorato? Davvero dall’amore per lui nascevano mille altre visioni e metamorfosi? E gli si moltiplicava lo sguardo? E il tempo diventava amico, nemico, poi alleato eterno? Esistette davvero la donna maligna pronta a sottrarglielo? Di natura, tendenzialmente, credo a tutto. Credo a ciò che emerge, che reca sostanza. E questa sostanza portentosa nelle mani di un uomo in carne ed ossa ha condotto quelle stesse mani a scrivere un miracolo. L’ho immaginato correre tra i campi dolci delle campagne inglesi, non chino sul tavolo a incidere la carta. Qualcuno una volta disse che la letteratura non esiste, esiste solo la vita. Io non so se sia vero, ma so che occorre vivere per scrivere. William Shakespeare deve aver vissuto tanto, disperatamente.

Il miracolo della creazione ci sorprende di continuo, è il solo in cui la luce si disvela, sempre; non smette mai. Nel bosco vedevo alberi esplodere di verde, aumentare di volume nell’arco di sei giorni. Il dono della natura è come quello di una madre che dà alla luce un figlio, che custodirà di lei bellezza e forza. Il senso, unico, nucleare, si incontra solo quando emerge dalla tenebra: amare anche quando qualcosa o qualcuno vuole portarci via l’amore, il suo corpo, il suo odore; pensarlo nel sole anche se dentro tremiamo per un cuore vuoto e freddo, “fare guerra contro il tempo per lui,” contro sé stessi, contro il fato, e scoprirsi infinitamente limitati. Piccoli. Ma infinitamente potenti. “Dev’essere una sventura, una perdita o simili, a piegarti lo sguardo verso l’estrema bellezza. “Ha ragione a scrivere così Emily Dickinson. Amare come sola salvezza, come sola ragione, amare quando sembra non ci sia nulla da amare, e dare vita. Cercare quel calore fragile, che senza quiete, senza certezza, ci contiene interi. Siamo qui per amare. Siamo qui per dare vita.

11. Giuseppe Firinu
Cala e ci avvolge invisibile

Cala e ci avvolge invisibile

questa coltre,

silenti e spauriti aspettiamo,

chiuse le case e le anime

attoniti,

alla fine quei film diventano veri,

d’un tratto capiamo,

e le piccole cose di sempre

diventano care,

ci scopriamo alla fine fratelli e sorelle,

alla fine capiamo,

il senso di esistere,

e mancano solo i sorrisi,

gli abbracci,

una mano che stringe la tua.

Sembrava lontana la Cina infettata,

e ora che il mondo diventa un quartiere,

uniti a cantare per darsi coraggio

possiamo fermarci a pensare.

Questo piccolo virus

ci scava emozioni sopite,

e mio figlio che mi bacia la guancia

per svegliarmi al mattino

ripaga gli amari pensieri.

Accarezzo mio padre e mia madre,

sepolti qui in me,

e mi aggrappo ai ricordi

per non farmi inghiottire

in un pozzo infinito.

Rabbia e mestizia

scuotono insieme,

ma siedo e aspetto

quel sorriso che un giorno

s’aprirà sul mio viso.

Nemi, 17 marzo 2020.

C:\Users\Rossi\Desktop\MARZO 2020\FOTO di scrittori\Kormuller\21 Silena.jpg

Massimiliano Kornmuller, Silena, incausto su tavola, 2019

12. Edoardo Gandini
RACCONTO COVID

Uscendo di casa, avviandosi verso la fermata del tram che lo avrebbe portato in centro, Roberto Galimberti aveva ancora una volta potuto verificare un trend atmosferico davvero inusuale per la fine di gennaio, con temperature ben al di sopra

della norma. Mentre, in previsione di una sudata fuori stagione, si sbottonava il giaccone rivelatosi eccessivo, non poté evitare che la sua apprensione avverso i destini del pianeta trovasse ulteriore alimento; oltretutto, erano i giorni della “merla” cui la tradizione popolare attribuisce la fama di periodo più freddo dell’anno.

Per allontanare quei pensieri infausti, Roberto cercò argomenti più positivi sui quali riflettere. Ecco: la situazione lavorativa che stava vivendo. Dovette convenire con se stesso che non aveva proprio di che lamentarsi. D’accordo, aveva sgobbato un casino sui libri, finendo per trascurare del tutto la socialità che di norma permea quella stagione di vita e per darsi priorità ben diverse da quelle seguite dalla maggioranza dei suoi coetanei. E, alla fine, era riuscito brillantemente nel suo intento.

Con il massimo dei voti e con la lode, il 18 novembre 2019 aveva conseguito la laurea in relazioni internazionali presso l’Università degli Studi di Milano. Non aveva dovuto subire nemmeno il trauma dell’inoperoso parcheggio al termine del periodo di studi perché, qualche giorno dopo, era stato contattato dalla filiale italiana di una multinazionale svizzera operante nel settore del trading e degli investimenti e subito assunto con una buona qualifica e con un buon stipendio.

Era stato fortunato: inserito in un ambiente stimolante, con superiori e colleghi giovani e dinamici, aveva potuto ben presto superare lo scoglio della verginità lavorativa. Immerso nei suoi pensieri, il giovane non si era reso conto di essere arrivato a

destinazione, alla fermata di Piazza Cordusio: il suo ufficio era proprio lì, nella storica piazza del centro di Milano.

Dopo avere strisciato il badge nella fessura posta a lato della porta in legno pregiato, con un enorme vetro smerigliato riportante il logo aziendale, Roberto era entrato nella reception; aveva rivolto un cenno di saluto alle tre ragazze che, con i capelli raccolti attorno alla cuffia munita di microfono, lavoravano alacremente dietro un alto bancone e si era diretto verso la propria postazione di lavoro: era una “celletta”, un minuscolo spazio ricavato, nell’ambito di un enorme open space, con pareti amovibili piene ad altezza d’uomo. Una gentile voce pronunciò il suo nome. Era Elena, una collega molto graziosa e disponibile che, per le sue fattezze, non avrebbe di certo sfigurato nel vicino quadrilatero della moda.

Avendo riconosciuto la voce della ragazza, il giovane arrossì. Oddio, era appena arrivato e si stava ancora ambientando, per cui riteneva del tutto prematuro iniziare qualsiasi forcing di corteggiamento che avrebbe potuto avere effetti devastanti sul suo inserimento. Si era comunque annotato il nominativo di quattro fanciulle meritevoli di interesse e Elena era ovviamente inclusa nell’elenco.

«Ciao Roberto. Il dottor Mezzogiorno ti vuole vedere subito».

Il dottor Mezzogiorno era il capo, il numero uno e lei era la sua segretaria particolare.

Sorpreso, il giovane si bloccò per un attimo: cosa poteva volere da lui, di prima mattina, un’entità quasi astrale che solo poche eletti avevano avuto modo di incontrare?

«Grazie, Elena. Sai cosa può volere da me?»

«No, non mi ha fornito alcun dettaglio. So solo che è una cosa urgente.»

«Ok, grazie. Ti seguo.»

Con l’ascensore salirono al settimo e ultimo piano. Distratto dal ritmico ancheggiare di un lato B veramente degno di nota, solo quando la ragazza si arrestò Roberto si rese conto di essere arrivato davanti all’ufficio del numero uno. Dopo avere bussato,

senza attendere la risposta, Elena aprì la porta, si scansò, con un cenno del capo, invitò il giovane ad entrare e si ritirò in silenzio, chiudendo delicatamente la porta.

Roberto fu subito colpito dalla maestosità del luogo e dagli arredi e, prima che al dirigente, rivolse la propria attenzione all’ampia vetrata con un’impareggiabile vista sui tetti più bassi dei palazzi circostanti e, soprattutto, dalla vista di una madonnina quasi a portata di mano: una visione da prima fila.

Un omino basso e tarchiato, di età quasi indefinibile e con un vestito che aveva visto tempi migliori, lo raggiunse tendendogli la mano.

«Caro Galimberti, che piacere conoscerla!»

«Dottor Mezzogiorno, la ringrazio. Lei mi lusinga. Cosa posso fare per lei?»

«Lei è con noi da meno di un mese ma abbiamo già avuto modo di apprezzare le sue qualità. Come avrà avuto modo di verificare di persona, la nostra azienda ha deciso di puntare tantissimo su giovani di talento, come lei. Ho quindi deciso di affidarle un incarico delicatissimo. Ma si accomodi!»

Mentre il padrone di casa girava attorno all’imponente scrivania d’epoca in legno intarsiato e, aiutato con tutta probabilità da un piccolo sgabello, saliva sulla sedia di comando, Roberto si sedette su una comoda poltrona in pelle naturale.

«Dottor Mezzogiorno, la ringrazio per la fiducia ma non so se sarò all’altezza …»

Con un gesto della mano, il capo lo interruppe.

«Non si preoccupi. Se ho deciso così, è perché la ritengo perfettamente in grado di portare a termine nel migliore dei modi la missione, sì, perché di missione si tratta.»

«La ringrazio. Mi dica cosa devo fare.»

«Ecco qua. Domani incontrerà la delegazione di un importante gruppo cinese che ha intenzione di avvalersi dei servigi della nostra società per ampliare il proprio volume di affari in Europa.» L’uomo prese in mano una cartellina che consegnò al dipendente.

«Qui troverà i dati caratteristici del cliente e le generalità delle persone che incontrerà domani. Troverà tutta la documentazione tecnica e amministrativa in intranet. Ovviamente, veda di documentarsi nel migliore modo possibile.»

«Certo, dottor Mezzogiorno, stia tranquillo! Piuttosto, in quale sala riunioni li farò accomodare?»

Il capo si prese qualche istante prima di rispondere.

«Purtroppo, le nostre sale riunioni non sono il massimo. Visto che è il primo incontro, vorrei fare una bella figura. Ho provveduto a farle prenotare una bella sala presso l’Hotel Gallia, uno dei migliori alberghi di Milano. Mi raccomando, non mi deluda!»

«Tranquillo, dottor Mezzogiorno, vedrà che tutto andrà per il meglio!»

Come ogni sera, il giorno successivo Roberto fece al telefono il resoconto della giornata all’apprensiva madre lontana.

«Sai, mamma, oggi ho condotto da solo un’importante riunione di lavoro con una delegazione cinese.»

«Cinese? Stai scherzando? Proprio in questo periodo, poi! E non dirmi che, magari, erano di Wuhan.»

«Esatto, mamma, erano proprio di Wuhan!»

«Ma quelli della tua ditta non ti hanno informato dei rischi connessi con questo benedetto virus?»

«Eh, Eh! Hanno fatto finta di niente perché i miei capi sono proprio degli stronzi. Si sono presi paura, si sono tirati indietro e, contando sul servilismo del neofita, hanno mandato me allo sbaraglio.»

«Oddio, non è che sei stato contagiato?»

«Tranquilla, mamma! Ovviamente, loro erano più preparati di me per cui, anche su loro indicazione, abbiamo preso tutte le precauzioni: distanziamento, mascherina e guanti.»

«E adesso, cosa farai?»

«Continuerò tranquillamente il mio lavoro. Tra un paio di settimane, girerò per gli uffici tossendo e starnutendo a destra e a manca. E’ possibile che mi prenderanno per un untore ma farò prendere loro una fifa boia. Voglio proprio vedere cosa faranno!»

13. Mariù Safier

Ritrovarsi

(Domenica 31 maggio 2020)

 

Le limitazioni si sono ridotte, una passeggiata comincia ad avere un senso, se non altro per ritrovare la città. Roma però sembra stonata. Nessuno rimpiange gli ingorghi di traffico, la sosta selvaggia, i clacson furiosi di automobilisti impazienti. Ora tutto ha un suono soffocato. Dalle mascherine.

Si percepisce un clima di sospetto, di distanziamento dagli estranei, che diffidenti girano alla larga.

Le file di turisti ai musei, il chiasso ai tavolini dei bar, le vetrine spogliate dei loro articoli. Scomparsa quella che consideravamo normalità. Allora, leggendo la scorsa settimana, il contributo di Giulia Morgani, Uscire per andare dove? ho pensato che davvero non valesse la pena nemmeno di fare due passi. Sbrigare velocemente una commissione e tornare al proprio rifugio. A casa.

Poi, osservando un tronco tagliato a metà (forse una vecchia acacia) in una polverosa aiuola, invasa da erba secca e qualche cartaccia, in via Cola di Rienzo, quasi di fronte al mercato di piazza dell’Unità, ho scoperto che un artista lo aveva intagliato, dandogli un volto umano, con una smorfia che è l’accenno di un sorriso.

O forse un ghigno.

C’è anche la firma, ma non riesco a leggerla. Se vi capita, andate a vederlo. La fantasia mette le ali al pensiero. Giustifica un’uscita. E chissà, se in un altro momento, lo avrei notato. Intanto, vi propongo la foto.

Maggio porta dritto nelle braccia dell’estate. Ma è anche il mese dedicato al libro. Purtroppo, offre un bilancio amaro. Assenti fiere e manifestazioni tradizionali, annullate per evitare contatti, si poteva ipotizzare una risalita d’interesse del pubblico, in cerca di distrazioni impegnate o evasive, a scelta. Nonostante la forzata quarantena, l’incoraggiamento a leggere, le scaffalature aperte tra i primi esercizi commerciali, il lamento è unanime. Scarsa considerazione verso il mondo cartaceo, l’attenzione spostata sul digitale, nelle forme più svariate.

È l’abitudine a sfogliare, soffermarsi su un paragrafo, andare avanti, tornare indietro, sottolineare, che manca. E le istituzioni non aiutano, non lo hanno mai fatto. Insufficiente risalto riservano da sempre agli artisti, tutti, quando si tratta di agire per tutelarli. Musicisti, attori, cantanti, pittori, ballerini, scrittori, poeti, privati dei luoghi dedicati al loro impegno, ma anche delle piazze, di spazi idonei, consacrati per consuetudine a eventi in grado di richiamare interesse culturale, sono chiusi. Cancellati dall’emergenza virus, che protrarrà i nefasti effetti nel tempo, diminuendo drasticamente gli accessi, polverizzando proposte.

Mentre il paese che ha fame di nutrimento non solo materiale, langue incerto e smarrito, le categorie che potrebbero sollevare lo spirito, volgerlo verso un orizzonte confortante, sono a loro volta in difficoltà, a volte maggiori. La nostra nazione, patria di innumerevoli opere d’arte, dichiarate patrimonio dell’umanità, stracolma di bellezze naturali, culla del diritto, non offre a chi è in grado di illuminare le giornate, il giusto rilievo. Dimentica i cittadini, i quali, per tornare alla normalità, hanno bisogno di visitare un museo, andare al cinema e al teatro, sentire un concerto o una conferenza, confrontarsi con scrittori e poeti, liberare la propria paura, indirizzandola verso energie costruttive.

Quali piani, quali programmi a lungo termine sono in atto per riparare i danni intellettuali, peggiori della peggiore realtà? Emozioni e pensieri tarati sul presente, mancanza di progettualità, rischiano di distruggere il tessuto sociale, che non è definito solo dalla spesa al supermercato.

Non moriremo di corona virus, ma di asfissia culturale.

Affresco

Michelangelo ha avuto una visione:

ha raffigurato il viso del Signore.

Affrescato sulla parete della Sistina

il ritratto campeggia incombente:

il dominio delle creature terrestri

sul Bello, sul Buono

di un pianeta appena sbocciato.

Ma è evidente che qualcosa

non ha funzionato: l’occhio vigile di Dio

a ben osservare, è imbronciato.

Il Suo cipiglio è motivato.

Già sapeva che l’uomo

Gli sarebbe sfuggito di mano.

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Foto di Mariù Safier

14. Vito Bruschini
LA SOLITUDINE DELLO SCRITTORE

Roma. Con queste brevi note vorrei cercare di offrire un quadro il più possibile vicino alla realtà agli amici aspiranti scrittori, giovani e non più giovani, che hanno deciso di affrontare l’esperienza di questa difficile, ma esaltante professione. Dico questo perché la vita ai tempi della pandemia (dover restare chiusi in casa), è molto simile a quella che uno scrittore deve affrontare ogni giorno della sua esistenza, per tutti i giorni dell’anno, compresi i sabati e le domeniche, per guadagnare il pane quotidiano per sé e la propria famiglia. Si decide di scrivere per passione, a volte per divertimento, altre volte per amore del successo o per vanità o per facili guadagni. Questo è il sogno, ma la realtà è ben altra.

Cominciamo con il puntualizzare che noi produciamo libri e non dico niente di nuovo se affermo che il nostro, oltre a essere un popolo di navigatori e di santi, è anche un popolo di scrittori e di pochi, pochissimi lettori. Insomma tutto questa pallosa premessa per dire che in Italia i romanzieri che vivono del proprio lavoro si possono contare sulle punte della dita di una mano. Perciò è necessario affiancare alla professione di romanziere un altro mestiere. I più affini sono il giornalista, lo sceneggiatore, l’autore televisivo e non mi viene in mente niente altro (in tempi di analfabetismo gli scrittori scrivevano lettere su commissione per gli innamorati lontani). Ecco io personalmente, dopo aver fatto per anni il giornalista e aver diretto alcuni mensili e persino un quotidiano, con la crisi dell’editoria avvenuta nel 2008, mi sono dovuto riciclare su un altro ambito di scrittura. Per mia formazione culturale e professionale (in gioventù ho scritto soggetti e sceneggiature per il cinema) lo sbocco più naturale era quello di scrivere storie. Cosa che sono riuscito a realizzare con discreta abilità, riuscendo a scriverne almeno uno all’anno. Ma ben presto (anche se i miei libri hanno avuto un buon successo di vendite e sono stati tradotti in nove paesi, compresi USA e Russia), sono stato costretto ad affiancare a quella di romanziere un’attività che mi consentisse (come si dice) di sbarcare il lunario (odio le frasi fatte), e ho ripescato la carta dello sceneggiatore. Questo significa giorni e giorni chiuso in casa a scrivere anche per dieci, dodici ore al giorno, senza vedere un amico, ma uscire soltanto per andare agli appuntamenti di lavoro per poi di nuovo rinchiudersi nello studio a fabbricare storie. In conclusione ho ottenuto che gli amici mi prendono in giro per la mia iper-produttività letteraria (parola grossa). In definitiva di necessità ho fatto virtù. Per questo motivo l’attuale situazione di crisi mondiale (drammatica per molti) per me è stata invece un’importante opportunità e vi spiego perché. A marzo, prima della quarantena, avevo spedito il progetto per una serie televisiva a un amico produttore italiano. Il progetto prendeva spunto dal mio libro Miserere, che racconta del tentativo di uccidere papa Wojtyla organizzato da KGB. Non l’attentato di Alì Agca, ma un secondo attentato organizzato in extremis dai servizi segreti sovietici per bloccare il papa, che in quegli anni stava aiutando il sindacato di Solidarnosc, creando gravi ripercussioni al governo filosovietico del presidente Jaruzelsky. Lo scopo era quello di far saltare il summit tra Gorbaciov e il presidente Reagan, incontro che avrebbe sancito la fine della Guerra fredda. Mi sembrava un argomento che potesse avere un respiro internazionale (le piattaforme digitali stanno cercando questo tipo di storie). Il mio produttore dopo qualche settimana mi telefonò dicendo che l’argomento interessava e che aveva già l’approvazione di due produttori: uno del Marocco e l’altro della Germania. Ora era necessario scrivere “la Bibbia” e magari la prima puntata delle otto previste. Da quel momento è iniziata la mia quarantena nella quarantena. Scrivere “la Bibbia”, in gergo, significa realizzare una sinossi della storia, descrivere i personaggi principali e scrivere la sceneggiatura della prima puntata di circa 50 minuti e infine la struttura delle otto puntate. Detto così potrà sembrare poca cosa, ma in tempi normali è un lavoro di circa quattro mesi. Io e il mio coautore della sceneggiatura ci abbiamo messo un mese e mezzo a scrivere la bibbia di Miserere, e questo grazie alla “prigionia” determinata dall’attuale pandemia (non dirò mai quella maledetta parola). Abbiamo terminato dieci giorni dopo che era stata decretata la fine della quarantena che dunque per noi è durata un po’ di più degli altri italiani.

Avrete compreso come la vita sociale dello scrittore sia penalizzata. In tempi normali non s’incontra un amico per lunghe settimane. Anche una semplice telefonata diventa una fatica. Naturalmente parlo per me. Capisco che possa essere un mio limite. Infatti, se sono concentrato su un lavoro, faccio fatica a staccarmene. Finché non è terminato non alzo la testa dalla tastiera. Per tornare ai propositi iniziali, quello che volevo dire è che alla fine lo scrittore deve saper convivere con la propria solitudine. Per questo dico che ho affrontato questa maledetta pandemia come uno dei tanti periodi di lavoro della mia vita. Ma alla fine ci si domanda: ne è valsa la pena? Qui ognuno deve rispondere secondo il proprio carattere e la propria personalità. Mille altre professioni sono più soddisfacenti e remunerative di questa… Ma vuoi mettere creare storie? Chissà cosa avrebbe risposta Omero.

C:\Users\Rossi\Desktop\MARZO 2020\FOTO di scrittori\Kormuller\0001 la città di tiro in fenicia.jpg

Massimiliano Kornmuller, La città di Tebe, acqueforte

15. Francesca Lo Bue Le campane

Le campane portano la speranza dello ieri

l’inquietudine dell’azzurro,

la pace di un giorno che finisce.

Sono sponde remote dove colpiscono le brezze,

lingue d’oscurità nelle grucce del corpo.

C’è un barlume di vento,

arriva nel viso di Pan e Filomena.

Anima oscura di silenzio,

s’allontanano i tuoi piedi dal vento,

un toro custodisce il verde minerale.

Le essenze arrivano dalle bocche dei letti sotterranei

con fogliame di spade.

Las campanas

Las campanas traen la esperanza del ayer,

la inquietud del azul,

la paz del día que fenece.

Son orillas remotas donde golpean las brisas,

lenguas de oscuridad que vivifican el cuerpo.

Hay un reflejo de viento,

llega en la faz di Pan y Filomena.

Alma oscura de silencio,

se alejan tus pasos del viento.

Un toro custodia el verde mineral.

Las esencias están abajo,

llegan de las bocas del lecho subterráneo

con hojarasca de espadas

16. Silvio Raffo
Addenda
(Alle poesie della scorsa mail vanno aggiunte le ultime)

XXVII

Tu serbali preziosi nel ricordo

questi giorni d’amianto e d’ametista

in cui fra Cielo e Terra un mutuo accordo

fu stabilito – fulgida conquista.

XXVIII

Dio c’è ma non esiste. C’è il suo chiaro

lume che numinoso si nasconde

e brilla a tratti sulle mute sponde

d’ogni giorno, di sua presenza ignaro.

XXIX

Così i morti non muoiono, e la vita

non è quel soffio che si fa respiro.

In un vortice solo – un cieco giro –

un flusso ininterrotto si infinita

18. Salvatore Rondello

GIORNI DA CORONAVIRUS (acrostico)

Giro per casa,

Inquieto nell’animo

Oppresso dal virus.

Rifletto sulla libertà

Negata per vivere.

Interrogo il mondo

Dannato d’egoismo

Avaro e ingordo.

Corro ai ripari

Ossessionato da

Ricordi funesti

Oppiati dal tempo.

Navigo su diversi

Aspetti della libertà

Voluta dall’uomo

Incatenato dalla vita

Rimasta offesa,

Umiliata dall’ignavia,

Segnata dal dolore.

Roma, 30 maggio 2020

19. Hirondina Juliana Francisco Joshua

Prelúdio
Como é que se escreve um olhar?
E um devaneio, sabes?
Para quê é preciso um coração? E uma alma o que é?
Diz-me se sabes a cor do vento.
A paixão com que o mar nos prende.
Diz-me e por favor não poetizes nem filosofes.

Preludio

Come si scrive uno sguardo?
E un sogno vano, lo sai?
Cosa me ne faccio di um cuore? E un’anima che cos’è?
Dimmelo, se conosci il colore del vento.
La passione con cui il mare ci afferra.
Dimmelo, e per favore non poetizzare, né tantomeno filosofare.

Ausência

Falta-me o universo
Para imaginar a cor,
A artéria plural
Do sangue
Que redesenha o sonho.

Assenza
Mi manca l’universo
Per immaginarne il colore,
L’arteria plurale
Del sangue
Che ridisegna il sogno.

Invenção
De súbito,
o desejo despeja-se
no corpo inventado,
há uma contemplação invisível.
É momento de luz:
Uma mão pronuncia a voz do interior
E outra subjacente vagueia
No ar procurando o dom do amor.

Invenzione
All’improvviso,
il desiderio si versa
sul corpo inventato,
esiste una contemplazione invisibile.
E’ un momento di luce:
Una mano pronuncia la voce dall’interno
E un’altra sottostante vaga
Nell’aria alla ricerca del dono dell’amore.

(trad. del prof. Matteo Pupillo)

escritora 1

Hirondina Juliana Francisco Joshua (Maputo, Mozambico, 31 maggio 1987), è una scrittrice mozambicana, poetessa di rilievo tra i giovani autori mozambicani. Fa parte dell’Associazione degli Scrittori Mozambicani (AEMO). Ha partecipato a diverse antologie nazionali ed estere e i suoi testi sono stati pubblicati su giornali e riviste in Mozambico, Portogallo, Angola, Galizia e Brasile.

Matteo Pupillo (1994), nato e cresciuto in Italia, vive a Lisbona da 4 anni. È laureato in Lingue per la Comunicazione Interculturale e si è, specializzato in Lingua e Letteratura Portoghese presso l’Universidade Nova de Lisboa. Lavora come docente di lingua portoghese, traduttore e ricercatore di letterature in lingua portoghese,

Couretsy di “Atelier della Poesia

20. Angelo Zito
ARTEMISIA GENTILESCHI

Gentilesca sin da regazzina

giocava coi colori e coi pennelli

la bottega der padre era la scola

e ner nome portava scritto er destino.

Fu proprio l’Arte a vince la partita

contro li soprusi e le torture

der monno fatto a immagine de l’omo,

pianse e ripianse e nu lo diede a véde.

Susanna ignuda all’occhi de li vecchi

fu er manifesto der combattimento,

pensa, un’artista de diciassettanni

trionfava su la morale de quer tempo.

Er seicento che principiava allora

avrebbe visto er trionfo der barocco

ma lei ciaveva ancora i piedi a tera

co’ Maddalena Giuditta e tante altre

fece risartà sopra la tela

la luce che sorte vivida dar buio,

er sangue la carne e li drappeggi

l’istessa mano de quer Caravaggio

che aveva conosciuto tempo prima.

E rimane ne la storia der pennello

tra i grandi artisti e no perch’era donna,

nun ne famo ‘na bandiera d’occasione

dei dolori che ha provato ne la carne.

E nemmeno damo fiato a li preti

pe’ loro le donne: sante o puttane

“Rispettate l’orgojo de ‘n’artista:

io santa mai! So’ solo ‘na pittrice”.

GIORDANO BRUNO LA FRITTATA

Confusa tra le bancarelle der mercato

s’arza la statua de ‘n frate incappucciato.

De sera tra cazzotti baci bottije

la peggio gioventù je balla attorno

“avessi saputo che m’abbrustolivo

pe’ aprí le capocce a sta marmaja

avrebbe ubbidito a Bellarmino”

Er cardinale, va detto, lo protegge

“te devi da ricrede, fà l’abbiura,

gni ttanto l’hai da girane la frittata

prima che prendi puzzo de bruciato”

Ma quello a insiste “è er Sole che sta fermo

e la Tera je gira tuttattorno”

Sapeva er fatto suo, pe’ mezzo monno

aveva combattuto l’ignoranza,

condannato er trionfo de la bestia,

e davanti a la Curia nun s’arrese.

Je fecero sentí nun solo er puzzo

ma pure er calore der bruciato.

E ancora oggi lo tengheno da parte,

sanno oramai che è la Tera che se move

e pure si la frittata s’è abbruciata

je piace de magnalla abbrustolita.

Mó ginocchioni aspetteno quer giorno

che quarche Iddio facci piazza pulita

de tutte le conquiste de la Scienza,

e possi la cenere de Giordano

assiste ar trionfo de la bestia.

CARAVAGGIO

Stamme a sentì te vojio riccontane

la storia de ‘n pittore origginale

sceso da le pianure de Milano

pe’ viení a trovà fama e ricchezza

da le parti de Roma papalina.

Invece de trovà quanto cercava

quella co la farce lo fermò a la spiaggia

a sputà sangue e sabbia tra le mani.

Tra li ladri li magnaccia le mignotte

co’ quarche amico de stanza a li palazzi

tirava co’ li colori fino a notte.

Er sangue riccontato su la tela

jera compagno de strada e de bordello,

le mani in tasca nun se le teneva

mó cià er pennello, appresso cià la spada.

Er cardinal Del Monte e Giustiniani

lo fecero conosce dentro Roma

e lui dipinse er sacro ner profano:

la madonna che pare “morta gonfia”

e li santi deformi a piedi ignudi

stravorsero er concetto der divino.

Ma fu tradito pe’ corpa de ‘na spada

ficcata in petto a un compagno d’osteria.

Condannato a la pena capitale

Scappò co’ l’aiuto dei Colonna,

Napoli, Marta, Sicijia “torno a Roma

speranno che Paolo V me perdoni”

Ma li quadri in cambio de la grazzia

annorno a fonno dentro quer mare

che lo lasciò co la rena tra le mani

a maledí quer monno maledetto

ner quale aveva portato nova luce.

21. Alberto Guarino
La guerra delle pantofole

Il secolo scorso è stato testimone dei due conflitti mondiali più sanguinosi e distruttivi per l’occidente che la Storia abbia mai dovuto testimoniare. Dissensi, conflittualità politiche, risarcimenti, fame, ignoranza, eccidi dei quali ancora oggi bisogna avere memoria e per risolvere tutto questo si sono istituiti organi a protezione della pace, Ma l’ingordigia le sordide menti hanno continuato a macinare strategie per accaparrarsi i posti di potere per meglio gestire i loro affari. La prima guerra mondiale nacque per riconquistare i confini della Nazione, la seconda perché indottrinati da ideali pazzi e sconcertanti, oggi, invece, una guerra economica fatta di oligarchia e neoliberismo. Una dittatura subdola che annebbia come l’oppio, illudendoti di essere libero mentre invece vivi come se fossi ospite della casa del “ Grande Fratello”. Infine la Guerra! Ma non quella dei fucili, delle bombe, dei cannoni bensì quella virologica, fatta di epidemia, di isolamento. La guerra delle pantofole! Senza adrenalina, solo paura, paura del vicino, paura di abbracciare tuo figlio, i tuoi parenti perché potenziali cecchini del Corona virus. Decreti ammazza economia, Restate a casa! Ce la faremo! A fare cosa? A continuare ad essere sudditi di una dittatura che come Blob tenta di soffocarti. Stiamo vivendo un periodo di becera mediocrità, abbiamo perso l’amoreper la politica, quella di rappresentanza, il sistema è stato capace di individualizzarci, ci hanno inculcato la diffidenza, il pregiudizio, il razzismo, la pochezza rinchiudendoci nelle nostre case con occhi bendati e orecchie attente alle notizie prezzolate. L’unica speranza è che in un prossimo dopoguerra si possano creare i presupposti ad una ribellione di massa che faccia ritornare la sovranità al popolo.

22. Eugenia Serafini

ROMA ASSOLATA

estiva già il 27 di Maggio

lunghi e stracolmi delle foglie a strapiombo

sul Tevere i rami dei platani che

anni di incuria restituiscono alla bellezza

dei boschi selvaggia

Sarà un Autunno giallo dorato di

foglie tappeto per pittori e poeti

pure…l’aria ha un che di malsano di

infido che si insinua nella polvere e scende sulla

vernice delle automobili nei polmoni degli uomini

Porterà il virus? E i pollini e i semi scoppiati a migliaia

ammassati ai bordi dell’asfalto si apriranno a

nuova vita per noi?

Splendida e ridente al sole vorrei che

tu ancora ti mostrassi perché troppo ti ho amata e

troppo bianca invece è la luce che ti irradia e

sfuggono il contatto gli occhi che vedo

le mascherine antivirus tirate sulle bocche

elusi gli incontri

Chissà se Hiroshima apparve spettrale come te

ORA NUDA

!

donna violata

regina dei tramonti che

dipingono d’oro i tuoi pini

e le essenze orientali di ville

principesche

TU

misteriosa e immaginifica

meraviglia e sorgente di sogni e

storia che il suono dei passi

risveglia nei tuoi vicoli antichi

ad ogni giro d’angolo nei cortili

svelate piazze e archi

tra erbe selvatiche e cespi di acanto

mura e acquedotti

rocchi e colonne non temono il

logorìo di tempi umani.

Bianchi VOLI di gabbiani

solcano i tuoi notturni cieli profondi

misteri in blu.

Eugenia Serafini, NUVOLA B, Palazzo della Civiltà Italiana, Roma 1994

23. Valeriu DG Barbu
„Nu pot respira” (George Floyd)

soarele face să lăsăm pe asfalt

aceleași culori ale umbrei

nuanțe de gri ca materia cerebrală

care în realitate este în diverse culori, de la alb, la roz, la albastrui

și ne îndeamnă să ne iubim dincolo de rațiune, chiar și în discordie

și totusi, tu

pentru că ai un genunchi determinat de cine știe ce lege

mai puternic decât gâtul meu trântit prea aproape de o roată

apesi

apeși încă

apeși, chiar dacă abia șoptesc gemând

să nu mă faci să mor atăt de prostește

chiar și asfaltul te-a mustrat cerându-ți

un ultim semn de umanitate

dar ai apăsat înainte, ai apăsat până ce

culoarea pielii mele ți s-a părut destul de neagră

să-ți împacheteze ura și să ți-o exorcizeze satisfăcut cu prețul

vieții mele

nu ți-ai dat seama nicio clipă, și nici acum

că nu ai respirat dublu, după ce aerul, devenindu-mi inutil,

nu ți-a fost acordat ca trofeu

 

de aici, unde mă aflu acum, sper ca tu să poți respira mereu

să te poți încălzi în razele soarelui

și să percepi culoarea neagră ca fiind

mântuirea ta

pentru că pentru mine a fost considerată ca o dizgrație și

o vină

 

mâine, soarele va răsări iarăși

milioane de frați ai mei vor avea transparentă inima

o oglindă în care chiar și culoarea diferită va fi o bună ocazie de a ne iubi

și pentru asta

chiar de pe acum tu

ești iertat

 

Testo in italiano
“non posso respirare” (George Floyd)

il sole ci fa lasciare sull’asfalto

gli stessi colori nell’ombra

sfumature di grigio come la materia cerebrale

che in realtà è in vari colori, dal bianco, al rosa, all’azzurrino

e spinge ad amarci oltre la ragione, anche nella discordia

eppure, tu

perché hai un ginocchio mosso da chissà quale legge

più forte del mio collo prostrato vicino a una ruota

tu premi

premi ancora

tu premi, anche se a malapena sussurro un gemito

di non farmi morire così stupidamente e

anche l’asfalto ti rimprovera chiedendoti

un ultimo segno di umanità

ma tu premi avanti, premi fino a che

il colore della pelle ti è sembrato abbastanza nero

per imballare il tuo odio e portartelo via sodisfatto del prezzo

della mia vita

non hai mai realizzato nemmeno

quando tutto si è compiuto,

che non respiravi doppio che l’aria, a me ormai inutile

non era stata assegnata a te come trofeo.

 

da qui, dove sono ora, ti auguro che tu possa respirare sempre

che possa scaldarti nei raggi del sole

e di comprendere come il color nero

possa diventare la tua salvezza

perché per me è stato considerato una disgrazia e

una colpa

 

domani il sole sorgerà di nuovo

milioni di miei fratelli avranno un cuore trasparente

uno specchio in cui anche il colore diverso sarà

una buona occasione per amarci

e per questo

proprio ora tu

sei perdonato

 

Testo in inglese
“I can’t breathe” (George Floyd)

the sun makes us leave on the asphalt
same colors of the shade
shades of gray like brain matter
which is actually in various colors, from white, to pink, to bluish
and it urges us to love each other beyond reason, even in discord
yet, you
because you have a knee determined by who knows what law
stronger than my neck slumped too close to a wheel
you press
press again
you press, even if I barely whisper a moan
not to make me die so senselessly
even the asphalt scolded you asking
for a last sign of humanity
but you pressed forward, pressed until
your skin color seemed black enough to you

to pack your hate and take it away with you exorcise it satisfied with the price
of my life
you never realized for even a moment and yoy still don’t,
you didn’t breathe twice, when my air, now

was not assigned to you as a trophy

from here, where I am now, I wish for you that you can to always breathe
that can to warm up in the sun’s rays
and to perceive the black color as being
your salvation
because for me it was considered a disgrace and

a fault
.
tomorrow the sun will rise again
millions of brothers of mine will have a transparent heart
a mirror in which even the different color will be
a good opportunity for u slove each other
and for this
right now you
you are forgiven

24. Lucia Marchi*

Visione

 

Nel mondo ritrovato

Nuova linfa

Scorrerà nelle vene

Tornerai a sognare

Che oltre le colline

Prati verdi

Vedranno i tuoi passi sicuri

Raggiungere

La città ideale

Ove gli uomini

Saranno congiunti.

25. Antonio Scatamacchia

La chirurgia ai tempi della crisi

Grande interesse ha suscitato l’intervento chirurgico effettuato al Policlinico di Milano dalla equipe diretta dal dott. Nosotti su Francesco, il ragazzo che ha compiuto 18 anni due settimane prima che in Italia esplodesse la pandemia da coronavirus Sars-Cov-2. L’intervento di trapianto di entrambi i polmoni, con la rotazione dei medici specialisti in chirurgia toracica, che si alternavamo per via dell’intensità della attenzione richiesta e per la difficoltà nei movimenti, a causa dei pesanti dispositivi di protezione contro il virus, ha avuto la durata di oltre 12 ore. Francesco aveva contratto il due marzo il virus, sottoposto a terapia intensiva al San Raffaele era stato immediatamente intubato. Dal 23 marzo era stato collegato per quasi due mesi alla macchina salvavita Ecmo, mantenuto in vita con circolazione extracorporea, ma il virus gli aveva danneggiato in maniera definitiva i polmoni, impedendogli di respirare normalmente ed era così giunto in fin di vita. I medici del San Raffaele a questo punto si sono rivolti al Dr. Nosotti, direttore della scuola di Chirurgia toracica all’Università degli Studi di Milano ed insieme hanno deciso per un intervento mai tentato precedente in Europa, la sostituzione di entrambi i polmoni, e, quasi contemporaneamente ai chirurghi austriaci, hanno programmato un intervento eccezionale, traendo informazioni dai trapianti effettuati in Cina dal Prof. Jing-Yu Chen dell’ospedale di Wuxi. Trovato il donatore deceduto poco prima e negativo al coronavirus, hanno proceduto al complesso intervento. Alla apertura della cassa toracica si sono trovati difronte a polmoni completamente distrutti, di apparenza lignei e pesanti.

L’intervento si è concluso positivamente e ora il ragazzo è in riabilitazione e collabora con la terapia riabilitativa.

Questo intervento mi ha trascinato il pensiero a quelle pratiche operatorie che venivano effettuate durante eventi eccezionali e guerre, con chirurghi che operavano in campo con mezzi di fortuna e con scarse predisposizioni e cautele di sterilizzazione antisettica. Ma soprattutto, in contrapposizione, mi sono sovvenute le miserabili storie dei medici nazisti, che operavano nei lager di Auschwitz, Dachau e Mauthausen, su prigionieri ebrei e russi, zingari, bambini, soprattutto gemelli, e omosessuali, usati come cavie umane allo scopo, questo era il miserabile intento, del miglioramento della razza ariana, la sopravvivenza e la rapida guarigione dei soldati tedeschi, la cura delle malattie infettive e principalmente l’annientamento di altre razze, a loro avviso inferiori, mediante la sterilizzazione. Il tutto fatto con sperimentazioni azzardate, inventate e dannose, senza apportare successi nel campo della medicina, ma solo per interessi personali e di carriera.

Si trattava di una scelta completamente opposta a quella oggi operata. L’obiettivo oggi della medicina è esclusivamente la salute e il benessere dell’individuo, allora la ideologia nazista divideva i popoli in razze inferiori e superiori, in individui normali e anormali e procurava i sottoposti a tali torture, che portavano, nel migliore dei casi, ad una morte immediata. E a pensare che una buona parte di quei medici è riuscita a scampare all’ergastolo ed alcuni hanno avuto successivamente riconoscimenti scientifici, come Von Verschuer, che non solo non venne riconosciuto colpevole, ma ebbe gratificazioni ed insegnò per molti anni dopo la guerra Genetica umana all’Università di Munster.

Ma abbandoniamo questi ricordi tragici, che non fanno che esaltare da un punto di vista morale gli episodi di oggi, il sacrificio dei medici, degli infermieri, degli operatori sanitari e di pronto soccorso, e dei i volontari che si sono prodigati e si prodigano tutt’ora a salvare più vite umane possibili. La razza umana non è composta da razze privilegiate, ma da una moltitudine di popoli che è in miglioramento, sottoposta a questa eccezionalità di infezione, comportandosi come esseri umani dediti all’aiuto vicendevole a progredire.

29 maggio 2020

 

26. Rita Laganà
So’ mejo de Totti

Appena finito il lockdown, come lumache dopo la pioggia, sono apparsi per le strade di Roma persone e personaggi che, nel periodo di quarantena, erano del tutto spariti dalla circolazione.

Confesso che ne sentivo la mancanza perché rappresentavano una nota di colore e raccontavano molto di una parte sconosciuta della nostra capitale.

La città sarebbe monotona se non ci fossero alcuni individui che per aspetto e comportamento sembrano quasi figuranti appena usciti da Cinecittà con il compito di animare e svegliare la gente dallo stato di torpore e sopore in cui è immersa senza rendersene conto.

In questi ultimi giorni, il traffico si è fatto intenso quasi da farmi rimpiangere il periodo in cui, in pochi minuti, dalla zona di San Giovanni dove attualmente abito, potevo raggiungere piazza Venezia e tutto il Centro Storico.

E’ pur vero che si correva il rischio di essere fermati dai vigili che chiedevano l’autocertificazione e si doveva dare la spiegazione del perché si fosse in giro mentre tutti gli altri stavano a casa! Anche a me è capitato di essere bloccata mentre guidavo e pur avendo un motivo valido, mi sono sentita nella posizione dell’indagata per una colpa che, forse a mia insaputa, avevo commesso. Un periodo difficile in cui non vedevo l’ora di rintanarmi a casa, unico luogo in cui non dovevo giustificare a nessuno la mia presenza.

Adesso finalmente posso muovermi liberamente e ho l’opportunità di vedere alcuni di questi tipi particolari che hanno cominciato a girare con l’aria felice di chi vede finalmente la luce dopo essere stato per lungo tempo in ombra.

Mentre scaricavo la spazzatura nei cassonetti di via Giovanni Lanza, mi si è avvicinato un uomo maturo dal volto rugoso su cui spiccavano due occhi incredibilmente azzurri. Aveva con sé un supporto metallico dove aveva agganciato una vecchia valigia, una coperta e alcuni utensili. “Omnia mecum porto”, sembrava dire a tutti con una semplicità disarmante. Molto dignitoso non mi ha chiesto alcun obolo ed io, incuriosita, ho provato a conoscere qualcosa di lui e della sua vita. Mi ha risposto a monosillabi utilizzando qualche parola in inglese. Sono riuscita a sapere che era ungherese ed era arrivato a Roma prima del covid. Si stava recando alla mensa della Caritas di Colle Oppio e dormiva dove capitava anche per strada.

Come lui ho visto altre persone che vengono chiamati homless, ovvero senza casa ma, in realtà, la casa se la portano appresso, come quella donna che, tempo fa, passeggiava dentro la Stazione Termini spingendo un carrello del supermercato dove aveva stipato di tutto alla rinfusa. Vi erano oggetti di arredo, un asse da stiro, una scopa e tante altre cose che penso la rendessero felice perché aveva dipinta sul viso un’espressione soddisfatta di chi portasse un tesoro di inestimabile valore.

Quanta di questa umanità è sparsa in vari luoghi della città! Alcuni sdraiati per terra, altri che camminano magari gesticolando o accennando passi di danza ma tutti invisibili alla maggior parte delle persone che li guardano appena, mostrando fastidio o addirittura disprezzo per il timore di essere importunati da qualche richiesta, soprattutto quella di denaro.

Mi sono sempre chiesta e ancor di più nel periodo del forzato isolamento, dove “gli invisibili” avessero trovato rifugio e se i servizi sociali si fossero interessati a dare loro un tetto. Costoro sono i portatori sani di un’esistenza tormentata e difficile dove la scelta di vivere per strada è stata l’unica soluzione possibile. A volte affacciandomi al parapetto per vedere il fiume, ho notato sulle sponde certe persone accampate in tende o in rifugi improvvisati, spesso circondati da cani addestrati a fare la guardia. Le cronache hanno spesso parlato di questi luoghi come scene di crimini efferati, alcuni rimasti insoluti. Degli invisibili si parla solo in occasione di fatti eclatanti ma, di solito, quelli che riteniamo “diversi” ci creano imbarazzo e anche paura come se fossero la nostra parte oscura che vorremmo scacciare via come una mosca fastidiosa.

E che dire di quelli che, durante la sosta ai semafori, si offrono di pulire i vetri o vogliono vendere fazzoletti Tempo, accendini e Arbre Magique? Sono loro che ci costringono a prendere una posizione, a fare comunque la scelta di un netto rifiuto o di una forzata accettazione con qualche monetina data di malavoglia.

Di uno di loro mi ero preoccupata perché non l’avevo più visto nel posto dove solitamente lo incontravo. Invece ieri, al semaforo di via Candia, sobbalzo e provo una grande gioia.

Si tratta di un uomo corpulento, di una certa età che in maglietta e pantaloncini fa rimbalzare un pallone sulla testa con un’agilità sorprendente. Davanti ai distratti automobilisti impazienti per la sosta forzata, si esibisce con grande disinvoltura. Ha un certo sorriso sulle labbra e l’espressione soddisfatta di chi vuol dire: ”So’ mejo de Totti!”.

 

27. Nicla Vassallo
Il Lockdown: un varco spazio-temporale
per indagare sé stessi

Sono sempre stata assai riservata. Oggi 4 maggio faccio un’eccezione. Parte la fase due e Federica Pellegrini, dopo una lunga astinenza, si tuffa nella sua piscina, dichiarando da umile: “Come una bambina mi manca il fiato”. Già, in qualche senso, oggi siamo tutti bambini e bambine, che si tuffano in un mondo esterno alle proprie quattro mura di casa, dove siamo rimasti a lungo rinchiusi. Quelle mura non hanno ingabbiato ognuno di noi. I colti con acume hanno optato per esplorare sé stessi.

Dall’esortazione “conosci te stesso”, a Delfi, ripresa da Socrate non è nata forse la nostra cultura? E ancor oggi la conoscenza di sé non viene forse giudicata una conoscenza privilegiata? Federica Pellegrini deve conoscersi parecchio, altrimenti non sarebbe la divina.

Un beneficio della “comparsa” del Coronavirus si è identificato da subito in una sorta di varco spazio-temporale per l’opportunità di indagare sé stessi/e, un’indagine che non dovrebbe aver fine, sempre che il coraggio non venga meno. Ma il coraggio onesto –  non dimentichiamolo – ci dona libertà, cosicchè, nel gettarlo al vento, corriamo il serio rischio di precipitare nella paura: durante la quarantena, lo abbiamo rilevato con chiarezza.

Per di più, per l’ennesima volta, ci è stato confermato che il metodo induttivo non funziona, e da buona filosofa lo so bene. Eppure, ancor oggi, la maggior parte dei soggetti umani sopravvive o vive applicando, con parecchia ingenuità, ragionamenti induttivi. Un esempio reale: se il soggetto X esce dalla propria abitazione, ogni giorno e per parecchio tempo, senza che vi sia una pandemia in corso, ne conclude per induzione “non vi è una pandemia in corso”: invece, un giorno si sveglia col Coronavirus in “giro”. E ora che si fa? Nel caso in cui si ragionasse sempre per induzione, si dovrebbe attendere qualche tempo, il “tempo” del Corona, per comprendere se con tale virus ci dovremmo convivere. Oppure, ci convince di più quel metodo scientifico per cui le scienze debbono risolvere problemi?

Se riconoscete in Federica Pellegrini, un’atleta colta ed educata, nonché se la ascoltate, lei di per sé stessa ci mostra (alla Wittgenstein) che nell’induzione non crede. Nella sua esistenza agonistica ha vinto tutto il possibile sui duecento stile libero. Nel caso in cui ragionasse per induzione, dovrebbe affermare qualcosa come “A Tokyo vincerò”; del resto, chi avrebbe scommesso sul suo oro agli scorsi Mondiali? Già, Federica Pellegrini si è attestata per la sesta volta campionessa del mondo. E cosa dichiara, al termine della quarantena? “Debbo affermare che c’è solo da riprendere un poco di sensibilità. Sono contenta perché in queste sei settimane ho lavorato molto a corpo libero. Sono riuscita a mantenere una buona forza sulle spalle e questo mi aiuterà a riprendere prima la mia bracciata… Pensavo peggio”.

Due visioni: ottimismo e pessimismo

Oggi, il 4 maggio, l’“uomo della strada” non si sta mettendo alla prova con la giusta dose di pessimismo. Ottimismo e pessimismo: due visioni del mondo. Un maturo teorico dell’ottimismo? Leibiniz, come è noto. Un ottimismo su cui Voltaire si è, con sarcasmo, divertito nel suo Candide ou l’optimisme. Ottimismo/pessimismo, un intramontabile dibattito filosofico. E, in tale dibattito, mi pare autentica la posizione di Federica Pellegini: occorre partire da un assunto assai pessimistico, ovvero pensare il peggio, tuffarsi nell’esistenza, e comprendere se si riesca concretamente ad ambire a qualcosa di meglio. Troppi atleti italiani sono parecchio vanitosi e narcisi. Non Federica Pellegrini, umile, eppur divina. E trasgressiva, come lo deve essere la buona filosofia.

In quei fatidici giorni, ho compreso che la mia scelta professionale, ovvero filosofica, unita a umiltà e umanità, mi consentiva più di quel che avessi mai creduto. Il mio laptop funzionava sì e no: problemi di wireless che forse mai si risolveranno. E allora? Si faceva filosofia prima della creazione del computer, di internet eccetera, e si pensava di più. Nonostante debba scrivere e pubblicare, per venire valutata, rimango intensamente socratica, ovvero quel che amo del mio mestiere è il dialogo con studenti e colleghi-amici, specie anglosassoni. Ci si “allena” da soli e ci si confronta poi e spesso con i propri simili, di persona. Anche Federica Pellegrini si allena in una piscina tutta per sé (Una stanza tutta per sé – A Room of One’s Own della mia amata Virginia Woolf) per poi confrontarsi con altre nuotatrici.

Costume, cuffia, occhialini: quanto le serve, insieme a parecchio “sangue freddo”, ovvero un’ottima cultura razionale nel calcolare che fare sui 200 metri stile libero. Il suo “recupero” negli ultimi 50 mt è sempre studiato. Ci avete mai pensato? By the way, il nuotare è un know-how, un tipo di conoscenza, questa del saper fare, che ha da qualche tempo ottenuto un plauso filosofico di analisi notevoli. Si chiama Federica colei che possiede maggior know-how al mondo sui 200 stile libero femminili.

Un nuovo bisogno di filosofia

Torniamo a quei giorni, che, nonostante il “liberi tutti” di oggi 4 maggio, ci hanno provati non poco, e, dato che il cosiddetto uomo della “strada” ragiona di rado con la propria testa, abbiamo un gran bisogno di giovani filosofi, filosofi sul serio, non di prigionieri della storia della filosofia.

Oggi, ripeto, è il 4 maggio, e ritengo che abbia senso il tuffo di Federica Pellegrini, un dono “carico” di valore filosofico e antropologico. In cosa poi s’incapperà non è dato a sapersi. La conoscenza del futuro rimane tra le più problematiche.

Ok, cara Fede, per ora concludo. Immagino che tu sia concorde con me sul fatto di doversi allenare, con modestia e tenacia: non detesti pure tu gli e le ingrati/e, che coltivano ignoranza arrivista e attivista? Così, di base, la segregazione dei giorni passati ha pure comportato una sorta di “selezione naturale”, tra chi ci vuol bene per quanto siamo, al là nel nostro essere famose, tu, of course, molto più della sottoscritta. Invidiosa di te? Giammai. Ammirata di te, sì, pure filosoficamente.

Domani

Domani è il 5 maggio. E non possiamo dimenticare l’ode scritta da Manzoni in occasione della morte di Napoleone Bonaparte, esule a Sant’Elena. Già, Napoleone, ovvero la Corsica che giunge a dominare Parigi, con l’aspirazione, poi fallita, di dominare il mondo. E tu, cara Fede? Il mondo del 200 metri stile libero femminili lo domini da parecchio, e mi è parso che tu abbia sempre assunto importanti decisioni da sola. Alleniamoci, dai, e poi si vedrà, senza dimenticare che tu rimani una buona filosofa, mentre io una nuotarice in vasca da piccina, e, rispetto a te, alle prime armi. Ho molto da imparare da te. Su ogni tipologia di conoscenza, pure la maggiore, per noi esseri umani, ovvero la conoscenza proposizionale, il conoscere che una proposizione è vera. E le tue azioni, Fede, mi donano interrogativi anche sotto questo profilo. Grazie di cuore: accresci ogni giorno il tuo essere umano, ovvero aspiri sempre alla conoscenza, a una maggiore conoscenza. Ce lo ha consigliato vivamente Aristotele, ma oggi l’ignoranza signoreggia: ogni tua bracciata le rema contro.

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Eugenia Serafini, …e DI VIOLE

28. Carla Gagliardi Desaur (da Londra)
Tra uno starnuto stagionale

Tra uno starnuto stagionale ed una febbre da fieno il governo inglese ha deciso, a pochi giorni dalle vacanze estive, di riaprire le scuole.

Un modo per verificare quanto le menti siano totalmente anestetizzate dagli aggiornamenti, tamburo mediatico, e controllare quanto il gregge si lasci condurre ….

In questa settimana una notizia scandalosa esce dal coro ma le urla che la accompagnano la rendono irreale: il consigliere del primo ministro si ?  permesso di percorrere 400km con moglie e figlio per raggiungere la casa di campagna dove i nonni attendevano il nipotino di 4 anni di cui prendersi cura.

Pare una parodia degli ultimi quindici giorni di maggio durante i quali ci siamo sentiti dire che la vita sarebbe dovuta ricominciare normalmente proprio dalle scuole, anche dagli  asili nido e dalle scuole materne.

Peccato che nel file di indicazioni per la riapertura delle scuole le contraddizioni fossero palesemente pericolose.

E allora di nuovo notiamo il doppio binario: dominiq Camming non solo ha infranto la legge spostandosi ma soprattutto ha portato il figlio a casa dei nonni, contatto transgenerazionale pericoloso segnalato come rischiosissimo per la diffusione del virus.

Viene spontaneo chiedersi perch? non abbia deciso di mandare a scuola il figlio anche iscrivendolo, qualora l?asilo precedente fosse risultato chiuso, in una delle scuole rimaste aperte per i figli dei keyworkers.

Perch? in alternativa non si ?  adattato come la maggioranza dei genitori,

abbandonati al loro destino, ad affidarsi per qualche ora al giorno ad una babysitter?

Ma la voce fuori dal coro che fa da contraltare alla litania televisiva dei numeri, del fattore R, e delle indicazioni STAY SAFE=STAY AT HOME, si incarna in una arrogante e frettolosa dichiarazione del consigliere del primo ministro che sentenzia di non dimettersi.

Non solo non ha rispettato la legge, non solo hanno forzato per la riapertura delle scuole ma anche indulgono nello schiaffarci la loro impudica supponenza.

Mentre i nostri figli dovrebbero tornare a scuola ed infettare, ops immunizzare il gregge, loro possono nascondersi nella country side!

Ce lo ha insegnato durante le vacanze pasquali il premier, il brutto esempio lo hanno dato ancora prima i regnanti…in generale non si trova un buon esempio.

Neppure la Rolls Royce, liberandosi di un quinto dei dipendenti, aiuta a dipanare la foschia di questo momento che se fosse veramente di semplice passaggio non giustificherebbe tanti licenziamenti.

Dobbiamo scavare nella vita quotidiana per trovare le eroine di questo mondo: la giovane infermiera di colore, ventottenne, che ha lasciato in lacrime il reparto ospedaliero dove lavorava e dove hanno tentato l?impossibile per salvarla riuscendo a tenere in vita almeno il figlio che portava in grembo.

Tutti sono in prima linea come lei: postini e homeless, cassieri in banca e le file di alcolizzati-drogati di quartiere che ciondolano fuori dai supermercati…tutti, una umanit? varia accomunata dalla lontananza del gregge da quel piccolo insieme pre-scelto dei salvati a priori.

Questi ultimi hanno ricevuto la licenza di uccidere gli altri eleggendo la loro salvezza nel rifugio dell?indifferenza.

Il business non si tocca perch? a loro conviene e allora risulta normale dover assolutamente andare in banca e trovarci personale senza mascherina e senza guanti, clienti senza alcuna protezione, cassieri con la classica influenza stagionale che allarmano coi loro starnuti.

Le scuole potrebbero riaprire se fossimo sicuri che stiamo agendo ragionevolmente e legalmente date le circostanze, ma fatti e non parole ci allontanano da questa certezza e pare esattamente il contrario.

Un opposto stridente….

Il portavoce del primo ministro ha dichiarato: Boris ritiene che il signor Cummings abbia agito ragionevolmente e legalmente date le circostanze.

In un contesto dove le leggi sono diverse per ognuno divento curiosa in attesa del grande momento: da inizio giugno si sar? costretti, rientrando in UK, a sottoporsi alla quarantena.

Tutti sappiamo che sarà una prova generale del primo effetto del brexit…vedremo quali e quante saranno le leggi e le infrazioni legalizzate da ragionevoli scuse….

 

29. Guido Bralozzetti
L’arte della fuga

A pensarci bene quale posto migliore per buttare giù un catalogo di una cella in cui ti hanno sbattuto per il rodimento insopportabile dell’invidia universale. Giacomo Omo cercava di trovare il verso migliore da cui guardare la sua condizione di recluso. Oltretutto in uno dei posti peggiori che gli potessero capitare, sotto il tetto di un Palazzo che visto da fuori sembrava un merletto e invece diventava un inferno quando ti rinchiudevano in una cella angusta coperta di lastre piombate che d’inverno funzionavano da frigidaire e d’estate da calorifero ustionante.

L’avevano accusato di tutto pur di toglierselo di torno, un cavaliere troppo narciso, capace di incantare chiunque, troppo fatuo per essere vero e troppo furbo per non inciampare e farsi male, senza limiti che tenessero a bada un’immaginazione truffaldina, naturalmente portata al raggiro, che la storia finisse in una camera da letto o in una fuga precipitosa inseguito dai raggirati inferociti.

Se l’erano presa anche con la sua biblioteca, non che fosse uno scaffale specchiato e morigerato, se si cercavano le perversioni più estreme del corpo e della testa lì c’erano tutte le pagine che le raccontavano, i grandi maestri dell’oltre, ma era la sua biblioteca e non gli avevano lasciato neanche la libertà di leggere quello che gli pareva.

Avevano acceso il fuoco.

E poi tutto lo stillicidio di accuse infamanti, spia, agente segreto al servizio praticamente di tutti, che si mettessero almeno d’accordo, l’Imperatore, il Kaiser, il Sultano, lo Zar.., un brigante iscritto in qualche loggia che si intitolava al liberi muratori ma di fatto scaricava i fondamenti del potere.

Non l’avevano detto esplicitamente durante il processo che infatti era stato tutto una montatura per sbatterlo lassù dove adesso la sua testa non cessava di architettare piani, trappole e vie di fuga, perché quella era stata l’ossessione dal momento in cui un custode aveva chiuso la porta della cella con fragore sprezzante.

Potrebbe sembrare un paradosso, ma la condizione di Giacomo Omo conferma che chi si trova in uno stato di carcerazione in uno spazio che definire un monolocale sarebbe una licenza beffarda, può subire una dilatazione mentale, nel senso che gli è sufficiente chiudere gli occhi per andare dove gli pare, con i ragionamenti e con le fantasie.

E allora ecco che gli ritornavano i viaggi ovunque e dappertutto, da un palazzo a un castello a una villa, e pure osterie infime, albergacci luridi e alcove olezzanti e incipriate, e la catena ininterrotta delle conquiste. Nessuna che fosse preclusa, anzi la difficoltà che lo rendeva spavaldo e temerario.

Bastava uno sguardo e il circuito del suo desiderio si chiudeva subito con quello pulsante di una creatura, quale che fosse, e il gioco irresistibile era penetrarne le difese, che si trattasse di un fiore angelico o di una lady con il veleno più dark.

Resta il fatto che Giacomo appena riapriva gli occhi non poteva che misurare il buco in cui l’avevano cacciato, soffocato dai miasmi suoi e di chi prima di lui aveva avuto il piacere di un soggiorno, allietato dalla compagnia di svariati ordini del regno animale, tutto l’arco che va dai millepiedi e ai quadrupedi con coda, e poi esposto all’estremo delle temperature con quel condizionatore tremendo che lo costringeva a piegarsi per non sbattere la testa.

Già, perché non c’era giornata che, immerso nei pensieri e nelle immaginazioni che gli accendevano il fuoco di un erotismo che nessuna santa o demonio sarebbe venuta a spegnere, la sua capoccia non andasse a sbattere contro il soffitto duro di piombo con una vibrazione rimbombante che, se per un verso lo stordiva, per l’altro aveva l’effetto di shakerare i neuroni e stimolarne le traiettorie più incredibili e avventurose.

Giacomo Omo sul piano delle prestazioni occupava certamente i vertici della hit parade di un tempo in cui nutrito era il numero dei campioni, sarebbe stato difficile andare oltre e, tuttavia, quelle capocciate lo sprofondavano in eccessi che avrebbero fatto stupire anche i frequentatori più assidui del boudoir del Divino Marchese. E quando non erano stantuffi e catapulte, nella testa andavano in scena le fughe più rocambolesche, un poco Rambo spaccatutto, un poco James Bond a cui basta sedurre la carceriera per volare via.

Così, perso in queste esplorazioni ai confini del sex e della fuga, ogni volta perdeva la cognizione del tempo e dello spazio e cominciava ad agitarsi e il risultato era sempre lo stesso. Una vigorosa zuccata contro il tetto della cella. E il carcere scorreva in questa alternanza tra estasi e trauma cranico, contrappuntata dai crash della capoccia.

Fino a quando un giorno Giacomo si accorse che l’impatto non era stato violento e fracassone come i precedenti, anzi la testa non aveva trovato la durezza di un ostacolo e aveva avuto quasi la sensazione di spingerlo su, quasi che non avesse trovato resistenza.

Aveva guardato e nel nero del tetto gli era apparsa una fessura attraverso cui entrava l’azzurro del cielo! Insomma, una botta oggi e una domani, la testa di Giacomo Omo aveva sfondato la lastra di piombo.

Non c’era che da spingere su quella crepa, allargarla e un passaggio si sarebbe aperto.

Il cavaliere non perse tempo. Omo aspettò che la sera diventasse notte, si infilò nel pertugio – e già questa penetrazione lo eccitava – e si issò sul tetto.

Respirò l’aria quasi immota della laguna nel silenzio popolato di cupole e campanili.

Una mezzaluna che ricordava quella del Sultano vegliava sulla Serenissima mentre un energumeno elegante, dall’appeal infallibile e un poco rintronato fuggiva dai Piombi.

Una bella corazza.

L’Imperatore amava le corazze. Erano essenziali per proteggerne il corpo durante le battaglie, il corpo dell’Imperatore era unico e doveva essere custodito in tutti i modi, scongiurando tutte le possibili offese e dunque rinchiudendolo in un involucro che risultasse impenetrabile.

Ma non era questa la ragione principale del suo amore. Semplicemente, le corazze gli piacevano in quanto tali ed era felice di indossarle, anche nelle occasioni pubbliche.

I predecessori avevano fatto a gara nell’esibirsi al popolo, lui no, chissà forse perché la madre l’aveva partorito nella più gelida notte dell’inverno e, nonostante tutti i fuochi accesi, il tremore intirizzito di quella nudità che si affacciava alla vita gli era rimasto dentro.

Si sentiva al riparo nell’armatura e trovava affascinante guardare il mondo nascosto all’interno di un guscio. Uno sguardo non ricambiato attraverso la fessura che si apriva nella celata, lui che impenetrabile agli sguardi altrui sbirciava nel mondo che fuori lo circondava, nascosto là dentro.

Godeva di poter restare invisibile, mentre offriva un’immagine di sé all’altezza del potere che deteneva: potente, dura e scintillante al sole.

Aspettava il mattino, per quella vestizione che avrebbe rinchiuso il bruco imperiale in una larva di ferro.

Occorreva parecchio tempo perché i camerieri, con il garbo e la cura che si doveva avere verso l’Imperatore, montassero tutti i pezzi, secondo un rituale collaudato che non lasciava spazio a improvvisazioni e tanto meno a errori.

Gesti precisi e coordinati fra di loro, mentre l’Imperatore parlava con segretari e consiglieri delle faccende dell’Impero.

Così, il puzzle corazzato si andava a comporre: gli schinieri, i ginocchiali, i cosciali, gli spallacci, il corsetto, i guanti, gli antibracci, le gomitiere, l’elmo con il coppo, la gronda e la goletta. E per ognuno un lavoro di incastri e di allacciature, affibbiature, anellotti, ganci e bottoni a scatto.

Poteva essere un’incombenza noiosissima, per lui era un buongiorno che lo addobbava nel corpo e nello spirito, e lo rinchiudeva in una cellula corazzata da cui comandare sull’Impero.

Ora, non tutti sanno che le corazze avevano anche degli inconvenienti. Pesavano parecchio e limitavano moltissimo la capacità di movimento, piegarsi, muovere il braccio tanto più con una spada poteva essere un’impresa, girarsi, camminare, spostarsi su un fianco, arretrare poteva far assomigliare a quei robot che si muovevano a scatti improvvisi dopo pause interminabili, prima di andare giù per terra.

Si capisce allora perché l’Imperatore indicesse una gara per realizzare la corazza più resistente e al tempo stesso funzionale, aderente come un vestito e tale da eliminare ogni rigidità e attrito meccanico.

Il compito si presentava assai delicato, tutti sapevano che il sovrano non tollerava promesse che poi non si sarebbero realizzate. Le pubbliche gogne con dei poveri disgraziati lasciati lì ad ammuffire ne erano una dimostrazione.

Nessuno si meravigliò dunque che alla competizione si presentasse un solo candidato. Era già il risultato di una selezione determinata dalla paura e, se si era fatto avanti, voleva dire che o era un dilettante allo sbaraglio o che sapeva il fatto suo.

Veniva dalle fucine della Selva Nera, dove nessuno osava mettere il naso e solo gli iniziati conoscevano le proprietà degli elementi fondamentali e l’alchimia non era solo il sogno di qualche invasato. Erwin Leopard aveva passato la vita tra forge e altoforni, ma non era preceduto da una qualche fama.

Fu convocato in quello tra i Palazzi Imperiale che l’Imperatore si era disegnato da solo, il più intimo e sfarzoso, un’altra corazza, e ricevette l’incarico dal sovrano stesso a cui prese le misure allo stesso modo di un sarto, dal collo alle gambe fino ai piedi.

Salutò con deferenza e ritorno nella fucina della Selva Nera.

Riapparve quando l’Imperatore già cominciava a dare segni di insofferenza per quello che gli sembrava un ritardo.

Era una prima mattina, il momento più adatto per la prova. Il sovrano, in regali brache, era voglioso di verificare il risultato.

Una teca di legno, nemmeno troppo grande, l’imperatore aspettava con ansia e con lui il primo e il secondo segretario, il Maestro del Palazzo, il Maestro d’Armi, la gran cuoca dei wurstel e delle patate di cui era goloso e l’Attore di corte pronto a intervenire se l’umore si fosse storto. E tutti si chiedevano come una teca così minuscola potesse contenere tutti i pezzi di una corazza

Erwin con una sorprendente eleganza ne tirò fuori qualcosa che assomigliava a un vestito, con quelle che sembravano le articolazioni e le giunture di un’armatura. Si poteva riconoscere la sagoma ripiegata dell’elmo così come gli schinieri e le coperture dei piedi, ma completamente afflosciate su se stesse.

Lo distese davanti all’imperatore che non credeva ai suoi occhi e già stava per urlare agli armigeri di scaraventarlo nelle segrete del castello. Non gliene dette il tempo, con un cenno deciso gli fece capire che doveva indossarlo.

La curiosità poté più dell’ira incipiente, l’Imperatore entrò in quell’involucro e quando ci stette tutto dentro, Erwin si avvicinò e allacciò qualcosa fra il corsetto e l’elmo e, un attimo, il tessuto sembrò animarsi come la creatura di Metropolis, ma senza fili e alambicchi elettrici, e il corpo imperiale fu rivestito di una corazza che a vederla sembrava una splendida versione dei modelli vigenti.

L’Imperatore cominciò a muoversi, dapprima con qualche timore, poi con sempre maggiore disinvoltura e agilità, si girava, dimenava le braccia neanche fosse un campione stile dorso, saltava da una parte e dall’altra, faceva stacchi e piroette come un étoile o un lanciatore del disco, e capriole, contorsioni e acrobazie incredibili.

Erwin, allora, invitò i presenti a colpirlo con il fendente più violento, senza paura, stessero tranquilli, era tutto sotto controllo.

Superata la titubanza, uno degli armigeri si fece avanti e sferrò un colpo che, con stupore di tutti, non produsse alcun effetto e anzi si rovesciò su chi l’aveva inferto respingendolo con altrettanta violenza.

Nessuno aveva mai visto uno spettacolo del genere!

Erwin Leopard aveva realizzato l’armatura perfetta, leggerezza, resistenza, morbida e modellata come un vestito.

E l’Imperatore si sentiva finalmente come sempre aveva sognato, in una totale sicurezza, inattaccabile, forte come non mai di sé di fronte a chiunque gli si fosse parato davanti.

L’esibizione del portento corazzato continuò anche perché il piacere di chi lo indossava cresceva su se stesso, mentre tutta la corte guardava con ammirazione Leopard.

Se avessero guardato bene si sarebbero accorti di una smorfia della bocca, unita a uno sguardo che esprimeva una strana soddisfazione.

A un certo punto, l’Imperatore si stancò di quella performance e chiese ad Erwin di potersi togliere l’armatura, anche per ringraziarlo della sua straordinaria opera.

Ma Erwin Leopard non si mosse. Allora, il primo e il secondo segretario sentendo il loro signore che rinnovava l’invito a liberarlo, si fecero avanti. Provarono e riprovarono ma invano.

Allora, guardarono tutti verso Erwin che, serafico come neanche Bonaventura da Bagnoregio, spiegò che l’armatura era stata costruita tutta intera e in modo che una volta chiusa fosse sigillata in se stessa e mai nessuno potesse più riaprirla. Nessuna custodia poteva essere più sicura per il potere che l’Imperatore rappresentava!

Dopo di che, sorprendendo tutti, corse via e non ci fu verso di inseguirlo e tanto meno di ritrovarlo.

Era un maestro della Selva Nera, dove sicuramente tornò. E la Selva Nera era un posto dove difficilmente a qualcuno sarebbe venuta l’idea di entrare.

Quanto all’Imperatore, non uscì mai dalla trappola.

Nell’elenco dinastico viene ricordato come l’Insaccato.

30. Anna Maria Petrova – Ghiuselev

(da Biennale Artemidia per l’arte bulgara e italian
NEGLI ULTIMI GIORNI

Negli ultimi giorni ci dice il cuore –

bisogna vivere di più,

sentire l’unicità della vita di più …

Negli ultimi giorni del nostro mondo

bisogna amarlo fino a sentir dolore

ma essere pur pronti a consegnarlo al futuro.

Negli ultimi giorni di noi

bisogna progettare di più,

vedere di più, sentire di più

ed essere pronti al passaggio …
Essere pronti a noi futuri,

vivi o nell’eternità.

Negli ultimi giorni della gioia

bisogna amare, amare e passare.

Occhi miei stupiti e innamorati,

di beltà affamati!

Guardate, guardate, rubate e vivete la vita

rinchiusa nel cristallo dei nostri giorni …

Assorbite tutto occhi, ricordatelo all’anima,

conservate i granelli d’oro

del nostro oggi condannato a noi …

E a noi domani donate

la memoria eterna di noi oggi!

Annabelle

31. Alessandra Jannotta

12 maggio 2020 – Ventiduesimo piano

Oggi sono uscita con mia sorella,siamo andate a fare una passeggiata al parco.
Avevo dimenticato il profumo dell’erba e della primavera. Non ricordavo più la carezza del vento tra i capelli. È stato un po’ come avere volato.
Allora caro Virus,sai che ti dico?
Al ventiduesimo piano della mia fabbrica farò scendere dal soffitto centinaia di imbracature, i bambini,aiutati dalle fate e dai folletti si legheranno per fare meravigliosi voli in assenza di gravità.
Quando scenderanno nuovamente a terra,anche loro si sentiranno più leggeri, proprio un po’ come mi sono sentita io oggi.

A guardia del tesoro lascerò come sempre una poesia della mia amica poetessa.Tu cerca di indovinare perché il ventitreesimo piano sarà un piano speciale!

“Dove Tutto
Cartoni vuoti
Buttati per strada
Assomigliano ai miei pensieri
Rifiuti cartacce sporche
un gabbiano mangia
I miei ricordi si riflettono
Nei suoi occhi vivi veloci
Accarezzo tutto
Non voglio cambiare nulla
Anche quella puzza appiccicosa che aleggia tra voragini di asfalto
Ovunque
Assomiglia ai miei sogni lasciati marcire
Nelle gabbie di nerepaure

Cammino in mezzo a prati verdi
Margherite belle perfette
petali bianchi
punti gialli
Brillano come piccoli soli
non ricordo il loro nome
Poi soffioni leggeri baciati dal vento
Si affidano
Si alzano in volo
Il mio respiro con loro

Mondi
Dove tutto è Possibile…”


13 maggio 2020 – Ventitreesimo piano

Oggi sono veramente emozionata.

Con mia zia abbiamo deciso che, visto che sei diventato così bravo,per il momento ci fermiamo al ventitreesimo piano.

Questo sarà un piano segreto.

Nessuno saprà cosa ci sarà al suo interno.

Posso solo dirti che i bambini dovranno ricordare tutto ciò che di meraviglioso hanno fatto nei vari piani della mia fabbrica.

Dovranno poi scrivere su un foglietto il numero del piano che per  loro è stato il più bello e solo allora riceveranno dalla fatina con le ali dorate,gli occhi viola e i capelli azzurri,le chiavi per potere aprire la porta magica …

32. Alina Monica Turlea
Il canto

Ho snudato la parola,

ho esposto i nervi scoperti,

volendo riconquistare il canto,

taglio dopo taglio,

goccia di sangue

dopo

goccia di sangue,

un canto vuoto,

impuro,

nel labirinto selvoso

delle emozioni profonde,

metafisica del

hic et nunc,

trascendenza

d’un al-di-là,

grumo d’essenza,

mappa di possibilità,

che fiorisce,

un universo;

ogni voce cuce ferite.

Le vie del canto sono (in)finite.

Ladra di luce

deus-divinus

la luce,

possibilità,

radice d’ogni sguardo;

la luce,

forma di ogni cosa,

cerchio tracciato

dalle tue labbra;

lo sguardo del pensiero illuminato,

luce irradiata

al di qua dell’esistere

nell’Eterno Ritorno

a se stessi…con passi silenziosi.

Paradiso perduto

Nasciamo dal ventre di una Eva reclinata

in un desolato vuoto della scena,

sulla lastricata distesa

sembriamo segni alfabetici,

come una pagina bianca

pronti per scrivere la storia

tragicomica del mondo

…che verrà,

nell’urlo disperato di Adamo.

33. Carlo Piola Caselli

Napoleone non si sarebbe potuto lamentare

Dando un’occhiata alla cosiddetta “Spagnola” leggiamo che l’Isola di Sant’Elena è stata esente dal virus, nelle sue quattro ondate, quindi se per assurdo Napoleone fosse stato in vita, un secolo dopo, non si sarebbe potuto lamentare.

È stata così chiamata poiché, non essendo la Spagna in guerra, non era soggetta alla censura militare, per cui se ne discuteva pubblicamente (tanto più che essa aveva colpito il re Alfonso XIII) e se ne scriveva liberamente sui giornali e sulle riviste specializzate. Infatti, allora come ora, c’è stata molta reticenza (all’epoca da parte delle autorità statunitensi) ad ammetterne la gravità, minimizzando il problema in tutte le maniere ed imponendo a tutti i costi il segreto.

In cento anni non solo il mondo non è cambiato ma si strumentalizza la pretesa della verità, dimenticando le grosse e stagionatissime travi nei propri occhi.

Stranamente, la seconda ondata è stata ancor più letale della prima, ragion per cui si deve stare sempre in guardia e non fare come molti incoscienti, i quali con i loro comportamenti irresponsabili, pur essendo una spessa minoranza, possono causare dei grossissimi ulteriori danni anche all’economia che vorrebbero con la loro idiozia risanare!

Quella pandemia cento anni fa ha raggiunto persino le parti più remote del globo, perciò, allora come ora, dovremmo addossarne il concorso di colpa anche ad Eolo, secondo Omero il dio dei venti, spesso dispettoso, a volte crudele, che ha aperto gli otri, facendoli soffiare carichi di virus in tutti i continenti.

Ricordiamo, ad Atene, nell’agorà romana, la famosa “torre dei venti”, ottagonale, in marmo pentelico, con raffigurati Borea (Βορρέας, Nord), Kaikias (Καικίας, Nord-Est), Euro (Εύρος, Est), Apeliote (Απηλιώτης, Sud-Est), Austro (Νότος, Sud), Lips (Λιψ, Sud-Ovest), Zefiro (Ζέφυρος, Ovest) e Skiron (Σκίρων, Nord-Ovest). Nel 1942-43 era stata emessa in Grecia una stupenda serie di otto francobolli, raffiguranti ciascuno di essi.

Virgilio racconta che Giunone ha tentato di corrompere Eolo, promettendogli la formosissima ninfa Deiopea (che vuol dire la Devastatrice) se fosse riuscito a far naufragare la flotta di Enea veleggiante verso l’Italia, ma è intervenuto Nettuno a placare le acque. Con questi venti poco scrupolosi che si fanno comprare dalle divinità capricciose, c’è poco da stare tranquilli in questo periodo, vedremo come andrà a finire, speriamo che Nettuno con il suo tridente continui a tenerli a bada ed a prenderli in contropiede ( … volevo dire controvento).

Torniamo un momento a Napoleone, volendo, secondo la nuova normativa, con un proprio mazzo di carte si dovrebbe poter fare il solitario, e qualcuno (in pochi) intorno ad assistere come vada a finire. Invece, per esempio nei centri anziani, dove si radunano quelle persone che cercano di socializzare e di ritrovare degli amici intorno ad un tavolo, sarebbe proibito giocare a carte, poiché esse potrebbero venir toccate da un portatore sano, ma mi sembra che basterebbe ad ogni giro aver la pazienza di disinfettarsi le mani, intanto ormai esse sono plastificate e quindi resistenti. Oppure i giocatori potrebbero usare pinze e pinzette, come fanno i filatelici, e chi fa il mazzo disinfettarsi le mani con l’amuchina.

Un problema è invece quando ci servono i generi alimentari con i guanti che però toccano anche il denaro e danno il resto, a volte proveniente da saccoccie sporche di fazzoletti e di quant’altro, o da gente che ha toccato patate, animali, spazzatura.

Mi ricordo una decina di anni fa una scenetta divertentissima nel centro di Atene, nella zona pedonale, c’era un locale su strada, piccolissimo, quadrato, meno di un metro e mezzo di lato, ed il giovanotto che stava al banco a servire (mi sembrava di origine nordica), gentilissimo, prendeva il denaro con delle pinze e nella stessa maniera dava velocemente il resto sino all’ultimo centesimo. Dovrebbe essere di esempio e per questo motivo lo segnalo, chiedendo agli amabili lettori di passare parola.

Tornando un momento a Sant’Elena, proprio nel Memoriale di Napoleone troviamo il concetto moderno e precorritore di Europa, intesa come «associazione europea», con un «unico codice europeo», una «corte di cassazione europea», «una stessa moneta sotto coni differenti, uguali pesi, medesime misure», «un solo popolo ed ognuno, viaggiando, si sarebbe trovato sempre nella stessa patria comune», poiché all’Isola d’Elba, poi nei “Cento giorni”, infine nell’isola sperduta nell’oceano, si è attuata la sua conversione dalle idee egemoniche a quelle liberali, dei popoli che si sarebbero uniti per volontà propria e non sotto la forza delle armi.

Son stato da Figaro, mi ha sistemato barba e capelli. Ero certo che avendo il Comune dato le disposizioni per l’apertura alle 11 sia una madornale fesseria ma, prima di pronunciarmi, ho voluto sentire il suo parere, anche perché andandoci per appuntamento (ed ogni seduta dura una mezz’ora, nel mio caso di più) non si genera alcuna ressa, né nel traffico né nel suo luogo di lavoro, inoltre lui non può aprire a quell’ora e chiudere due ore dopo per pranzare, deve arrangiarsi con un panino, è vero che in teoria potrebbe continuare fino alle 8 o alle 9 alla sera, ma a quell’ora non ci sono clienti, per cui ad una data ora chiude.

Poiché minacciava un temporale, al ritorno son salito, per poche fermate, su un autobus che passa davanti a casa, ed ho così potuto e dovuto osservare un’altra assurdità (un modo garbato per dire “un’altra grossissima fesseria”): quasi tutti i sedili avevano il segnale che non si dovessero utilizzare, mentre alcuni di essi potevano esser distribuiti diversamente, cosicché le persone, per la maggioranza, non solo erano in piedi, ma si ritrovavano tutte assiepate a mezzo metro di distanza l’una dall’altra lungo il corridoio, con il fiato sul collo!!!

Ci sarebbe da domandarsi, siamo vittime del coronavirus o del virus della cretinaggine di pochi contro tutti? Un conto è prender delle cautele e dire, io per primo, da persone forti e temprate, «dura lex, sed lex», altro conto indurci a vivere non solo nel mondo dell’assurdo, ma farlo diventare sempre più assurdo.

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Massimiliano Kornmuller, paesaggio con libro, incausto su tavola

34. Pasquale Sica
Canzone d’amore

Ora che questo maggio senza rose

(e così senza dolore

per il loro troppo rapido sfiorire)

ora che questo mese scivola lento

verso una torrida estate prematura

ora tu amore cantami

con voce rotta la lode del tempo andato.

Ora che questo cielo è reso invisibile

da una statica persistente foschia

tu amore mio continua finché ne hai cuore

a sostenerne la volta con il sorriso.

Ora che il futuro immaginato oscilla ogni istante

tra il mondo com’era e un mondo sconosciuto

amore dove tu

volgi i tuoi occhi là è la nostra stella.

35. Erminia Gerini Tricarico
ADDIO ALLE ARMI

Ci sono molti modi per dirlo e Giuliana lo ha fatto da artista, dandomi l’illusione di un innocente regalo, arrivato in un pacchetto postale dall’involucro anonimo. Dentro, una piccola borsa di seta a soffietto di colore turchese, che si apriva in tanti scomparti da guardare uno alla volta, secondo le sue istruzioni. Era la vigilia del mio compleanno, ma non era un regalo per la mia festa. Per lei era una convenzione e un inutile frazionamento. Considerava la vita un segmento con due estremi: la data di nascita – indipendente dalla volontà – e quella della fine, che sarebbe stata per sua volontà. Questo mi aveva detto il pomeriggio in cui, come tutte le volte che capitava a Roma, mi reclamava nel suo monolocale in Piazza del Pantheon. Era il giorno del mio cinquantesimo compleanno e guardavo la linea della vita sul palmo della mano sinistra: quella del cuore. Ne avevo percorso sicuramente più della metà. Ma quanta di più?

“Se vuoi saperlo devi soffrire un po’ – mi ha detto Giuliana armeggiando con aghi e inchiostri. Mi ha preso la mano, come per leggerla e mentre le lacrime scorrevano a ruota libera mi ha illustrato la sua filosofia esistenziale. Avrebbe chiuso il giorno in cui si fosse spenta la sua curiosità. Non piangevo per lei, bella, sulla cresta dell’onda, con amori più o meno infelici e più o meno brucianti, che alimentavano la sua vita, ma per il tatuaggio che mi stava facendo: un lungo gambo, sottile come la linea della vita, che agganciandosi al suo estremo saliva oltre il polso e si schiudeva in una piccolissima rosa rossa.” Questo è il mio regalo: una vita di scorta. Non te ne farò altri per i tuoi comple…niente”.

Seguendo l’ordine ho tirato fuori una serie di mascherine di seta dipinte da lei: si aprivano mostrando altri disegni nascosti tra le pieghe. La prima, “da sera”, era piena di stelle, ma bastava distenderla e subito apparivano occhi spalancati, che le guardavano. Non avrei mai indossato quelle meraviglie, per non rovinarle con il vapore o altri disinfettanti. Erano un tesoro da custodire. Una ingordigia infantile mi spingeva a tirarle fuori velocemente: un sesto senso mi obbligava a indugiare.

Sull’ultima mascherina, la più spoglia, era disegnato un gambo sottile, che tutta l’attraversava e finiva con una piccola rosa rossa. Mi regalava un’altra vita di scorta, accompagnata da poche parole: “Erano le mie armi. Non mi servono più. Mi sono arresa”.

36. Paola Rago
È trascorsa anche la musica

Dalla mia finestra non vedo nulla. Case senza vita che si offrono mansuete. Orfane di risate e di canzoni. Insieme a tutto il resto è trascorsa anche la musica.

Giordana si trascina come sempre, sento il suo passo, ma mi accorgo solo ora del suo rumore meccanico, una sorta di picchio che dal mio soffitto mi dà contezza della mia esistenza, nonostante il male.

È arrivato di notte, come gli assassini scaltri, mi ha ridestato da un sonno cupo e spesso, con un colpo di tosse acuto e la sensazione che al posto dei polmoni ci avevo conficcate due pietre focaie.

E mi sono ricordata di quanto mi avevi detto, Giacomo. Che io non posso più restare da sola e che dovrei arrendermi all’età ed essere docile, come una bimba affettuosa e ragionevole.

Eppure io non sono mai stata né affettuosa né ragionevole, ma nessuno lo sa.

Non lo sapeva il soldato tedesco che feci fuori nel vicolo dietro la chiesa. Mi aveva scambiato per una puttana, ma io ero invece una di quelle che era meglio non incontrare.

I nazisti mi avevano ucciso il fidanzato e il fratello, io ero rimasta come una risaia asciutta. E lì il soldato trovò la sua croce.

Giordana tiene accesa la televisione accesa giorno e notte, ora che non ci possiamo più vedere. In realtà non la guarda nemmeno, vuole solo farmi sapere che è ancora viva e che aspetta che io vada da lei.

Ma io non ci andrò più, l’ho detto anche a Giacomo.

Ora vorrei solo ricordare, ma tutto è confuso e irrazionale, forse il virus mi è arrivato al cervello e sta facendo il suo lavoro.

Non mi ricordo quanti anni ho, ma fino a qualche anno fa andavo a scuola e se potessi aprire il cassetto troverei il mio bel quaderno di seconda e il pennino e tutto il resto.

Forse mi sbaglio, perché ora ricordo che ricamavo col tombolo e le signore mi pagavano bene e ogni volta mi commissionavano un lavoro diverso. Poi aprii un negozio e cominciai a fare i diné.

Ma soprattutto, cosa sono tutti quei libri che vedo stipati nel corridoio? Un uomo viene ogni tanto e li prende, poi viene accanto al mio letto, mi prende la mano e piange. No, non è Giacomo. Lui me lo ricordo quando andavamo a far funghi, col fucile in spalla, ma poi il cesto cadeva e io vedevo solo il cielo azzurrissimo sopra di me ed ero felice di quel cielo che potevo toccare.

Una donna entra e mi attacca l’ossigeno. Non so se è una donna o un marziano. Forse gli extraterrestri hanno invaso la Terra e mi stanno tenendo qua per fare chi sa quale diavolo di esperimento.

Come sta?, mi chiede.

Io scuoto il capo e chiudo gli occhi.

Non le dò soddisfazione… Non mi hanno preso i nazisti, figuriamoci se mi lascio fregare dai marziani!

Giordana, sono le 10.00 di sera, alza il volume alla televisione. Tempo cinque minuti e non avrà più pensieri tristi.

Io, invece, non dormo da secoli. Non mi ricordo proprio quando ho dormito l’ultima volta. Ah, ecco, da quando ho la tosse e mi entra aria nei polmoni.

I nazisti non sanno che io so trattenere il respiro. Lo feci una volta per fingermi morta. Beh, in realtà mi avevano colpito, ma io seppi tener il respiro fermo e gli occhi sbarrati, mentre un rivolo di sangue mi scorreva lungo la tempia.

Giacomo, mi dice: A te, nessuno t’uccide, hai sette vite peggio di una gatta!

Difatti, ho novantacinque anni suonati, ma devo stare ancora qui. Non datevi preoccupazione, non voglio andare in ospedale. È solo un graffio. È inutile che vi affannate. Tanto io la mia croce l’ho già piantata in questo bosco. Ma ci vorrà ancora del tempo. La lotta è ancora lunga e quella di lottare è la sola cosa, compagni, che io ho saputo sempre fare.

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Eugenia serafini, Zinnia, il prmo fiore dello spazio, acquerello

37. Lara Di Carlo

Al sapor di mascherina

Lontananza dimenticata nel calore di un abbraccio suggellato da un bacio ruvido al sapor di mascherina.

38.  Lilly Ippoliti
Anna, Marianna e Sara

Il commissariato era deserto e un unico agente stava scrivendo al computer. Alzò gli occhi quando Anna apparve sulla soglia della porta aperta e, per un momento, la fissò un po’ sorpreso.
“Desidera?”
“Buongiorno. Ho bisogno di un permesso che mi autorizzi a girare liberamente” rispose con il solito tono deciso di chi non ha tempo da perdere.
L’agente fece un sorrisino ironico : “E dove vorrebbe andare in giro “liberamente”? Anzi, cominci col dirmi lei chi è e perché non è a casa come vogliono le disposizioni del governo in questo momento”

“Sono un’operatrice di Befree, una cooperativa sociale che si occupa della tratta e della violenza contro le Donne. Starei volentieri a casa in questo momento ma devo occuparmi di Donne che, invece, non dovrebbero stare in casa…magari con i loro bambini e il marito violento. Diciamo che devo fare visite domiciliari perché le Donne che venivano al nostro centro per farsi aiutare ora sono chiuse in casa e siamo noi ad andare da loro…quando ci lasciano entrare….”
L’agente la guardava un po’ sorpreso e piuttosto perplesso. Non sapeva bene come affrontare la concessione di un permesso così insolito. Lei rimaneva in piedi, impaziente e lui prese tempo con una domanda: “Quindi il permesso non sarebbe solo per lei?”
“Ovviamente. Siamo tante ma mai abbastanza. Facciamo turni spesso di 24 ore, giorno e notte, in ospedale, nelle case protette, in tribunale, per strada…Il permesso dovrebbe valere per ciascuna di noi!”

Lui sembrava via via più perplesso: “E’ una situazione anomala…dovrei sentire il mio superiore perché, dandole questo permesso, metterei in pericolo la sua salute così come lei potrebbe portare in giro il contagio e…”
“Bene. Allora le lascio l’elenco dei recapiti delle nostre Donne a rischio e glielo aggiornerò via via che ne conosceremo altre e lei e i suoi colleghi andrete a casa loro al nostro posto.”
Lui, adesso, era decisamente a disagio. La fissò in silenzio per qualche istante poi con la mano le indicò la sedia davanti alla sua scrivania: “Si accomodi, signora. Mi faccia fare qualche telefonata. Sinceramente non so come autorizzare…si, insomma…lei e le sue colleghe…ma troveremo una soluzione…”

Lei rimaneva in piedi ma la sua espressione sembrava appena un po’ più dolce.
L’agente insistè: “Si sieda un momento, per favore. Ha un’aria così stanca!”
E prese in mano il telefono.

*****
” Ciao Marianna, finalmente ti trovo! Perché non rispondi al telefono? Cos’è questo casino, dove sei?”
“Dove vuoi che sia? Sono in casa-famiglia. La piccolina sta mettendo i denti e piagnucola continuamente, vuole starmi sempre in braccio e le altre bambine sono un po’ isteriche per
“Hai una brutta voce, come stai?”
“Distrutta. E’ la terza notte di seguito che faccio qui perché come operatori siamo a ranghi ridotti. ”
“Come mai?”
“Gia’ da settimane, cioè prima di questa emergenza sanitaria, alcuni di noi hanno dovuto, a malincuore, lasciare il Tetto (Il Tetto Casal Fattoria) perché il Comune non paga le rette da un anno. Alcuni delle nostre equipe hanno famiglia…Adesso è tutto ancora più complicato ma come facciamo a lasciare i bambini che già vengono da situazioni disastrose? I volontari, per quanto generosi e disponibili, sono rimasti in pochissimi…anche loro hanno le loro famiglie.”

“E tuo figlio?”
“E’ dai nonni. Non lo vedo dalla scorsa settimana.”
” Sono senza parole…posso fare qualcosa?”

“Grazie…a meno che tu non venga a darmi il cambio stanotte credo proprio che non…anzi, scusa, devo lasciarti perché le bambine si stanno tirando addosso le tessere dei puzzle e…”

*****
Sara ormai se lo spettava che il poliziotto le intimasse di accostare. Lei si fermò, abbassò il finestrino e fece un sorriso tirato cercando nel cassetto porta-oggetti il foglio prestampato.

“Buongiorno signora, è la terza o quarta volta che passa di qua in poco tempo e non mi dica che sta andando a fare la spesa. Lo sa che non si può uscire da casa?”

“Ma io sto andando a casa. Abito qui vicino.”

“No, lei è transitata prima in una direzione poi in un’altra diverse volte. Mi dispiace, a meno che lei non abbia un valido motivo, la devo sanzionare. Allora mi dia i documenti e mi dica dove abita.”

Lei cominciò dalla domanda: “Abito alla Nuova Arca, la casa-famiglia di cui sono responsabile per mamme sole con bambini…è a due kilometri da qui.” Poi gli allungò i documenti.

Accanto al poliziotto la collega assisteva alla scena apparentemente impassibile.

Sara cercò di mantenere un contegno ma subito le mancò la voce: “E’ per via dei pannolini. La scorta per le mamme della casa-famiglia è finita e abbiamo quattro bambini molto piccoli. Ho provato in vari supermercati qui intorno ma ne ho trovati pochissimi…non so dove altro cercare…”

Intanto il poliziotto riempiva il verbale.

Ci fu un momento di silenzio che parve lunghissimo poi la collega si avvicinò al finestrino e con un tono perfettamente distaccato e professionale le suggerì: “Provi al discount del quartiere verso il mare io, per mia figlia, li compro sempre lì. Il collega le sta facendo un’autorizzazione solo per oggi. Se non ne trova abbastanza, ripassi di qua e ce lo faccia sapere.”

Poi le restituì i documenti con un impercettibile sorriso.

39. Antonietta Tiberia
LOCKDOWN

Libertà vo’ cercando ch’è sì cara
(Dante, Divina Commedia,)

Si sta come sospesi, in vita prorogata
tempo bloccato come da un sortilegio.
Domestica clausura. Asserragliati in casa
i giorni tutti uguali
son come una lunghissima giornata
fatta di gesti incisi, rassicuranti
da sapienza acquisita
i tempi lenti delle cose di sempre.

Movenze quotidiane reinventate
a dar sostanza al vuoto

a custodia di gioie

senza voglia di fare.

Come cambia la vita…

Forzata sospensione e basse aspettative,

i contatti lontani e tenuti a distanza,

nell’illusione di poterla scampare

e navighiamo a vista

le passioni represse o costrette in un giogo

cancellato ogni rito,
progetti rimandati.

L’aria è tornata tersa.

Strade vuote di gente, liberate dal traffico.

La natura animale si riprende gli spazi

La vita sta mostrando continue evoluzioni:

è un’opportunità per fare delle scelte,

un’occasione buona per lavorare insieme.

Ricominciamo a scegliere:

la vita ce lo insegna e ce lo impone.
Roma, 2 giugno 2020

40. Bruno Pezzella*
CATTIVI PENSIERI a cosa servono le catastrofi
Sinossi

La pandemia da Covid19 è stata è sarà una verifica per il pensiero. Ma non uno spartiacque tra il prima e il dopo. Adesso, molto di quello che abbiamo fatto, detto e sentito, scritto, letto, sembra vecchio di secoli. Sembra cambiato o crediamo che cambierà il nostro modo di pensare, di decidere, di comportarci. Ciclicamente le catastrofi servono a ristabilire gli equilibri, perché qualsiasi forma deve la propria origine ad un conflitto. Ma sarebbe sbagliato ritenere che la pandemia abbia interrotto il tempo, e che questo timeout forzato ci abbia quasi costretti e contro voglia, a pensare a come eravamo, a riflettere sulla nostra condizione esistenziale. Perché questa è una riflessione che abbiamo rimandato per troppo tempo. Così come ancora più grave sarebbe pensare che il Covid 19 abbia avuto una funzione catartica e purificatrice e che la catastrofe annunciata sia il male necessario che ci cambierà in meglio. Perché non sarà così. Il nostro modo di ragionare era ed è tuttora influenzato da un sistema di pensieri intrusivi, che lo condizionano in modo radicale ed è un modus che abbiamo sedimentato e che condividiamo con molte complicità. Il libro cerca, pure senza elencarli, di individuare questi pensieri che condizionano il modo di decidere e comportarsi di ogni individuo fino a cambiare anche la semantica di molte parole chiave nel senso comune; parole come: persona, libertà, democrazia, Stato, male, paura, scienza,etica, scuola, lavoro, felicità, corpo, complessità, vecchiaia, memoria, modernità. E vuole dimostrare come il pensiero stia pericolosamente smarrendo la propria unica e imprescindibile identità di “essere”, per assumere un ruolo virtuale e distaccato, che sempre più sta allontanando l’uomo da sé stesso.

La prospettiva salvifica è soltanto quella di ritornare ad uno stile di pensiero che Thomas Mann ha definito “un umanesimo militante”.

*Bruno Pezzella, durante il periodo dell’isolamneto per coronavirus ha scritto un romanzo dal tiolo “Cattivi pensieri” . Si presenta la sinossi
Scrittore, giornalista, è nato a Napoli. E’ autore di numerosi saggi monografici e manuali in particolare sulla didattica disciplinare e sulla comunicazione (Università Federico II di Napoli).

 

41. Angelo Zito

Er dito

Nun te chiedo ‘na mano, damme er dito

er punto de contatto, la scintilla

l’istessa che er sommo Bonaroti

istoriò su la vorta a la Sistina.

Dicheno i libbri antichi che dar dito

se trasmise la corente de la vita

ma er Signore co’ l’indice puntato

voleva mette in guardia in sempiterno.

Famo un patto come tra padre e fijo

rispetta chi nu la pensa a modo tuo

essi accorto si trovi differenze

tra er bianco e er nero tra la vorpe e l’uva.

Ma la storia va avanti ancora oggi

la rota de l’incomprensione nun se ferma

ripetemo parole risapute

pe’ dà ‘na mano de bianco a la facciata,

ma er fatto resta, resta la distanza

de le capocce da ‘na sponna all’artra

e er dito der Signore pare puntato

piú pe’ condànna che pe’ datte vita.

A quistionà co’ l’artri se fà presto

ma quanno devi riccoje er risurtato

rischi de mette insieme solo cocci,

nun tiramo la corda a dritta e a manca

mettemo in fila li sassetti a uno a uno

costruimo quer ponte che accomuna.

Provamo a parlà ‘na lingua sola

provamo a trovà er conforto der silenzio

provamo ancora ‘na vorta, co quer dito,

a sentí er brivido de quanno semo nati.

42. Carlo Bernardi
Il Faraone e i chicchi di grano sulla scacchiera

24/05/2020 domenica – Oggi è l’anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia. La Prima Guerra Mondiale ha unito tutta la penisola ma è stata anche la rima tragedia che ha coinvolto paesi di tutto il mondo. Come la pandemia è un anniversario, non una festa.

Anche oggi siamo andati al mare per scoprire che le cabine sono state veramente distrutte dalla mareggiata. Ora bisogna attendere le disposizioni della Regione sulle procedure di gestione e i tempi delle prossime aperture di stagione per quanto riguarda il litorale. Spero proprio che si possa tornare a fare i bagni e prendere il sole.

Intanto l’aumento degli assembramenti e delle movida pazze dimostra che si sta sottovalutando il rischio di una ripresa della pandemia che renderebbe vane le restrizioni subite in questi ultimi mesi. Tanto poi si darà la colpa al governo. Quello su cui nessuno sembra riflettere è che la quarantena forzata ha impedito che il virus si propagasse troppo velocemente fino a contagiare in breve tempo tutta la popolazione della terra perché se uno ne contagiava due e due ne avesse contagiati quattro, poi sarebbero diventati otto, sedici, trentadue e così via. Una situazione che ricorda il regalo fatto dal Faraone all’ambasciatore persiano che gli insegnò il gioco degli scacchi. Alla richiesta di un chicco di grano per ogni riquadro della scacchiera da raddoppiare ogni volta, il Faraone sorrise e ordinò di provvedere. Se consideriamo che 10 chicchi pesano circa 10 grammi vuol dire che il Faraone avrebbe dovuto consegnare all’ambasciatore 1.800.000 milioni di tonnellate, equivalenti alla produzione mondiale di grano di tremila anni! Questo è quanto ha impedito al virus di propagarsi perché la quarantena ha fermato la progressione geometrica riducendo in modo controllabile contagiati e deceduti.

Al mare ho letto un’altra delle Novelle per un anno di Pirandello poi, la sera dopo cena, abbiamo visto il film Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi con Gianmaria Volonté. Rosi, oltre a valutare positivamente Volonté, aveva dichiarato che l’attore rubava l’anima ai personaggi immedesimandosi totalmente con loro e io, che l’avevo conosciuto, posso confermare che era proprio così e anche in questo film, lui non impersonava soltanto ma era Carlo Levi.

La scuola è vita

26/05/2020 martedì – Oggi si è discusso molto se e quando riaprire le scuole. Il governo è orientato a porre la fiducia sul provvedimento. Con la chiusura il distanziamento è stato necessario per non permettere al virus di dilagare. Ora, se non si ripresenta il picco pandemico come è avvenuto in altri paesi come la Corea del Sud, si può pensare a far tornare i nostri figli a scuola. Io non ritengo che si debba per forza ricorrere alle forme tradizionali di utilizzo delle aule scolastiche con i banchi che non garantiscono la distanza di sicurezza necessaria. Chi ha detto che gli studenti non possano seguire le lezioni stando seduti lungo le pareti oppure in circolo. Quello che serve è una scuola che funzioni svolgendo programmi adeguati alla preparazione degli studenti.

Nell’antica Grecia esisteva la scuola peripatetica dove gli studenti seguivano le lezioni ascoltando l’insegnante mentre passeggiava all’aperto, spesso nel giardino. Questo metodo l’ho conosciuto anch’io. Quando ero in collegio mi trovai, in quinta elementare, in una classe di quattro alunni. Non si poteva occupare un’intera aula solo per un numero così esiguo di scolari, perciò si tenevano le lezioni all’aperto e il giardino era il luogo ideale. Se invece pioveva, si insegnava all’interno seduti sulle scale. No ho mai sofferto mancanze d’insegnamento ma questo mi faceva sentire unico e fortunato rispetto alle solite forme di inquadramento. La scuola può essere anche questo.

Non è, quindi, solo un problema di apertura o meno delle scuole ma il modo in cui ci si vive e si insegna. Quello che è accaduto durante la pandemia può essere anche l’occasione per mettere in sicurezza gli edifici scolastici e pensare in altro modo alla gestione dei servizi e della mensa perché, se è vero che rischiano il lavoro più di duemila persone, non è certo per colpa del governo se è accaduto ma del COVID-19 che non ha permesso di organizzare il cibo in scuole completamente vuote. Sempre con cautela e attenzione tutto dovrebbe riprendere, anche se non come prima.

La scuola innanzitutto, perché la scuola è vita.

I film possono salvarci la vita

25/05/2020 lunedì – La visione di un film non è solo un passatempo ma è anche arte, cultura, rappresentazione. Il cinema è diventato ormai l’arte più completa che ingloba musica, teatro, danza, pittura e molto altro. Fin da quando ero piccolo avevo fatto del cinema motivo di arricchimento personale. Allora non c’era la paghetta settimanale e i motivi di divertimento si trovavano nell’oratorio dove si poteva giocare gratuitamente al calciobalilla, a pingpong, al calcio o alla pallavolo. Oppure fuori nei bar a vedere altri impegnati coi flipper e anche nei circoli ricreativi dove giocavano al biliardo.

La domenica, chi andava a messa, aveva diritto alla visione gratuita del primo film della settimana. Ho potuto vedere, così, film come Guerra e pace, I dieci comandamenti, Ben Hur, e tanti altri in cinemascope.

La domenica mia madre mi dava 100 lire che utilizzavo per andare al cinema dove il biglietto costava 99 lire. Invece del resto, accettavo una caramella dove, sulla carta interna, a volte si trovava la scritta: Valida per una visione gratuita. Questo mi assicurava una somma da spendere tutta per altri scopi. Le sere d’estate, sempre con la parrocchia, frequentavamo l’arena all’aperto. Tutto questo mi assicurava la visione di almeno due o tre film la settimana, abitudine rimasta per tutta la vita.

Durante le mie convivenze ho avuto donne che amavano il cinema con cui e che, anche per motivi di lavoro, avevano il piacere di passare i fine settimana a vedere film. Una di queste lavorava al montaggio cinematografico e era amica di Giuliana che è stata compagna del regista Silvano Agosti.

Ricordo che una domenica pomeriggio andammo al cinema Galleria (ora Galleria Sordi) a vedere il cartoon La collina dei conigli e quando siamo usciti, nella via adiacente siamo entrati a vedere L’uomo di ferro di Andrzej Wajda.

Ancora oggi vado al cinema due o tre volte la settimana selezionando i film da vedere.

Una volta le sale avevano anche duemila o più posti e il film era proiettato su grandi schermi. Ora sono tutti delle multisale piccole e accoglienti.

Quello che mi disturba è la chiusura di sale abbinate ai miei ricordi. Ancora oggi la visione di molti film è legata alla sala cinematografica dove li ho visti. Per esempio Ludwig al Farnese, 2001 Odissea nello spazio al cinema America, Ultimo tango a Parigi in quella che ora si chiama Nuovo Sacher, La sfida al cinema New York dove a tredici anni ho visto il film L’uomo senza paura con Kirk Douglas, Ciao Pussycat al cinema Roma, e potrei continuare ancora. La chiusura delle sale mi ha rubato pezzi di memoria.

Ora per colpa del COVID-19 l’attività cinematografica e teatrale si è fermata e non si sa quando e come potrà riprendere. Non si tratta solo di andare al cinema ma se e come gli attori potranno o no avvicinarsi per abbracciarsi e baciarsi.

Il cinema anche in questo caso ha salvato molti dalla quarantena e non si è trattato di nuovi film ma di quelli selezionati che non avevamo viso al cinema o che abbiamo anche rivisto con piacere. Ora posso dire con tutta sincerità e con forza che: Il cinema mi manca!!!

L’Europa esiste e ci salverà ma dipenderà anche da noi.

27/05/2020 mercoledì – La BCE ha stanziato 750 mld e di cui 172 sono destinati all’Italia. Alcuni Paesi non sono d’accordo ma la BCE, che agisce autonomamente, dimostra di saper affrontare la crisi sanitaria e anche economica dando un segnale importante che l’Europa esiste.

Questa decisione ha creato scontento di alcuni paesi, specialmente al Nord, ma ha sconcertato le destre del nostro Paese che non si aspettavano un aiuto così eccezionale. Qualcuno ha provato a dire che si poteva avere di più ma il problema vero è quello di come utilizzare al meglio queste somme che in parte sono a fondo perduto e parte sono un prestito a basso contenuto di interessi.

Ora il vero problema è di dimostrare di essere seri e capaci anche perché il tutto è condizionato dall’uso che ne facciamo che è strettamente legato al rilancio dell’economia e al come affrontiamo la crisi sanitaria. Una cosa è certa, il risultato è merito del governo con Sassoli e Gentiloni che ci rappresentano in Europa. Il ragionamento e la diplomazia sono stati gli strumenti convincenti usati nell’interessi del Paese e dell’Europa stessa. Non è sbattendo i pugni sul tavolo che potevamo arrivare a tanto.

Il coronavirus per nostra incapacità, o per fortuna, ha fatto venie molti nodi al pettine e se siano così stupidi da non cambiare registro pensando che tutto sia dovuto finiremo molto male. Se invece cogliamo l’occasione per cambiare potremo contribuire e mostrare un’Italia che ci sorprenderà.

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Massimiliano Kornmuller, Strade di campagna, acquaforte

43. Vincenzo Ruggero
Una brutta storia

(dramma in un atto, una scena, trenta battute)

Ambiente borghese, eleganza ‘800 inglese, una villetta residenziale a nord-est di Roma. Un uomo è in ascolto mattutino del canale TV Rai News 24, durante la colazione. D’improvviso si avverte uno stacco sulla “rassegna stampa” in corso:

“ Ci scusiamo con i telespettatori. Riceviamo in questo momento un’agenzia urgente: oggi 11 settembre 2020, il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha dichiarato interrotta ogni relazione diplomatica con la Cina, a seguito della grave crisi sulle presunte responsabilità nella pandemia Coronavirus. Nel contempo ha messo in pre-allarme le Forze Armate Strategiche…etc, etc ”

L’uomo salta sulla sedia, e urla, mani nei capelli.

lui Scendi! Scendi!

Una voce femminile dalla mansarda, all’inizio pigra, poi allarmata.

lei Si…!? Si, vengo… cos’è? cosa è successo…?

lui Corri! Ascolta!…Guarda!

Di corsa dalla scala a chiocciola, quasi inciampando, lei scende. I due si guardano subito attoniti davanti al televisore.

lui Trump sta per dichiarare guerra alla Cina…

lei Oddio! Che sta avvenendo!? Ma è matto? Ah, già… lo è,

davvero.

lui …ma non bastava essere uscito dall’OMS e averla
bollata per “serva e complice della Cina”. Dice che loro hanno nascosto al mondo il momento della scoperta del virus, così provocando un’ecatombe mondiale e la povertà dei popoli economicamente avanzati.

lei Vabbè! Dica quello che vuole, ma qui, a parte i problemi di
questa seconda quarantena, che ci tocca sentire? Che
rischiamo una nuova guerra…? Atomica per giunta.

lui Non correre con la fantasia. C’è ben altro che
arriverebbe prima.

lei Che intendi dire?

lui Ma ragiona. La globalizzazione, si voglia o non si
voglia, è ai minimi termini; i commerci internazionali
languono, e ricordati che noi campiamo di esportazione;
il turismo è fermo con gli aerei che arrugginiscono in
pista, insieme al fallimento di molte Compagnie;
povertà e migrazioni di massa contagiano il mondo,
peggio del virus. Ci vuole altro? O ci mancava una
guerra Cina-USA?

lei E’ terribile, con la crisi economica in atto. Qui da noi, in
Italia, siamo sull’orlo del fallimento sociale: disoccupati
in piazza, tutti siamo indebitati, lo Stato che ormai
minaccia in modo chiaro la riduzione del 40% di
pensioni e stipendi pubblici, l’inflazione che galoppa e
le cose che non si trovano…

lui Che allegria…da ex-piccoli benestanti stiamo passando
alla miseria, ancora non proprio per la verità, ma la strada è quella.

lei Oddio! E poi noi che facciamo? Entrambi pensionati, e
praticamente quasi senza più un soldo da parte…

lui Torneremo tutti a fare i contadini…sotto ce l’abbiamo
100 metri quadri a orto. Imparerò. Anzi: impareremo.

lei Ma che dici? Se l’oggetto più pesante che hai avuto in
mano nella tua vita è stato il mazzo delle chiavi…Sei
comico, alla nostra età. Eppoi non mi va proprio di
ridere in questi momenti. La cosa si fa seria.A proposito

lui Cosa?

lei Ma di vaccino e terapie, non ci sono novità?

lui E’ un altro casino. Le grandi multinazionali, in una vera
guerra commerciale e strategica, tendono al successo e
al brevetto del primo che arriva. Nessuna legge morale
di solidarietà e cooperazione per arrivare presto ad una
soluzione, per il bene di tutti. Tutto per questi maledetti
soldi, solo interesse e speculazione…sulla nostra pelle.

lei Però, sei proprio un ingenuo: pensavi che le leggi della
giungla, precedenti alla pandemia, si sarebbero poi
trasformate in un breviario dei laici? Dài, per favore!

lui Hai ragione. Ma tutto quello che ci sta accadendo – a
noi figli del benessere del ‘900 – sembra davvero una
brutta storia. Vorrei fosse un film, invece è realtà. Sono
angosciato.

lei Ti capisco. Bastano gli aggiornamenti del bollettino di
guerra: la FCA (ex Fiat) ha chiuso 2 stabilimenti in
Italia; l’Alitalia, in fallimento di fatto, non la vuole
acquistare nessuno; migliaia di alberghi e ristoranti
hanno chiuso dopo la stagione estiva appena passata;
mi fermo…

lui Grazie. Tanto basta dire che siamo, solo per ora, alla
prospettiva del PIL al -15%. Cosa serve altro? Parlare di
strozzini che sono i soli a far girare soldi veri o gli
affamati che assaltano i supermercati e le farmacie? B
asta! Sono stanco. Chiudi quel televisore e vaffa.. a
Trump.

lei Non essere volgare! Non è da te.

lui Forse. Ma non ne posso proprio più. La gente muore
ancora per il virus e muore pure di fame. Eravamo
cattivi e lo siamo diventati di più; e quello str… di
Trump vuole pure la guerra. Ma ci rendiamo conto?

lei E dàgli! Ancora parolacce…A proposito, come va
Conte? (bell’uomo, eh!). Il governo tiene?

lui Tu…la solita fan di Conte. Lo vuoi capire che lui è un
politico, no un divo. Mah! Comunque il suo secondo
governo, dopo la crisi innescata dal partitino del
toscanaccio, fa quello che può: non è facile gestire
questa seconda quarantena nazionale. Eppure quasi tutti
gli dànno addosso.

lei Ma si sa: “piove! governo ladro!” quando non si sa a
chi attribuire i guasti a qualcuno di preciso; tuttavia
non è che il governo, il Conte primo intendo, non abbia
sbagliato ad aprire troppo presto, a maggio, passato il
primo vero lockdown…

lui Hai perfettamente ragione, ma tant’è. Rieccoci chiusi in
casa come carcerati.

lei Ma si! Forse un po’ ce lo meritiamo. I vari dottori e
scienziati della pandemia, del resto, lo avevano previsto.
A proposito, stamattina, com’era il caffè che ho fatto io?

lui Va bene…ogni tanto ne azzecchi qualcuna… L’uomo
sta terminando la colazione, apparentemente più tranquillo, mentre nel televisore una voce continua la trasmissione:

“ Ci scusiamo con i telespettatori. Riceviamo in questo momento un’agenzia urgente: oggi 11 settembre 2020 il Presidente della repubblica popolare cinese ha interrotto tutte le relazioni diplomatiche con gli stati uniti, convocando con urgenza il plenum del partito comunista e i massimi vertici militari…etc, etc ”

L’uomo perde le staffe, urla una parolaccia e tira il tovagliolo al televisore.

casa mia, oggi 1 giugno 2020

 

44. Domenico Mazzullo
AL TEMPO DEL CORONAVIRUS – 11
Ingenuità al Tempo del Coronavirus

E’ un fenomeno molto frequente e anche psicologicamente comprensibile, quello che si verifica negli esseri umani in momenti di grande difficoltà esistenziale, o materiale, fenomeno che consiste nell’affidarsi, nel confidare in strumenti terapeutici, o risolutivi in genere, non provenienti dalla Scienza ufficiale, ma da discipline, o meglio pseudodiscipline a latere, che purtroppo nulla hanno di scientifico, ma vengono, derivano, provengono da intuizioni, o teorie pseudoscientifiche che si basano su una tendenza fideistica da parte di chi vi si affida, e di fiducia acritica ed illimitata in chi tali dottrine professa e pratica.
Il discriminante, secondo il mio modesto parere, tra chi opera in ambito scientifico, tra chi fa Scienza e chi invece si affida a teorie e credenze che di scientifico non hanno nulla, o quasi, è rappresentato proprio dall’atteggiamento scettico e dubitativo dello scienziato e invece e al contrario di fiducia cieca e non comprovata dalla esperienza, se non personale di chi scienza non fa e non pratica, ma piuttosto atti di fede.
Questo fenomeno c’è sempre stato e forse sempre ci sarà, come caratteristica psicologica dell’essere umano che si affida più volentieri a chi fornisce certezze assolute, anche se assolutamente non comprovate, piuttosto che confidare in chi invece, muovendosi nell’ambito della Scienza, procede lentamente, progressivamente, con circospezione, verificando ogni affermazione, sottoponendola al vaglio severo di dubbi, indispensabili, e alla certezza di prove comprovate e inattaccabili.
Psicologicamente questo fenomeno, che a prima vista potrebbe apparire assurdo e incomprensibile, diviene invece immediatamente comprensibile e spiegabile se pensiamo che in momenti di difficoltà, di incertezza, di paura, in momenti in cui tutte le certezze faticosamente costruite, sembrano vacillare, o crollare miseramente, si sente imperioso il bisogno di credere in qualcuno di avere fede in lui, di affidarsi a qualcuno che pensa per noi e si assume tutte le responsabilità che noi non vogliamo più assumerci, e che ci fornisce la confortante certezza di sapere con chiarezza la direzione verso cui muovere e dirigere i nostri passi.
Questo fenomeno altamente pericoloso a mio parere, si basa sulla concomitanza di due fattori coesistenti e che si sommano potenziandosi a vicenda, ossia il bisogno disperato di affidarsi, da parte di chi è in difficoltà a qualcuno che prospetta la sicurezza di una soluzione, e la professione di certezza da parte di chi questa sicurezza promette, senza averne i mezzi.
Nel primo si esplica il bisogno e il prevalere della dimensione emotiva su quella razionale, nel secondo la consapevolezza di questo fenomeno e l’utilizzo di esso, se si è in malafede.
Mi permetto di affermare questo perché in un momento così difficile e destabilizzante come quello che stiamo attraversando e plausibilmente è ben lungi dall’essere superato, caratterizzato inoltre da una aggressione da parte di una entità non visibile, non percepibile eppure minacciosamente presente e quindi ancor più terrorizzante, in un momento in cui le certezze scientifiche cui affidarsi scarseggiano e prevalgono le varie ipotesi, piuttosto che sicurezze comprovate, si assiste all’inevitabile proliferare di teorie, o pseudo tali che dovrebbero aiutarci a superare il disagio che stiamo vivendo e subendo, lo stress legato al repentino cambiamento degli stili di vita, la necessità di adattarci rapidamente a nuove modalità di esistenza.
Tali teorie o ripeto pseudo tali, possono risultare innocue, se vengono vissute come un gioco, o un passatempo da parte di chi una vera condizione patologica non l’ha e ha solo bisogno di rassicurazione e di fare qualcosa di confortante che lo rassicuri e lo gratifichi, ma al contrario divengono estremamente pericolose, quando invece, un vero disagio è presente e serio, sia perché non sono assolutamente in grado di risolverlo, sia perché, e ciò è ancora più grave, distolgono la persona sofferente dai veri strumenti terapeutici che invece sono utili e indispensabili alla guarigione, o almeno al miglioramento della condizione patologica.
Siccome vedo che con molta facilità vengono indicati, consigliati, raccomandati sicuri metodi per contrastare lo stress da quarantena, da auto reclusione in casa, da sindrome di intolleranza verso i propri familiari, mi preoccupo seriamente che questi pseudo metodi terapeutici, siano inutili, o più pericolosi, per i motivi illustrati prima, dello stesso male che pretendono di curare.Inizio moduloFine modulo
Roma, 23 maggio 2020

Responsabilità al Tempo del Coronavirus
Responsabilità, un termine che mi ha sempre affascinato, da quando ero bambino e di cui ho compreso molto presto il significato, quando bambino venivo lasciato da mio padre, impegnato in altre occupazioni al cinema e spesso, con mia soddisfazione vedevo lo stesso film due o tre volte di seguito fino a che non venivo recuperato e i concetti in esso film rappresentati si inculcavano bene nella mia mente infantile, ansiosa di capire.

Per fortuna i film di quel tempo erano diversi da quelli di oggi e, che fossero sulla Seconda Guerra Mondiale, da poco trascorsa e ancora molto fresca nella memoria, o Western americani, gli italiani erano ancora lontani, i concetti in essi contenuti erano molto chiari e facilmente cogliibili, anche da parte di una mente infantile e ingenua, nonché poco dotata come la mia, ma la ripetizione di essi aiutava la comprensione.

Essi erano semplici e diretti: I Tedeschi o i Giapponesi erano cattivi, gli Americani buoni. Gli Indiani cattivi, i Bianchi buoni oppure, cambiando epoca e continente, i Moschettieri del Re buoni, Le Guardie del Cardinale cattive.

Ma quei film parlavano, a me ingenuo, anche di onore, di senso del dovere, di rispetto, di fedeltà, di coraggio, di solidarietà, di responsabilità, concetti difficili da spiegare a parole, ma chiarissimi negli esempi didascalici che offrivano, basti pensare a “Un dollaro d’onore”, “Ombre rosse”, “Mezzogiorno di fuoco” Ivanhoe, “I Cavalieri della Tavola Rotonda .

Gli stessi concetti che ritrovavo a scuola, quando il Maestro ci leggeva in classe il “Libro Cuore” di De Amicis o “I Ragazzi della via Pal” di Molnar, o “Le mie prigioni” di Silvio Pellico, o ci raccontava di Ciro Menotti, di Cesare Battisti, di Enrico Toti.
Concetti chiari, semplici, elementari, come eravamo noi bambini, ma che rimanevano stampati nella nostra mente, nel nostro cuore, nel nostro immaginario e ai quali ci ispiravamo anche nei nostri giochi infantili.
Quando siamo diventati più adulti e più critici, siamo diventati anche capaci di fare dei distinguo, di non dividere più tutto in bianco e nero, ma quei concetti sono rimasti ben saldi entro di noi e hanno rappresentato e rappresentano delle “bussole interiori” che ci permettono di orientarci nella vita e di informare, illuminare il nostro comportamento.

Certamente non mi illudo che siamo tutti così buoni e così bravi, così ossequienti nei confronti di quei principi, ma almeno è rimasto entro di noi, quel sottile malessere, persistente, inquietante che ci tormenta quando, per debolezza, ci allontaniamo da quei principi.
Uno di essi è a me particolarmente caro e non saprei vivere senza di esso.
E’ una parola semplice, quasi umile nella Sua semplicità, eppure tanto importante soprattutto in questo momento, in momenti di crisi, di emergenza, di allarme: Responsabilità.
“Responsabilità”, recita il dizionario: “Consapevolezza delle proprie azioni e delle conseguenze che ne derivano”.
Definizione semplice, elementare, perfettamente comprensibile da tutti, immediata, vorrei dire, eppure così gravosa, così impegnativa, così pesante, così ardua, così difficile, tanto da essere spesso rifiutata, negata, misconosciuta ignorata, calpestata.

Non sono niente e nessuno per affermarlo, eppure sono convinto che senza Responsabilità, non possiamo autodefinirci Umani.
In questi momenti, in questi giorni, ieri sabato, di Responsabilità, purtroppo, ne abbiamo vista molto poca, nel nostro Paese, negli altri non so, e soprattutto, ahimè, da parte di quella fascia della popolazione che maggiormente ne avrebbe dovuta mostrare, perché proprio quella fascia di popolazione rappresenta il nostro futuro, il nostro avvenire, il nostro “dopo di noi”, che siamo diventati grandi.
Le immagini di ragazzi, di giovani e anche meno giovani, con barba e baffi, con il bicchiere di vino in mano, o la bottiglia di birra, ma senza la fatidica mascherina, che, a contatto gli uni con gli altri, o a distanza ravvicinata, si ammucchiavano, si ammassavano, si abbracciavano tra loro, in tutte le città di Italia, al Nord e al Sud, nei luoghi della cosiddetta “Movida” incuranti delle norme di precauzione che ormai tutti conosciamo a memoria e che dovrebbero proteggere noi e gli altri dal diffondersi della epidemia, mi hanno fatto inorridire e gettato nella più profonda desolazione e sconforto.
E’ mai possibile, mi chiedo con animo dubitativo, che non ci si renda conto che non è stato un gioco, che non è un gioco, che ancora non è finito, che ci sono stati migliaia di morti e ancora ce ne saranno, che ancora sono fisse nei nostri occhi le immagini drammatiche dei camion militari verdi che portano via le bare, delle fosse comuni negli Stati Uniti, dei medici e degli infermieri con gli scafandri protettivi nelle sale di rianimazione degli ospedali al capezzale dei pazienti?
Tutto ciò non li riguarda? Non è affar loro? Non si rendono conto che così facendo mettono a rischio la vita loro e degli altri? Non provano un senso, seppur minimo di responsabilità?
E’ tremendamente inquietante l’immagine delle Forze dell’Ordine che presidiano i luoghi della “Movida”.
Roma, 24 maggio 2020

La Movida al Tempo del Coronavirus
Ritorno su un argomento già trattato, perché sonno letteralmente sconcertato.
Le pagine dei giornali e i notiziari radiofonici e televisivi, non fanno altro che comunicare le preoccupazioni del Governo e dei Sanitari a proposito della cosiddetta “Movida” del fine settimana in tutte le città d’Italia.
Questo temine del meraviglioso idioma spagnolo, ma divenuto ormai universale, sta ad indicare, almeno nel linguaggio comune ora vigente, la abitudine dei giovani e anche dei meno giovani a raccogliersi, a radunarsi in luoghi determinati delle città, divenuti punto di aggregazione giovanile e qui trascorrere la sera e la notte, spesso, con un bicchiere in mano, empito di alcolici e non certo di succo di frutta, o con una classica bottiglia di birra, a dialogare, a stare assieme, a fare gruppo, a passeggiare su e giù, a sedere in terra.
Anche se non ho mai trovato piacevole fare questo, neppure in tempi lontani, l’educazione alla libertà mi impone di rispettare qualunque comportamento degli altri…fino a che…fino a che esso non disturba, o peggio ancora non limita la altrui libertà.
Ma la situazione diviene ancora più grave e inquietante quando certi nostri “liberi “comportamenti, mettono in pericolo la salute degli Altri che a quella propria salute legittimamente tengono e sono affezionati.
Ora il problema divenuto di scottante attualità e che preoccupa le Autorità governative e sanitarie del nostro Paese, non è più tanto l’epidemia, improvvisamente diffusasi in tutto il mondo, il sovraffollamento degli ospedali e soprattutto delle Rianimazioni di questi, in crisi perché costrette ad affrontare una pletora di malati in condizioni disperate.
Non si parla più di difficilissime scelte etiche su pazienti da curare e pazienti da abbandonare senza cure per mancanza di posti, o strutture di accoglienza, non più di medici e infermieri stranieri giunti in aiuto da Paesi esteri per soccorrerci, non più di pazienti italiani trasferiti e curati all’estero perché qui in Italia non c’era più posto in ospedale.
Anche il problema delle mascherine protettive, prima introvabili, sembra risolto e sono divenute facilmente reperibili anche a prezzo imposto.
Addirittura la Moda si è appropriata di questo oggetto sanitario, confezionando mascherine firmate, con tessuti leopardati, tigrati o addirittura in sintonia cromatica con i costumi da bagno da indossare prossimamente in spiaggia anche se a rispettosa distanza.
Non più ambulanze che percorrono a sirene spiegate le vie delle città, soprattutto del Nord a recuperare in casa malati in piena crisi respiratoria, per trasportarli in ospedale dal quale forse non torneranno più a casa,
Non più pazienti delle Case di riposo, divenute Case del riposo eterno, andati via senza il conforto di un ultimo saluto dei familiari, non più colonne lugubri, di verdi camion militari, che nottetempo trasportano le bare evocando le immagini delle carrette dei Monatti di manzoniana memoria, non più medici o infermieri che perdono la vita, compiendo il proprio dovere a favore degli Altri.
Ora il problema fondamentale di questa Fase II, della riapertura progressiva, del ritorno alla “normalità” è rappresentato, paradossalmente, dalla “Movida” dei giovani, che ansiosi di scrollarsi di dosso il peso insopportabile di due mesi di clausura, dettata non da sadici provvedimenti di carcerieri crudeli, ma dalla necessità di salvaguardare tutti da questa pandemia, si riversano in strada e nelle piazze per festeggiare la riacquisita libertà, come si festeggiava la fine della scuola, per festeggiare qualcosa che non è ancora finito, che ancora incombe su di noi, minaccioso e pronto a ripresentarsi con tutta la sua virulenza, non appena abbassiamo la guardia, non appena commettiamo un passo falso, e ne stiamo già commettendo molti.
Sembra che questi giovani festosi, siano stati dormienti durante le fasi più dure della pandemia, che non l’abbiano conosciuta, non ne abbiano avuto coscienza, non abbiano ascoltato i bollettini quotidiani dei numeri dei morti, dei contagiati, dei ricoverati in terapia intensiva. Ma dove erano quando non si parlava altro che di Coronavirus? Quando sui Telegiornali non scorrevano altro che le immagini delle bare, delle ambulanze, delle Rianimazioni degli ospedali?
Ora, la notizia è di oggi, il Governo, sempre attraverso le solite diatribe interne, si ripromette di arruolare un gran numero di volontari come “assistenti civici” per controllare la “Movida”. E’ una iniziativa che sarebbe comica, se non fosse tragica.
Perché allora non arruolare animatori delle feste per bambini, per rendere la “Movida” più movimentata e divertente?
Roma, 26 maggio 2020

Voglia di dimenticare al Tempo del CoronavirusLa mia pagina del Diario di ieri, a proposito della” Movida” dei giovani, ha suscitato, accanto a commenti favorevoli, alcune critiche, come è più che giusto e per me personalmente gratificante, perché queste mi obbligano ad una ulteriore riflessione sull’argomento e un approfondimento di esso, per modificare la mia opinione, sulla scia delle critiche, come spesso accade, o comunque migliorarla e perfezionarla.
Da questo scaturisce la nuova, odierna pagina del Diario, che prende le mosse dai pareri ricevuti.
Premetto, che il desiderio dei giovani, di mettere alle spalle i due mesi di segregazione, di isolamento sociale, di chiusura in casa, di impossibilità di quei rapporti umani, che soprattutto alla loro età, sono indispensabili e più che necessari, direi vitali per il loro sviluppo psicologico e morale.
Sono stato giovane anche io, in tempi lontani, anche se in modo un po’ particolare, essendo figlio unico e quindi relativamente più abituato alla solitudine.
Ricordo bene il bisogno, quasi fisico, oltre che morale, di socialità, di scambio, di vicinanza con i coetanei, di confronto, a volte anche di scontro, da cui scaturiva, comunque una crescita e una maturazione.
Anche se ora sono inevitabilmente divenuto anziano, non ho perso, fortunatamente, il contatto con i giovani, per motivi professionali, che poi spesso diventano amicali, come psichiatra, sia nel mio studio, per problemi individuali che possono riguardarli, sia nelle scuole, o in altre circostanze pubbliche, ove il rapporto è collettivo.
Considero questo contatto estremamente arricchente e proficuo per me, non so per Loro, ma lo spero, almeno un poco, perché mi permette di ampliare la mia visuale, il mio orizzonte su territori giovanili, abbandonati da tempo e che in questo tempo si sono modificati rispetto a quelli che io conoscevo, seppure, e devo affermarlo con una certa convinzione, al di là di alcune differenze superficiali, che appaiono importanti, mentre sono solo formali, la mente umana, e quindi anche quella dei giovani è rimasta sempre la stessa.
Tutto questo preambolo per dire, che pur comprendendo perfettamente la voglia, il desiderio di questi giovani, di gettare dietro le spalle, di dimenticare i due mesi di segregazione che hanno subito, certamente con maggiore sofferenza di noi adulti, o anziani, che abbiamo maturato con gli anni maggiori strumenti di sopportazione, spetta purtroppo proprio a noi adulti o anziani il duro, ingrato compito di non dimenticare quanto è recentemente, o meno è accaduto, per cercare di evitare, ma non è mai successo fino ad ora, che si ripeta di nuovo.
La Natura, nella Sua grande lungimiranza, ha affidato a noi Umani compiti diversi per età: ai giovani il compito di guardare avanti per progredire nel futuro, a noi anziani, il compito di guardare invece indietro, al passato, per cercare di non commettere di nuovo gli errori che abbiamo già commesso.
Purtroppo la Storia ci insegna, che i risultati di questa suddivisione di compiti, non sono brillanti, ma non per colpa dei principi di essa, giustissimi, ma delle applicazioni da parte nostra.
Incuranti però degli insuccessi, continuiamo a compiere il nostro dovere, i giovani mossi dalla voglia di dimenticare, per poter con maggiore libertà guardare avanti, noi anziani mossi invece dal desiderio spasmodico di non dimenticare, per non tornare ancora sui nostri stessi passi, per non ripercorrere sentieri già tristemente conosciuti e calpestati.
Per cui in questi tempi occupati dal Coronavirus, ai giovani il compito di dimenticare i difficili tempi trascorsi in segregazione, anche con il discutibile strumento della “movida” e a noi anziani il compito di tener ben presenti i morti, gli ammalati, le terapie intensive, le fosse comuni, i camion militari con le bare, le Case di riposo, i medici e gli infermieri morti sul campo.
Per chiudere un pensiero che mi colpisce adesso con violenza:
Strana ironia della sorte, che tocchi proprio a noi anziani, ossessionati dalla paura, dal terrore di dimenticare, come segno inequivocabile della malattia che temiamo di più, quell’ Alzheimer che ci regala l’oblio, che proprio a noi anziani spetti il compito di non dimenticare, di ricordare, di trasmettere la memoria del passato.
Ci sarà pure una logica in tutto questo?
Grazie per aver avuto la bontà di leggermi fin qui.
Roma, 27 maggio 2020

Suicidio al Tempo del Coronavirus II
Avevo cancellato questa pagina perché così mi era stato chiesto, ma poi alcuni di Voi mi hanno chiesto di pubblicarla di nuovo per i suoi contenuti.
Lo faccio volentieri, avendo apportato le opportune modifiche.
Questa pagina del nostro Diario è certamente la pagina più triste che abbia scritto fino ad ora, per logici e comprensibili motivi professionali e per dolorosi motivi personali.
Vi sono molte cause che inducono una Persona a togliersi volontariamente la vita e non tutte patologiche, ma come psichiatra quella che mi vede più facilmente presente, coinvolto, impegnato, è una causa patologica, legata ad una malattia purtroppo non rara, ma invece e al contrario, sempre più diffusa e presente tra noi: La Depressione.
Quella Depressione che, sempre presente nella storia dell’essere umano, è divenuta negli ultimi tempi, sempre più drammaticamente presente e predominante, tanto da condizionarne quasi l’esistenza e che a volte ha come conseguenza tragica, la volontà da parte di chi ne è affetto di por fine alla propria vita divenuta troppo pesante, troppo dolorosa, insopportabile. In questi tempi oscuri che stiamo attraversando, l’epidemia da Coronavirus, con tutte le conseguenze che ha comportato, ha reso tutti più fragili e più dolorosamente sensibili e vulnerabili e alcune Persone non hanno trovato entro di sé la forza… di continuare a vivere, di andare avanti, di continuare a soffrire per quella maledetta depressione che Le affligge e Le tormenta.
Spesso purtroppo si pensa a quelle Persone, come Persone deboli, dotate di scarsa volontà combattiva, che si arrendono facilmente, che non vogliono o non sanno farsi forza, che non reagiscono, come spesso vengono esortate a fare, inutilmente e oserei dire crudelmente, da parte, sempre in buona fede, di chi non capisce, non intende il dramma interno che si vive.
Sinceramente penso che quelle Persone, abbiano invece esaurito la forza, abbiano consumato tutte le loro energie in questa lotta impari, che ci vede combattere contro una malattia cattiva, subdola, perversa, che si insinua entro di noi, a volte lentamente e progressivamente, a volte invece irrompe di colpo e improvvisamente, interrompendo, sempre, la nostra abituale condizione di vita, e ci precipita in un inferno di sofferenza, che solo chi l’ha provata, almeno una volta, può intendere e capire, tanto che la morte può apparire come l’unica soluzione possibile, l’unica ipotesi accettabile per uscire, per porre fine a queste sofferenze.
Anche tante altre malattie provocano sofferenze, a volte atroci, ma sono sofferenze nel fisico, nel corpo, mentre quelle della depressione sono sofferenze dell’animo e come tali più subdole, più cattive, più insopportabili, non per una nostra specifica debolezza, anzi al contrario, la sopportazione di queste richiede una forza enorme, morale e materiale, ma perché a volte l’umana forza è insufficiente ad opporsi, a combattere, e allora decidiamo di abbandonare il campo di battaglia, di arrenderci, di scomparire, per veder scomparire, assieme alla nostra vita, le sofferenze ad essa legate.
E allora, l’unica strada percorribile, per interrompere questo strazio esistenziale, è rappresentata da quella che tante Persone hanno deciso di percorrere, rinunciando al bene della vita, quando essa aveva cessato di essere un bene, ma si era trasformata in un inaudito tormento.
Solo in questo modo si spiega, si comprende la scelta di chi si oppone, di chi annulla, di chi lotta contro la forza istintuale più profonda e radicata entro di noi, l’istinto di sopravvivenza, che supera in intensità tutti gli altri fenomeni istintuali.
Solo le sofferenze indicibili, provocate dalla depressione e l’inganno che ad esse si accompagna, ossia che queste sofferenze saranno per sempre, per tutta la vita, può dare ragione di un gesto così estremo e definitivo, senza speranza, disperato.
Bisogna aver provato, almeno una sola volta, questo stato d’animo, questa disperazione entro di noi per comprendere ove si trovi, ove si raccolga quel coraggio estremo, che solo ci permette di “levar la mano su noi stessi”, come ha scritto il filosofo francese Amery, in un Suo libro meraviglioso.
Si pensa erroneamente, a mio parere, che chi sceglie di percorrere quella strada lo faccia perché è mancato il coraggio. Nulla di più sbagliato, secondo me. Chi sceglie, consapevolmente, di incamminarsi per quella strada, dimostra un coraggio enorme, coraggio che però non è stato sufficiente per continuare a vivere in compagnia di tali sofferenze indicibili, e allora quando la forza viene meno…
Io stesso ho vissuto, in prima persona questa vicenda, sono stato testimone di tutto questo, quando mia moglie Ana . trentacinque anni fa, affetta da una malattia psichica piuttosto frequente, il disturbo bipolare, in una improvvisa ed imprevedibile fase depressiva, si è tolta la vita.
Per questo, e non solo come psichiatra, sono, meglio detto cerco di essere, vicino a chi soffre così drammaticamente, di depressione.
Roma, 29 maggio 2020

45. Fabrizio Labarile
ASSEMBRAMENTO -La rogna del Coronavirus-

Dopo 70 giorni d’isolamento, finalmente tutti noi possiamo acquisire un minimo di libertà,sia pure con la mascherina e in posti poco frequentati. Come spesso accade, dopo un lungo digiuno, mangiare troppo può causare un’indigestione con sofferenze intestinali. Nel tardo pomeriggio del primo sabato “Libero”, si sono riversati nella piazza Garibaldi di una cittadina pugliese un gruppo consistente di giovani, decisi a festeggiare la sospirata liberazione. Giorgio, Un giovane studente che attraversava quella piazza per recarsi in farmacia ad acquisire un medicinale per il proprio papà, è stato la vittima delle normative restrittive. Egli, come tanti altri giovani , è stato fermato dalle forze dell’ordine per un controllo. Dopo aver esibito i documenti, i vigili lo hanno multato per assembramento; lui, nonostante avesse dichiarato che si trovava lì per puro caso, è stato comunque sanzionato. Quando è tornato a casa e ha raccontato l’accaduto ai suoi genitori ; il padre,Enrico, dapprima si è infuriato contro queste norme restrittive, ma poi ha riflettuto sul da farsi. Siccome a causa di un dolore fastidioso di gola aveva chiamato il medico di famiglia, che gentilmente era venuto a casa a visitarlo e gli aveva prescritto il farmaco in questione, lo ha telefonato . Dapprima gli ha spiegato la disavventura capitata al figlio, e poi lo ha pregato se ,in caso di necessità, potesse confermare l’orario della visita,per dimostrare alle autorità che il ragazzo,nel momento della contravvenzione, stava attraversando quella piazza per necessità. Il dottore prontamente ha asserito: Non ti preoccupare,considerato che io registro tutte le visite ,non mi sarà difficile dimostrare la veridicità di Giorgio.” L’indomani mattina Enrico , sia pure un tantino febbricitante, si reca al Comando dei vigili per sbrigare quella incresciosa faccenda. Non appena varca l’uscio , il Comandante Nicola, che é un suo buon conoscente,si fa incontro, prima lo saluta con gentilezza e poi gli chiede:” Amico mio cosa ti è successo ? Ti vedo pallido , non stai bene ?” Giorgio , alquanto sorpreso da quella accoglienza, con una punta di sarcasmo risponde:” Se non fosse per il troppo zelo dei tuoi vigili, sicuramente starei benissimo”Il Comandante piuttosto incuriosito replica:” Cosa ti hanno combinato i miei uomini ? Su racconta! “ L’interlocutore espone con dettagli l’inconveniente che è costato al figlio una multa piuttosto salata. Ti posso assicurare che se non fosse stato necessario di recarsi in farmacia, il mio ragazzo non si sarebbe trovato nella piazza. Il Capo dei vigili ,che ha capito e condiviso lo stato d’animo di Giorgio ,lo rassicura:” Non ti preoccupare. Indagherò e ti farò sapere; e , se è come tu affermi l’ammenda è ingiustificata, l’abolirò.” Questa risposta , abbastanza evasiva, non soddisfa Giorgio e nell’accommiatarsi osserva: “ Nicola, per cortesia , fammi sapere con sollecitudine. Anche perché se non dovessi avere una risposta affermativa, sarò costretto a compiere i passi necessari per avere giustizia.” E, mentre torna a casa, pensa: d’accordo le precauzioni per evitare un ritorno del Coronavirus, ma non è necessario usare tanta severità. In fondo , è capibile che i ragazzi, dopo tanti giorni di clausura, hanno bisogno di ritrovarsi , parlare, confidarsi che poi, è lo svagarsi attuale. Non vorrei che alcuni ragazzi, tra i sanzionati, appartenessero a famiglie che sono già in difficoltà per non aver potuto lavorare e guadagnare lo stretto necessario. In questo caso oltre al danno hanno subito la beffa. Certo che questo maledetto Coronavirus non si stanca mai di mettere in difficoltà le persone.

Mercoledì 27 Maggio 2010

CLAMOROSA BEFFA – un altro danno dal Coronavirus –

Non appena Cesare ha appreso, tramite i media che il Governo aveva diramato con un altro Decreto Ministeriale, la possibilità per le attività autonome di accedere ad un prestito agevolato di 25 mila euro, se ne è rallegrato. Ha pensato che la ripartenza per il suo negozio di scarpe, sia pure difficile, grazie a questa provvidenza, che comunque è da restituire, sia pure a partire dall’anno prossimo e a rate, gli avrebbe permesso di riacquistare la medesima posizione persa a causa del Coronavirus. Già immaginava entro la fine dell’anno in corso di poter superare la crisi e , magari, realizzare un piccolo profitto che, oltre a mantenere la propria famiglia, sarebbe servito per allargare il suo giro d’affari. Purtroppo, Cesare aveva fatto il conto senza l’oste. Quando la settimana dopo il decreto si è recato dal suo Commercialista, per chiedere dettagli circa quel provvedimento ed eventualmente avviare la relativa richiesta alla banca , ha avuto un’amara sorpresa. Il professionista gli ha spiegato che non era possibile accedere a quel prestito perché non aveva i requisiti idonei. Cesare, più deluso che arrabbiato,ha imprecato:” Ma come , sono stato chiuso tre mesi ed ora che, sia pure indebitandomi ,posso riavviare il mio negozio e tentare di riacquistare i clienti, non ho diritto a quel prestito. Scusami , ma non riesco proprio a capire !” Il Commercialista, che sicuramente il medesimo discorso l’aveva ripetuto a iosa in quei giorni, prese il fascicolo del cliente e gli spiegò la situazione:” Dal punto di vista contabile, e in base agli incassi dichiarati nei mesi dell’anno scorso, corrispondente al periodo attuale del Coronavirus , ti spetterebbe il prestito agevolato. Ma, considerato le tue diverse proprietà che, come ben sai fanno reddito,non puoi averlo.” Alquanto basito, Cesare ,replica:” Di quale proprietà stai parlando ! A parte il negozio e la casa di abitazione, non possiedo altri beni.” Il professionista, armatosi di santa pazienza gli elenca le proprietà:” Oltre ai beni da te citati,possiedi un’ abitazione di 80 metri al centro con relativa cantina; un terreno alberato di n. 1 ettaro con annesso capannone nella zona edificabile ; e un locale a piano terreno, sempre al centro, dato in fitto al circolo degli artigiani.” Improvvisamente iniziano a scorrere davanti agli occhi di Cesare, come un vecchio film, le immagini di quelle proprietà che ,purtroppo per lui, sono più un costo che un profitto. L’appartamento é abbandonato ,poiché non aveva avuto la possibilità di metterlo a nuovo per fittarlo. Il terreno è stato affidato ad un agricoltore in accomodato d’uso; ed escluso 50 litri di olio all’anno , non riceve altra rendita. Il capannone ,costruito nell’ultimo decennio del secolo scorso e adibito inizialmente all’allevamento dei conigli,ora é abbandonato. Soltanto il locale fittato al centro gli rende Euro 200 al mese netto. Su tutte queste proprietà paga circa 2.800 euro all’anno per l’IMU e altri balzelli. Rivolto al Commercialista , Cesare molto contrariato da quell’incontro , afferma:” Non pensavo che possedere delle proprietà che non rendono nulla , anzi su cui pago le tasse, mi vietano di accedere al prestito agevolato.” Deluso e rassegnato lascia lo studio del commercialista e, come un cane bastonato si avvia verso il suo negozio. Un pensiero maligno gli arrovella il cervello:” mai avrei pensato di arrivare così in basso.” Ma subito il suo orgoglio lo chiama al dovere e gli sussurra: Cesare, non devi rassegnarti , poiché la rassegnazione è il coraggio dei vili , e ,tu essendo una persona combattiva e coraggiosa, vincerai.


Venerdì 29 Maggio 2020

COMBATTERE IL CAPORALATO – Nota positiva del Coronavirus –

Una delle buone normative che il Governo ha emanato per fare ripartire la nostra economia , dopo il periodo del Coronavirus, è stata quella a favore dei lavoratori agricoli; o più comunemente conosciuta come provvedimento contro il caporalato. Per estirpare questo secolare metodo di reclutamento che ha mietuto tante vittime e affamato molte famiglie, dopo la legge regionale pugliese del 2005 e quella nazionale del 2016, che non hanno risolto l’increscioso problema; l’attuale Governo ha indicato i salari e le condizioni di lavoro per gli addetti all’agricoltura. La speranza è che finalmente il caporalato, questo odioso termine che si perde nella notte dei tempi e che, purtroppo , è radicato anche sotto altre forme in molte branche delle nostre produzioni, possa essere sconfitto. Questa piaga che offende la dignità dei lavoratori , ma anche delle persone civili, ha cause molto profonde e non di facili soluzioni. E’utile precisare che non tutti i datori di lavoro sono degli avidi, ossia non vogliono pagare di più: semplicemente perché non ne hanno la possibilità. In una economia libera è la richiesta del mercato e chi lo comanda che fa il prezzo ; al piccolo imprenditore, al dipendente e al consumatore finale non resta che adeguarsi. La scorsa estate per esempio, i produttori agricoli hanno subito prezzi da fame : il costo dei pomodori sul campo Euro,0,12 , e per l’uva Euro 0,25 al chilo. Anche un profano capisce che se il mercato ti obbliga a vender i tuoi prodotti a tali prezzi, non puoi offrire ai tuoi dipendenti una paga equa. E se i prezzi di questi ed altri prodotti alimentari li troviamo maggiorati fino al 500% nei negozi, è evidente che il meccanismo della distribuzione funziona a vantaggio dei soliti furbi. Da sempre, però, quando si cita la parola Caporalato e le sue nefandezze, tutti: Sindacati, Regione ,Istituzioni si scandalizzano, usano parole forti ma, poi ,nulla cambia. Auspichiamo che questa nuova legge sia semplicemente applicata con severità e , nel frattempo,la politica dia un aiuto concreto alle Associazioni agricole e agli imprenditori a prendere iniziative atte a cambiare l’attuale sistema di commercializzazione dei prodotti agricoli. L’azione più urgente e concreta è di spargere la voce dell’associazionismo; poiché soltanto una forza unita può contrapporsi alle leggi del mercato elaborato, diretto e difeso dalle grandi distribuzioni. E’ opportuno insegnare ai piccoli imprenditori che soltanto associandosi tra di loro e creando un marchio territoriale, come avviene già in tante parti d’Italia, potranno affermarsi sui mercati nazionali ed esteri. Soltanto in questo modo il caporalato potrà essere definitivamente sepolto. Comunque, pensiamo sia interesse di tuta la nostra società, capire che partendo dal basso e pretendendo dalla classe politica precise normative strutturali, non soltanto emanate, ma soprattutto monitorate e controllate, potrà avvenire un cambiamento radicale . Siamo convinti che a questo primo passo per sconfiggere il caporalato , ne seguiranno altri, specialmente per difendere e valorizzare i prodotti del made in Italy. Potremo raggiungere i risultati auspicati soltanto se tutti faranno la propria parte nell’interesse della comunità, ma anche di noi stessi. Se ciò, come è auspicabile, si realizzerà, in avvenire potremo raccontare che il periodo del Coronavirus non è stato soltanto causa di lutti e tragedie ,a cui va sempre il nostro pensiero,ma l’avvio di una riscossa della parte più importante della nostra economia. Sia chiaro che l’industria e l’artigianato sono importanti, ma l’agricoltura é la parte dell’economia assolutamente indispensabile per l’umanità. Sappiamo difenderla e amarla ,poiché essa è il primo indispensabile ed efficace medicinale per la nostra salute.

Fabrizio Labarile

Martedì 26 Maggio 2020

46. Rosario Romero


Domenica 31 maggio 2020 – Di nuovo nel mio letto senza la mascherina

Per sistemare alcuni problemi di salute ho passato quest’ultimo periodo in un modo molto movimentato e concretamente impegnativo. Troppo da fare per scrivere.

Ricoverata a Fatebenefratelli: giorno e notte con la mascherina in faccia. Queste sono le regole.

Il bello è che nel giro di 3 settimane di nuovo mi hanno fatto il test e sono negativa al covid 19. C’è un meccanismo mentale che mi da molta sicurezza.

Forse è il tema dell’altruismo. Non sono contaminata non contaminerò gli altri.

Ora sono tornata a casa posso girare e dormire senza mascherina.

Martedì 2 giugno 2020 – Trappole per topi

Questa mattina andando a piazza Trilussa per fare un brunch, con Nicola siamo passati per via san Francesco a Ripa.

Davanti a un ristorante si era creato un raggruppamento urlante e c’era anche una macchina della polizia che bloccava il traffico.

Il problema si è creato quando il cane di alcuni che passeggiavano ha depositato un pacco disgustoso ed enorme davanti a un ristorante. Devo dire che era sempre stato chiuso in questo periodo, e aveva appena riaperto dopo il lockdown.

Il proprietario aveva sollecitato i padroni del cane a pulire il suolo davanti al ristorante. Loro si sono rifiutati a addirittura uno di loro, il figlio diciottenne, gli ha spuntato in faccia. Allora hanno chiamato la polizia ecc…

Dopo il brunch Nicola ha proseguito per andare da sua madre e io tornando a casa sono passata dal liutaio di via del Cedro e ci siamo messi d’accordo per portargli la mia chitarra da sistemare.

Poi ho preso il tram, l’8. Sono salita a san Francesco a Ripa. Mentre salivo una donna è uscita dicendo qualcosa a proposito del “raggruppamento”.

Una volta dentro due giovani in piedi stavano imitando la voce della signora che era appena uscita.” Raggruppamento, ha detto raggruppamento, ma che vuol dì raggruppamento?””

Mi sono messa in piede sulla porta di fronte a quella dell’uscita. Ero immobile per osservare meglio.

Ho scoperto una situazione incandescente. Prima di tutto i posti a sedere con l’etichetta ”proibito occupare questo posto” erano tutti occupati, inoltre c’era un’aria di gioia e complicità diffusa fra alcuni.

A questo punto ho individuato in mezzo a questo marasma umano solo altre 3 donne che come me erano allibite.

Una di loro si è diretta verso di me come per cercare riparo. Due ragazzi che stavano là davanti all’uscita quando la donna è passata davanti a loro come per gioco l’hanno bloccata e hanno fatto finta di sputarle addosso; si sono tolti del tutto le mascherine, che cmq erano già traballanti

A quel punto il tram era arrivato alla fermata del ministero dell’istruzione, si sono aperte le porte e ho fatto un balzo fuori.

47. Sebastián Elías Campo Pérez (Cartagena de Indias, Colombia)

Entre murallas

Lunes
Observo, hasta donde mis lentes me lo permiten, una cantidad ingente de personas haciendo fila para pagar los recibos de electricidad, agua, gas e internet a las empresas prestadoras de dichos servicios, que se han valido de la ocasión y sin contemplación han aumentado el costo del consumo mes a mes. Observo, también, mototaxistas que vienen y van buscando a quien transportar, taxis realizando carreras, busetas repletas de pasajeros y percibo el sonido que genera el caos vehicular; todo, bajo la inclemencia del sol. Observo, volteando mi mirada hacia la derecha, al empleado de la tienda que está en frente atender a cada vecino que llega: uno a comprar los mejores productos de comida que pueda encontrar, otro el artículo de aseo personal más barato, aquel un cigarrillo que le calme su ansiedad, ese una botella de gaseosa para refrescarse. Observo, finalmente, que viene una camioneta de la policía y se detiene en la fila para decirle a las personas que la distancia es de dos metros y verificar si es el día en que les toca salir; de igual manera, llaman la atención a alguien que va sin tapaboca y hacen entrar al adulto mayor que pretendía salir de su casa no sé a hacer qué (He presenciado muchas cosas que hacen los miembros de la policía, pero nunca los había visto cumplir su función sin violencia). La observación la realizo sentado en una silla verde bastante raída, ubicada al lado de una de las ventanas de la casa de mi abuela, y me asalta un pensamiento: «Aquí no se puede acatar una cuarentena. No todos tienen esa comodidad».

Veo a un vecino bajar, cuidadosamente de las escaleras de su vivienda, su medio de trabajo: un cuadrado grande hecho de madera, sostenido por tres ruedas y que empuja agarrando una barra lateral que está a la altura de su cintura, en el que carga dos termos de café, golosinas, mecatos, chicles, bolsas de agua y la incertidumbre de si venderá o no. Pienso en la informalidad, en que él no se puede dar el lujo de quedarse en casa. Él solo tiene dos opciones: salir a vender o esperar el hambre, que ha cobrado y sigue cobrando más vidas que las que cobrará el nuevo coronavirus. Como él, muchas personas (54,7 %) en esta ciudad viven de lo que venden diariamente, por lo que no pueden esperar a que algún vecino les regale un mercado o dinero para cubrir sus necesidades alimenticias básicas y mucho menos al gobierno, que no ayuda y cuando dice hacerlo, se roba el dinero para enriquecer a los poderosos. Ni en medio de una pandemia pueden tomar acciones que beneficien al pueblo que los eligió.

El vecino salió con su triciclo a caminar las calles y ofrecer sus productos con la ilusión de venderlos rápido, a buen precio y, antes de volver a su casa por la noche, comprar los que venderá el día siguiente. Lo que no se espera es que las ventas no serán como antes, porque las personas no están saliendo y no le comprarán por miedo al contagio, prefiriendo dirigirse a los supermercados. Pasa cerca a la ventana, me ve, me saluda, yo le devuelvo el saludo, sigue su recorrido, caigo en la cuenta de que hoy inició más tarde que de costumbre; me quedo pensando, tratando de adivinar el porqué, pero no encuentro respuesta. Una voz me saca totalmente de mis reflexiones y me dice: «Sebastián, el desayuno». Es mi abuela. Me levanto de la silla verde, paso a una café y me dispongo a comer.

Martes
No sé para qué leo las noticias si todos los días es lo mismo: más contagiados, más decesos, más restricciones, no hay cura, no hay vacuna, no hay tratamiento; lávate las manos, usa tapabocas, no abraces, no beses, no tengas sexo, si tienes síntomas llama, si tienes síntomas no salgas, desinfecta tu ropa, tu celular, los alimentos; quédate en casa, cuídate, cuida a los tuyos, no hagas visitas, no recibas visitas; padres sufriendo por la cantidad de tareas que tienen los hijos, profesores enviando tareas como si no hubiera un mañana, peleas entre padres e hijos, peleas entre padres y profesores, no todos tienen computadores, celulares ni acceso a internet para estudiar; el gobierno nacional se roba las ayudas, el gobierno nacional da la mitad de las ayudas, no hay suficientes camas para las unidades de cuidados intensivos pero se van a entregar, el sistema de salud va a colapsar si no hacemos caso; Trump acusa a China, China se defiende, Trump hará de la vacuna un bien privado, China se la dará a todo el mundo, Trump dice que no le dará más dinero a la Organización Mundial de la Salud, China dice que va a aportar dinero para investigaciones durante dos años; aumento en el caso de violencia de género, incremento en muerte de líderes sociales en Colombia, olvido estatal en zonas vulnerables que no tienen ni una cama para Unidad de Cuidados Intensivos, represión policial contra los vendedores ambulantes, la comunidad trans; que si el fútbol va a regresar, que ya hay fecha pero tienen casos positivos, que se deben implementar protocolos de bioseguridad; personal médico renuncia por no contar con los equipos necesarios, sufre y denuncia amenazas, crece la intolerancia; fiestas cada fin de semana, comparendos por violar la cuarentena, filas en supermercados y bancos sin respetar la distancia, gente causando alboroto; policías agrediendo a vendedores ambulantes, desalojando a personas de sus casas; la economía va a colapsar, esta va a ser la recesión económica más grande desde la gripe española, millones de desempleados en el mundo; se extiende la cuarentena nuevamente, niños y ancianos población vulnerable; banqueros cobrando más dinero por retirar, por tener cuenta en su entidad, sacando tajada de las «ayudas»; nueva normalidad, cuando termine esto, entre otros lemas; países en Europa reabren sus comercios, reportan menos contagiados y muertos, América nuevo epicentro del Covid19.
Si hay alguna noticia nueva, favor añadir.

Miércoles
No recuerdo cuándo fue la última vez que salí antes del encierro. Quizás más de cuarenta días. Desde el 16 de marzo no salía a ver lo poco de mundo exterior que tengo al alcance. Me tocó ir a hacer efectivo un bono de dinero que entregaron miembros de la Armada y Cruz Roja casa por casa. Lo pusieron a mi nombre porque soy el más joven de esta: mi abuela tiene 81 años y su esposo 82;
yo tengo 23.

Desperté a las 04:30 a. m. y media hora después era la primera persona en llegar –me avisaron que las filas eran larguísimas, que madrugara–. El supermercado abriría sus puertas a las 07:00 a. m. –esto no lo dijeron–. Esperé dos horas, junto a un tío paterno que me acompañó, para comprar lo poco que se podía reclamar con el dinero que había consignado en el bono –aunque el gobierno ayude sus medidas siempre serán ínfimas–. El hambre me atacaba. Llegó el momento esperado. Ingresé primero. El vigilante pidió mi cédula para confirmar que es mi día para salir –es la medida «Pico y cédula»: puedes salir el día que corresponda con el último dígito de tu cédula– y permitirme pasar. No estuve mucho tiempo dentro. Compré dos bolsas de arroz, una botella de un litro de aceite, un cartón de huevos, medio kilo de frijoles, medio kilo de lentejas, dos latas de atún, dos kilos de carne, un kilo de pollo y un tomate –tuve que elegirlo porque había que gastar sí o sí el valor de dicho bono. La cuenta se excedió y di un adicional en efectivo–. Dos cosas tengo que opinar respecto a esta situación: la primera, que esa cantidad solo alcanza para una semana en una casa donde vivimos tres personas –esto no alcanza para una familia de más de cuatro miembros, que abundan por aquí. ¿Qué le hace creer al gobierno que 89’290 pesos alcanzan para un mercado?–; la otra, fui el único del primer grupo de quince personas que entraron que no fue directamente a comprar la carne –esto me puso a pensar en cuán importante es para occidente y el capitalismo el consumo de la proteína animal; esto me puso a pensar en aquellas personas que dicen que la formación de este coronavirus se debe al tráfico de animales, lo cual genera zoonosis, enfermedad por transmisión de animales a seres humanos; y que todos deberíamos iniciar la transición hacia la proteína vegetal. Tal vez tengan la razón–. También fui el primero en salir.

Regresé a casa a las 07:45 a. m. Desayuné, intenté dormir un rato –después de que me despierto en la mañana, no concilio sueño sino hasta la noche–, puse a cargar mi celular. Volví a levantarme con la intención de escribir a mi madre y a una prima. A la primera, para preguntarle cuánto dinero le consignaba a su cuenta y a la segunda para que me diera la dirección del edificio al que debía ir para hacerle un favor que me pidió: buscar una bicicleta de segunda que compró.

Salí caminando calle abajo –ocho cuadras– para llegar al punto en donde debía esperar la buseta que me dejaría cerca al sitio en donde seguramente debía hacer fila para realizar la transacción. Afortunadamente, recién llegué al sitio de espera, la buseta venía en camino. Saqué la mano, señal inequívoca de que necesito subir, a lo que el conductor se detuvo y subí; tan buena suerte tuve que fui el único pasajero que había dentro y el conductor iba a una velocidad considerable, cosa que agradecí, pues pretendía hacer rápidamente mi labor. Confieso que iba pensando en demorar lo menos posible para regresar y almorzar, pues el hambre ya se avecinaba. El vehículo llegó hasta el centro comercial. Bajé, ingresé, mostré mi cédula, rociaron la palma de mis manos con gel antibacterial, limpié la suela de mis zapatos en un tapete y me dirigí a los cajeros automáticos del banco en el que tengo una cuenta: necesitaba dinero en efectivo. No hubo fila, retiré y caminé hacia el lugar en donde debía realizar la consignación. Luego de varios percances, logré llegar al lugar. Pegunté cuál era la fila, la señalaron, y comenzó la espera. Mientras avanzaba lentamente –porque en donde iba a realizar la consignación no era propiamente en el banco, sino en una dependencia pequeña fuera de este–, miraba lo vacía que estaba la sucursal bancaria, en contraste con lo lleno que estaba fuera y la fila interminable paralela a la fila a la que yo estaba. Reparé que nadie respetaba la distancia mínima a pesar de tener tapabocas, algunos guantes, otros portaban caretas y un pequeño grupo tenía todas las anteriores. Solo pude pensar en lo siguiente: «Maldita sea, aquí somos inmunes». No puede haber otra explicación. O tal vez sí, pero la causa de nuestra supuesta inmunidad es algo que va relacionado con que creemos serlo y como toda creencia, no necesita pruebas. Si alguien pedía la distancia, la otra persona se alejaba de ella, pero se aproximaba a la otra, a quien poco le importaba el sudor, la tos, el contacto. «¿Será falta de educación o de que “Esto no me pasará a mí?”». Por fin llegó mi turno, hice el proceso, me entregaron el papel que confirmaba la realización del mismo y salí de allí.

Recibí la llamada de mi prima en la que me indicaba la ruta a seguir para llegar al edificio en el que debía preguntar por el vendedor de la bicicleta. Me dio el nombre y el número de apartamento. Mientras esto sucedía, vi las calles atestadas de mototaxistas, taxis, busetas y personas desplazándose de un lado para otro. Si hay cuarentena, quisiera saber cómo es que se está acatando, porque por lo que veo, en Cartagena no respetamos nada; parece que no hubiese nadie infectado. Crucé la calle, saqué la mano a la buseta que venía, subí y en menos de cinco minutos estaba frente a otro centro comercial: para llegar a mi destino, el recorrido más rápido era atravesarlo. En la recepción del edificio di el nombre que me dijo mi prima, el vigilante llamó, dio la razón, esperé a que el sujeto bajara. Fueron cinco minutos eternos, pero al final me entregó un casco naranja y la bicicleta del mismo color. Nos despedimos e inicié a pedalear. Fue la segunda vez que montaba en una de estas bicicletas, esas que usan para ciclomontañismo. Debía llevarla a la casa de mi prima, pero hice una parada para almorzar en la casa de mi abuela, recargarme y continuar el camino.
Luego de comer, descansar unos minutos y antes de que lloviera, di comienzo al recorrido que me sabía de memoria hasta que llegué a la meta. Mi prima me recibió con comida. Saludé a sus hijos y a su madre –mi tía–. La tarde transcurrió serena: hablaba con mi prima, chateaba, vimos un película por Netflix hasta que un primo fue a buscarme y volví a donde mi abuela.
Un día ajetreado el de hoy. Seguro habré bajado un par de kilos. No es mucho, pero salí del encierro y el sedentarismo.

Jueves
¿Por qué creemos en algunas cosas y no en otras? ¿Por qué exigimos pruebas para estas y no para aquellas? ¿Por qué aceptamos como válido lo que dice cualquier líder sin que este posea pruebas sólidas que corroboren lo que afirma? Son las preguntas que surgen cuando leo o escucho a alguien que cree en las teorías de conspiración, en que hay un pequeño grupo de poderosos que han planeado el orden de las cosas a nivel mundial, todo para tomar control sobre nosotros. Son las preguntas que surgen cuando leo o escucho a alguien creer que China creó el nuevo coronavirus en un laboratorio, que tiene la vacuna, pero no la saca a la luz pública, esperando el momento oportuno para quedar como salvador del mundo y convertirse en la primera potencia mundial, para dominarnos. Son las preguntas que surgen cuando leí que muchos estadounidenses llegaron a las salas de urgencias, luego de haberse inyectado cloro para eliminar el virus, una declaración hecha por su presidente Donald Trump. Son las preguntas que surgen cuando Ruddy García, un «guía espiritual», en una videoconferencia con Miguel Arrázola y María Paula Arrázola, una pareja de esposos y líderes de la iglesia Ríos de Vida en Colombia, manifestó que «Hay un grupo élite de nivel global que está preparándose para poner una vacuna obligatoria y con esa vacuna poner un chip que se llama ‘ID2020’, hecho por el señor Bill Gates»[1]. ¿Por qué somos tan estúpidos?
(El discurso de odio contra China, motivado por Estados Unidos, es tan absurdo como el odio que sienten en Europa hacia los judíos. En cualquier situación que afecte a Europa –esto a lo largo de su historia–, sale a relucir el nombre del judaísmo: si hay una peste, la llevaron los judíos; si hay una guerra, algo tienen que ver los judíos; si hay una raza que no merece vivir, es la judía; cualquier cosa que suceda en el viejo continente, tiene a los judíos por delante; y ellos no han hecho nada más que huir de la persecución y poner una cantidad grande de muertos; mientras, para el resto del mundo está China. Esto solo ha logrado generar odio y división entre unos y otros, acrecentar el prejuicio y establecer un estigma).

En lugar de guiarnos por lo que dicte la OMS e implementar sus recomendaciones, optamos por creer lo que pensamos es cierto. En lugar de protegernos, de aplicar las medidas de restricción, preferimos buscar el modo de burlarlas porque no vemos los muertos, porque el fútbol va a volver, porque los únicos que se mueren son los mayores de 70 años. En lugar de quedarnos en casa y adaptarnos al aislamiento –no va a ser todo el año y tiene como intención mitigar la transmisión del virus–, decidimos salir aunque no sea por algo necesario, beber licor y congregar amistades y familiares en fiestas caseras. En lugar de seguir las medidas que dice la medicina, de usar tapabocas, lavarse las manos cada tres horas y por un lapso de veinte segundos, de guardar la distancia de dos metros entre las personas, hacemos caso omiso a todo ello. ¿Por qué desconfiamos de la ciencia y la medicina, si son ellas las áreas que más nos ayudarán en estos momentos, a las que deben ceñirse los gobernantes?

Comprendo que todas las decisiones de los gobiernos parecen excesivas, son restrictivas, limitan la libertad a la que estamos acostumbrados, pero son las mejores mientras no exista, por lo menos, un medicamento que ayude a disminuir la irrupción del virus en el organismo o lo anule. Asimismo, comprendo que queremos ver a nuestros seres queridos, abrazarlos, compartir con ellos, viajar, pasear, disfrutar, bailar, estar en conjunto y realizar todo aquello que hasta hace unos meses hacíamos. Pero también debemos comprender que para volver a ello tardaremos –no sé si poco, no sé si mucho–, que debemos cuidarnos entre nosotros, tener empatía, solidaridad y tolerancia. Aunque, bueno, con la corrupción que nunca descansa, personas pidiendo ayuda y dinero a otras, que no siempre podrán ayudar, los casos de violencia intrafamiliar, de asesinatos, de violaciones de derechos humanos, todo eso a lo que también nos hemos acostumbrado, aquello que hemos normalizado, es lógico que no creamos, que nos veamos obligados a salir a buscar lo que necesitamos para sobrevivir, que consideremos salir –no todo es Twitter– a protestar contra la negligencia del gobierno, que seamos nosotros quienes cambiemos lo que sucede, pues a fin de cuentas nos servirá a todos los que estamos, los que vendrán y hará sentir mejor a los que nos dejaron.

Viernes
Tenemos que ser productivos, realizar actividades constantemente; si estamos mucho tiempo sin hacer algo, nos sentimos mal. No disfrutamos nuestras vacaciones, nuestro tiempo libre; ni siquiera en ese momento en que nos tiramos a la cama y no hacer absolutamente nada, podemos estar tranquilos sin pensar en qué podemos hacer para no sentirnos vagos. Hemos acelerado nuestro ritmo de vida: las cosas deben ser, y hacerse, inmediatas; finalizamos una tarea y ya estamos emprendiendo una nueva. Estamos en una reunión familiar pensando en el trabajo. El trabajo nos ha absorbido y creemos que debemos estar en función de algo a toda hora, en todo momento. Nos han quitado –nos hemos quitado– la posibilidad de gozar del descanso, ese que nos ganamos. Tal vez por eso es que le huimos a la monotonía, creyendo que es fácil abandonarla, que no volveremos a su aposento; como si no fuese correr en círculos.

En tiempos de pandemia, a ese eterno retorno le hemos tenido que sumar el tener que desplazar todas las actividades que antes hacíamos fuera a nuestra morada, sometiéndonos a presiones que no teníamos. Hemos optado por crear una lista innumerable de cosas por hacer y aprender hasta que esto termine. La idea es tener todo el día ocupado para no caer en el aburrimiento, porque nuestra cabeza debe estar ciento por ciento activa; debemos, a como dé lugar, evitar sentir la angustia que nos provee el encierro, porque si hay algo que no sabe hacer el ser humano, que va en contra de lo que parece ser su naturaleza, es vivir encerrado y disfrutar su soledad. Es por eso que nos inscribimos en cuanto curso gratuito y virtual vemos en la red o nos recomiendan, hacemos ejercicio para no engordar; nos obligamos a ser creativos –componer una canción, escribir el próximo bestseller literario, pintar alguna obra maestra–; vemos tutoriales para aprender a bailar cualquier género musical; infinidad de cosas. No queremos pensar, en ningún momento, en el coronavirus ni en la pandemia, esperando que la cuarentena se nos vaya lo más rápido posible.

¿Esas son las normalidades a las que queremos volver y adaptarnos? No es obligatorio hacer algo durante el encierro. Si teletrabajas, dedícate a ello; si estudias de manera virtual, dedícate a ello; si tu pasión es leer, hazlo; si te gusta escribir, plasma cómo te sientes ahora; si eres aficionado a los videojuegos, dedícale un tiempo determinando diariamente; si extrañas a alguien, habla con él, escríbele, realicen una videollamada y recuerden aquellos momentos en los que se rieron hasta el cansancio. Ingéniatelas a pesar de la coyuntura que atravesamos, pero con una sola cosa o con pocas; no te sobreexijas, pues podrías crear el círculo vicioso de «Hasta que no termine esto y lo haga bien, no sigo con lo otro», lo cual es bastante insano. Démosle un respiro a nuestras vidas. Si no es ahora, ¿cuándo?

Por mi parte, he dedicado la mayor parte del tiempo a leer y escribir, descansando para ver y escuchar noticias, entrevistas, podcasts, videos musicales; y visitar, con todas las medidas, a amistades, vecinos y familiares, cuando se da la oportunidad, ya que no estoy estudiando ni trabajando. Me adapté hace mucho a la soledad y a disfrutar los momentos en que no quiero hacer nada, ni siquiera pensar, cuando comprendí que la vida no se trata de trazarse un montón de objetivos que no sé si llegaré a cumplir. Prefiero aprovechar las oportunidades que se me presenten, teniendo claro no caer en la agitación que exige esta sociedad, pues mi tiempo de realización, por nombrarlo así, es distinto al del resto.

Sábado

En los barrios populares de Cartagena, sus habitantes aprovechan el fin de semana para sonar música en sus grandes equipos de sonido, se reúnen en torno a ellos, bailan, toman, disfrutan y se apartan del estrés semanal que produce el trabajo. Es increíble que a pesar de la cuarentena –con toque de incluido–, estando restringida la salida, cerradas las discotecas, prohibidas las aglomeraciones de personas, se mantenga este día como aquel en que la música suena estridente y que la gente pueda beber licor. Digo esto porque hoy es cuando más comparendos se imponen por desacatar las medidas de aislamiento y más fiestas se realizan en las casas. Esto es algo que ni el coronavirus ni la pandemia ni la crisis económica ni la cuarentena ha podido detener. «Maldita sea, aquí somos inmunes».

No sé si lo hacen porque se creen inmunes al virus, por sentir ese falso poder que otorga el desobedecer la norma, por falta de conciencia ante la magnitud de lo que estamos viviendo, porque consideran que son mentirosas las cifras de contagiaos y muertes o porque es cultural. Si es por sensación de inmunidad, capaz y lo son, pero al ser asintomáticos pueden contagiar a sus seres queridos; si es por aquel falso poder que otorgar el desacato, más que inmunes se creen invencibles y no sé qué es peor; si es por falta de conciencia, va ligado a la escasa madurez que tienen como personas; si es porque no creen las cifras oficiales, quizás esperen a estar contagiados y ver morir a familiares o amigos para caer en la cuenta de lo que pasa a su alrededor; si es por cultura… Sí, todo esto es cultural.

Es cultural burlar las reglas porque tenemos «Malicia indígena» y «El vivo vive del bobo». Es cultural que las casas de estos barrios hayan niños que no estudien y terminen inmersos en el mundo de las drogas o las pandillas, y si estudian, no tengan los recursos para recibir una buena educación, porque sus figuras paternas no velan por ellos. Es cultural que haya maltrato del hombre hacia la mujer y prevalezca el machismo. Es cultural que las familias sean numerosas y las casas pequeñas, que algunas estén en obra negra, otras a base de madera; que no tengan todos los servicios públicos domiciliarios, pero que vivan teniendo los mejores celulares, los televisores y equipos de sonido más grandes. Es cultural aparentar mientras se muere de hambre. Es cultural no creer en las gestiones de los gobiernos de turno.

Es cultural la impuntualidad.

Es cultural consumir y consumir.

Es cultural la indiferencia y la indolencia.

Es cultural esta cultura, aceptada, normalizada y motivo de orgullo.

Domingo

No importa lo que suceda en el mundo, el domingo nunca dejará de ser domingo: el día más aburrido y aburridor de la semana. Hagas lo que hagas, jamás hay sensación de que el día mejore. Viene cargado de desidia y pesadez. No hay ganas de hacer algo y por si esto no fuese suficiente, es el día que más demora en transcurrir. Ahora en cuarentena, la situación con él empeora.

Todos los días me levanto y me siento en esta silla verde y raída al lado de la ventana. Aquí empieza mi día: observo al mundo, leo noticias, respondo mensajes y por más que haga cualquier cosa, no importa qué, vuelvo al mismo lugar. Aquí transcurre la mayor parte del día y la semana, sino es que toda y no he caído en cuenta. Al ser el día, por excelencia, solitario, la cantidad de personas y vehículos que veo pasar es tan ínfima que es igual a nada; sin embargo, si me distraigo –me sucede y mucho–, puedo recrear cualquier día desde esta ventana, en esa misma calle, en la misma tienda, en el mismo sitio de pago de servicios públicos, ver a las mismas personas, ver pasar a los mismos vehículos, porque es igual y repetitivo; el cambio se pasmó, dejó de ser constante.

Cabe destacar que el encierro no me ha afectado, pues antes de esto pasaba la mayor parte del tiempo en casa, mientras no trabajara o estudiara, y haciendo lo mismo: leyendo, viendo y escuchando noticias, entrevistas y podcasts, y chateando en el celular, escuchando música; pensar. Sin embargo, he pensado en aquellos a quienes conozco, que le imprimieron rapidez a su vida, que hacían miles de cosas fuera, que permanentemente viajaban y sé que deben sentirse agobiados. No es fácil aceptar que le cambien la rutina a uno de manera abrupta, tener que adaptarse, así sea por unos cuantos meses –nadie sabe cuántos–, a vivir entre las paredes de su casa, esa que apenas está conociendo, detallando.

Dicen que nada volverá a ser como antes, que debemos iniciar una carrera por cambiar nuestros hábitos de vida, apostar más a la virtualidad –en un país en el que el 50 % de las personas no tiene acceso a internet. ¿Es en serio?–, que seremos mejores personas, más tolerantes y solidarias; dicen eso y otras cosas más. No somos tolerantes ni solidarios ahora, estamos deseando que esto se termine para ir a encontrarnos con nuestros amigos, beber, bailar, reír, abrazarnos, tener mucho sexo; no prestábamos atención en clases presenciales ¿y se supone que debemos hacerlo de manera virtual en adelante?; no éramos puntuales para asistir a la universidad ¿y se supone que lo haremos de manera virtual en adelante?; muchos niños no tienen computadores ni acceso a internet ahora y los maestros parecen hacer caso omiso a eso y no presentan alternativas, ¿pero en adelante esos niños, por arte de magia, tendrán cobertura y equipos para estudiar y esos profesores serán tolerantes? O ustedes son ingenuos o yo soy un maldito pesimista. No asistíamos a las marchas antes, ¿pero después sí? No pasamos del discurso y del pacifismo, ¿pero luego sí lo cambiaremos? No hacemos si no indignarnos por redes sociales y dar soluciones, pacíficas y bélicas, ¿pero en unos meses sí las llevaremos a cabo? No hemos cambiado nada durante esto y pensamos que cambiaremos luego. ¿No nos cansamos de ser hipócritas? Esto es lo único que rescato del domingo, lo pone a pensar a uno, a considerar todas las opciones, a ver en todos los espectros, así sea desde una silla verde y raída, mirando fuera de la ventana el mismo panorama todos los días, esperando que cada día pase porque no hay nada que hacer dentro de esta casa.

***

Lo que faltaba. Me entero de que van a cerrar el barrio en el que vivo por ser uno de los seis focos de contagio de la ciudad. Ya no voy a vivir en cuarentena ni entre paredes, sino como Cartagena: sitiado y entre murallas.

Epílogo

Hace días hablé con cierta persona y me dijo que no creía que la situación que estamos viviendo fuera real, que había maquillaje en las cifras, que todas las medidas que decretaba el gobierno nacional hacían parte de una farsa. Esto, motivado por la restricción de la libertad a la que nos vemos enfrentados actualmente, lo cual no permite que se pueda salir a marchar, a incomodar al establecimiento. Aclaro, no dijo que fuera escéptica ante la existencia del Covid19 ni a su rápida transmisión.

Esa conversación me hizo pensar que la clase política derechista de Colombia –inserte el nombre de cualquier país que sea gobernado por la derecha– encontró en la pandemia un aliado para tapar sus escándalos de corrupción, como la compra de votos en las elecciones pasadas, ignorando el resto de problemas de este país por centrarse en la emergencia sanitaria –tampoco ha hecho mayor cosa, pues todavía faltan: equipos de bioseguridad para el personal médico, ventiladores eléctricos, realizar más pruebas diarias, adecuar espacios para ucis, en lugar de gastar miles de millones de pesos en camionetas blindadas, campañas para mejorar la imagen del incompetente presidente; estas son solo algunas de las tantas cosas que ha hecho mal–. Asimismo, han aprovechado esta coyuntura para imponer medidas económicas que dejan más pobre al pueblo colombiano –todos sabemos que será la clase obrera y media serán las que salvarán la economía: trabajando más horas por menos dinero y con deudas con los bancos hasta el cuello–.

En Colombia –inserte el nombre de cualquier país latinoamericano–, se hace difícil creer en los gobiernos debido a su historia marcada por la violencia, represión y silenciamiento sistemáticos, sus promesas de campaña incumplidas y el paso del poder a través de generaciones, que se han enriquecido y ejercido control total sobre el país. Por esta razón, todo lo que provenga del establecimiento es visto con escepticismo. Afortunadamente, desde hace varios años, este pueblo maltratado por siglos, sobre todo la juventud, ha ido despertando, perdiendo el miedo y alzando su voz exigiendo derechos y una vida digna para todos los colombianos; marchando, preparándose, ejerciendo vías legales para tumbar decretos o medidas que atenten contra la humanidad, el medioambiente, la educación y la paz; luchando, también, contra los cómplices del sistema, aun exponiendo su vida. Nos falta mucho, pero esto es un proceso que implica entereza y sacrificio, y esto hay que entenderlo.

Al final de la conversación me dijo que estaba planeando una marcha, pero que no me podía contar detalles y me quedé pensando en que si bien la cuarentena es una medida eficaz, no se puede permitir que la clase dirigente se escude en ella y coarte la democracia. Verdad es que ningún arma es tan efectiva como la de infundir terror en una sociedad y restringir su libertad. Sin embargo, dicha eficacia está mediada por la obediencia y un pueblo que decida desobedecer, es un pueblo que tiene todas las de ganar.

Posdata

No me quiero imaginar el panorama si la vacuna contra el coronavirus la encuentra Estados Unidos bajo la administración de Donald Trump. Eso sería catastrófico.

48. Alessandra Cozzani

Diario

10/4/20 Lo spazio chiuso

Sky house di Raymond Carver

Sky house una casa tra acqua e cielo. Piena di temperie sentimentali acquifere e di desiderio di luce, di aria, di vento e di secchezza, così direbbe un oroscopo cinese. Carver, nella sua liquidità di vita, non smentisce questa descrizione. Il suo bisogno di affogare la disperazione nell’alcol e i cento mestieri cambiati senza mai un punto fermo, rimandano all’idea di fluidità, di corsa veloce e perdita dentro le grandi acque dell’oceano. Il fiume scorre, è nella sua natura, non cerca radicamenti. Amo “I luoghi dove l’acqua con altra acqua si confonde” scrisse in una poesia.

Però, infine, esce dalla sua sregolatezza e dall’alcolismo, ha bisogno di chiarezza, di aria, di vita secca senza fronzoli grondanti e va a vivere a Sky house, una casa piena di vetrate. Vuole vedere il cielo, aderire al mondo esterno pur restando in casa, dove è confinato dalla malattia. Il suo radicamento finale non è nella terra, ma nel cielo, sospeso nell’aria, da dove osserva le minime vite di tutti i giorni e impara a scriverne in un sobrio stato di secchezza.

L’acqua è un elemento ambiguo, può agganciare all’idea di annegamento o, al contrario, divenire un’immagine rarefatta di scioglimento, un’immagine orientale di calmo fluire delle emozioni, senza più drammi, riconduce al ritmo naturale della vita. Ray giunse a questa pace e cominciò ad ascoltare tutti i ruscelli e i rivoli d’acqua che circondavano la casa. Sky house era una casa radicata in cielo, lavata da piccoli ruscelli zampillanti di acqua trasparente. Fu una meta finale, meritata, in parte cercata, in parte capitata per caso. Poco tempo prima, quando era ancora in piena crisi coniugale e di disintossicazione dall’alcool, aveva desiderato una casa solida, fatta di legno e pietra, dove isolarsi. Ma incontrò la poetessa Tess Gallagher, se ne innamorò e decise di andare a vivere a Port Angeles, dove lei era nata e cresciuta. Il territorio, tutt’intorno, si estende tra l’Oceano Pacifico e le foreste pluviali delle Olympic Mountains, dove si ergono imponenti ghiacciai che si sciolgono in ruscelli e fiumi. È lì che Ray si troverà finalmente a casa. Riprende a scrivere poesia e ha in mente un progetto di romanzo, mai realizzato. ‘Cattedrale’, la sua ultima raccolta di racconti è andata molto bene, sta raggiungendo la fama che rincorre da una vita, ha l’amore di Tess, ma è malato, da lì a poco morirà. Quella casa ad ampie vetrate gli permette di vedere il cielo, la natura, di sentirsi all’esterno pur restando all’interno. Un fragile confine, una soglia che comincia a disintegrare ogni ordine di interno ed esterno. Lui che era stato uno scrittore di racconti minimali, di vite chiuse in stanze o motel, di persone ai margini, ora, sul finire della vita, osserva come tutto possa raccogliersi negli ampi scenari di quella casa. Avrà forse sentito che, pur restando dentro uno spazio chiuso, non si smette mai di aderire al mondo? Che si può essere confinati in qualche modo tra quattro mura, e pure sentire che la propria vita continua a pulsare là fuori? E là fuori aleggerà adesso, come gli spiriti di alcuni poeti romantici sono rimasti in certi luoghi, Wordsworth nella regione dei Lake Districts, o lo scrittore vittoriano Thomas Hardy nel Dorset, con la brughiera divenuta lo scenario imprescindibile delle vicende drammatiche dei personaggi.

Ultimo frammento

E hai ottenuto quello che

volevi da questa vita, nonostante tutto?

Sì.

E cos’è che volevi?

Potermi dire amato, sentirmi

amato sulla terra.

Raymond Carver

Dove l’acqua con altra acqua si confonde

Adoro i torrenti e la musica che fanno.

E i ruscelli, nelle radure e nei prati, prima

che diventino torrenti.

Forse li adoro soprattutto

per la loro segretezza. A momenti dimenticavo

di dire qualcosa sulle sorgenti!

Può esserci una cosa più meravigliosa di una fonte?

Ma anche i grandi corsi d’acqua hanno il loro cuore.

E i luoghi in cui confluiscono nei fiumi.

Le foci aperte dei fiumi che sfociano nel mare.

I luoghi dove l’acqua con altra acqua

si confonde. Questi luoghi mi si stagliano

nella mente come luoghi sacri.

Ma questi fiumi lungo la costa!

Li amo come alcuni amano i cavalli

o le donne affascinanti. ho un debole

per questa acqua veloce e fredda.

Mi basta guardarla perché il sangue scorra più veloce

e un brivido mi percorra la pelle. Potrei stare

a guardarli per ore questi fiumi.

Non ce n’è uno che somigli a un altro.

Oggi compio quarantacinque anni.

Chi ci crederebbe ora se dicessi

che una volta ne avevo trentacinque?

E che avevo il cuore freddo e vuoto, a trentacinque anni!

Sarebbero passati altri cinque anni

prima che ricominciasse a scorrervi del sangue.

Mi prenderò tutto il tempo che voglio oggi pomeriggio

prima di lasciare questo posto accanto al fiume.

Mi piace amare i fiumi.

Amarli a monte fino

alla sorgente.

Amare tutto quello che mi fa crescere.

Raymond Carver

da Racconti in forma di poesia (Where Water Comes Together with Other Water, 1985), in Raymond Carver, Orientarsi con le stelle – Tutte le poesie (Roma 2013, titolo orig. All of Us, 1996). Traduzione di Riccardo Duranti

11/4/20 In ascolto dei rumori

Chiudendo gli occhi

ho provato a ritrovare

i rumori di ogni giorno,

le auto sfrecciare lontano

sul viale, qualche passante

che parla a voce un po’ alta

o i bambini in cortile,

gli uccelli che cantano.

E sì, ho ritrovato gli uccelli,

e ho capito che fuori è

primavera.

In questo silenzio

che dilaga intorno

contiamo ogni giorno

i morti i vivi i malati,

le cifre passano davanti

ai nostri schermi.

Ogni giorno meno cento

più dieci, mille, diecimila

e anche i paesi rimbalzano

dall’uno all’altro Francia,

Spagna, Germania.

Piccoli baluardi cinesi atterrano

in nostro aiuto, seguiti da container

salvifici, pieni di macchinari e mascherine

e noi dietro i vetri osserviamo

scenari surreali e pensiamo

finirà, forse non è mai

neppure cominciato.

Un giorno sapremo

che era un sogno,

la nostra paura era

la paura della morte,

messa lì concreta, su un tavolo

di obitorio, avvolta in fasce e garze,

come Lazzaro in attesa

della resurrezione.

Allora ci siamo alzati dal letto

e siamo andati dentro il nostro giorno,

chiedendo alla vita di starci accanto.

E siamo partiti

come sempre,

siamo andati dentro alla vita,

a questo grande aeroveicolo

che ci trasporta sopra la realtà.

Una buona Pasqua a tutti coloro che seguono questa pagina, in particolare a chi cura i malati e a chi si sforza di tenere vivi i legami con le persone che ama, che siano vicine o lontane.

12/4/20

Entrando nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: “Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui…”

(Mc 16,1-7)

Un angelo annuncia la resurrezione in Matteo, due angeli in Giovanni sebbene in un secondo momento, all’inizio infatti l’incontro con la resurrezione è l’incontro con il vuoto, un sepolcro vuoto che lascia sbalorditi. Un giovane vestito di bianco dà l’annuncio in Marco, due uomini in abiti sfolgoranti annunciano la resurrezione in Luca. Essi ci appaiono come esseri terreni, non sono che un giovane, due uomini, sebbene il candore e la luce che li contraddistinguono è un richiamo divino.

L’angelo è presente all’inizio della narrazione del Vangelo, quando annuncia a Maria la venuta dello Spirito Santo e l’incarnazione del Bambin Gesù. L’angelo sta all’inizio e alla fine della vita di Gesù. Come ogni re anche lui, Re del Cielo, viene annunciato nella sua venuta e nella sua scomparsa. I discepoli non credono alle parole delle pie donne che dicono di aver visto Gesù risorto. È sempre difficile credere al racconto, a quello che l’altro ha vissuto. L’incredulità di fondo è parte di ogni ascolto, è il muro che separa la condizione umana, che ci fa precipitare nella nostra solitudine. Ma le donne vivono la resurrezione di Gesù con il cuore, la sentono dentro di loro. Giovanni ci narra che, all’inizio, Maria di Magdala non lo riconosce, ma basta che lui la chiami: “Maria!” perché lei senta che è lui, il suo Signore: “Rabbunì!”, risponde subito, “Maestro”. È bastato sentire la sua voce, il tono col quale l’avrà chiamata, e il suo nome pronunciato: Maria. Ed ecco che tutto è svelato, ma ancora un mistero per gli altri. Solo Maria sa e ne è certa, come ogni rapporto d’amore vive di un ineffabile sentimento, un segreto compreso solo dai due amanti. E lo stesso accade ai due discepoli coi quali Gesù si accompagna lungo il cammino, nel racconto di Luca. Essi capiscono che lo straniero, che hanno incontrato lungo la via, era il Signore solo una volta a casa, ricordando la gioia che proveniva dalla sua presenza. Dunque la realtà del Signore è ineffabile, non si dà come certa e immediata, ma vive di segni, di indizi, di improvvisi battiti del cuore, che sono riconoscimenti.

Lo Spirito entra nel corpo di una vergine e lo feconda, già all’inizio del racconto lo Spirito è sovrano sulla materia, la rende strumento della Grazia. Così, alla fine, lo Spirito vince la morte, ancora una volta si incarna e solleva la materia dalla sua implacabile realtà mortale. Lo Spirito innalza la materia, ma anche si inabissa in essa per darle vita, è soffio vivificante. Porta la materia in condizione di vivere la vita sulla terra con gioia: la fecondazione di Maria, la nascita, la resurrezione di Lazzaro, il miracolo della moltiplicazione dei pesci, della mutazione dell’acqua in vino a Cana, infine la resurrezione di Gesù sono tutti segni di un Dio che è divenuto corpo, cibo, vita concreta. La resurrezione, come ci viene narrata da Giovanni, è disseminata di segni terreni: Gesù, per essere creduto, mangia il pesce che gli viene offerto e poi ancora il pane coi suoi discepoli, un fantasma non può mangiare, ma un uomo in carne e ossa sì. Permette a Tommaso di toccare la ferita nel suo costato, perché possa credere alla sua realtà umana. Lo Spirito si piega a dare segni visibili, evidenti, credibili per i sensi grossolani dell’uomo, ma c’è un Dio più segreto e misterioso, che sussurra e si rivela al cuore, più che al corpo. Lo Spirito, che non è solo pura trascendenza, ma presenza vitale all’interno della materia, rinnova la sfida della creazione come finalità d’amore di Dio.

Nel cristianesimo trascendente e immanente non sono più realtà conflittuali, materia di disputa teologica. Nella figura di Cristo avviene una miracolosa sintesi. Dio si cala nell’uomo, porta al suo finale compimento la creazione e l’alleanza iniziata col popolo di Israele.

Il racconto della resurrezione è il lento scivolamento di Gesù fuori dalla scena e l’apertura alla Chiesa degli uomini. Gesù risorto appare come una figura silenziosa, in disparte, non è più centrale, c’è e non c’è, è oggetto di visioni, interpretazioni. L’evento della resurrezione apre già alla storia dell’uomo, Dio è dietro il velo, Gesù li lascia, “non trattenermi” dice alla Maddalena, come direbbe un uomo che deve andare via alla sua innamorata. Il racconto delle ultime due pagine dei Vangeli è tutto un andare e venire dei discepoli e delle donne, che si sussurrano quello che è avvenuto: è vero, non è vero, hai sentito? non ci credo, raccontami meglio. Un trovarsi tra loro, uomini e donne a raccontare nella loro realtà umana l’evento divino incomprensibile. Si apre la storia dell’interpretazione lasciata agli uomini, interpretazione sulla quale filosofi e teologi continuano a darci resoconti e istituire dibattiti, perché Dio è narrazione infinita, mistero che si rinnova, che si apre a infinite interpretazioni, a infiniti modi di amare. La parola vera, piena, di Gesù, lascia il posto alla parola leggera dell’uomo, che può riflettere la pienezza di Dio solo nella sua molteplicità contraddittoria.


13/4/20 Un angelo

era assente

e mi parlava

nel silenzio

come in un manto di lana

navigavo nella sua dolcezza

un angelo stinto di pioggia

aspetta all’angolo

ogni notte

a est dell’alba

si scioglie in luce

un angelo

offeso di luce

di tiepida attesa

i sogni, guarda, li ho accatastati

li ho portati, anzi

per fartene dono

erano le mie notti sole

e fredde

e la sua mano

una presenza,

ma lontano.

14/4/20 La Storia come ce la immaginavamo

Siamo dentro la Storia,

non come pensavamo o

come alcuni sognavano,

ma dentro la fuliggine

di una caverna e

scaviamo, trivelliamo

la terra.

Sembra un lavoro inutile,

dicono gli esperti,

sembra che una caverna

non potrà mai diventare

una villa, un grattacielo.

Ma noi sogniamo,

non possiamo fare

altro, mentre le ore

colano via come miele

appiccicoso dalle dita.

Ora siamo la Storia,

lo dicono i telegiornali

e i social e chiunque

s’intenda di indagini

e statistiche, dunque

deve essere così.

E noi che la Storia non

l’abbiamo mai vista,

abbiamo dolori di cui ci

vergogniamo, abbiamo lacrime

che non ci spieghiamo.

La Storia ce l’avevano raccontata

con stendardi e bandiere,

fanfare ed eserciti che sfilavano

sotto archi di trionfo, dopo i morti

dopo le ceneri, dopo i discorsi dai podi.

Ci avevano raccontato la vittoria

che sapeva appena di polvere e sangue.

Ma noi, che al massimo avevamo

visto qualche film western o letto

la storia sulle pagine di un libro,

noi che avevamo ancora nelle orecchie

i racconti dei genitori sui partigiani

che ne sapevamo della Storia?

Ci sfilavano davanti gruppi di alleati

col sorriso sulla faccia di ragazzoni

forti e buoni, le tasche piene

di boogie woogie e cioccolata.

Pensavamo, mio dio ecco la Storia

e che emozione vivere quei momenti.

Invece siamo qui a mangiar terra,

in una caverna piena di pietre.

La notte sogniamo di dire

ai bambini che verranno

com’è andata veramente,

noi che c’eravamo.

Ma neppure ricordando

potremo ritrovare il sapore

terroso della nostra guerra.

Neppure con uno sforzo

di memoria o filmando

la nostra vita in video improvvisati,

i cellulari tesi davanti al viso,

ritroveremo questi giorni nei racconti

che faremo ai nipoti.

Sarà la Storia

e niente più e gli altri,

quelli che non erano qui,

diranno, deve essere stato

magnifico.

Sì, eravamo forti, eravamo eroi,

non come voi che avete tutto.

15/4/20 Vita nell’apartheid da virus

La legge

Io non mi lamento, me ne sto chiuso qua tranquillo con mia moglie. Lavoro da casa, col pc, anche Laura. Lei è avvocato, è arrivato il momento di mettere ordine in tutte le nostre scartoffie, documenti e file che sono sempre un po’ in disordine. L’altra mattina ho accompagnato Laura in ufficio. Fai presto, le ho detto, non è legale. Lei ha detto che si vede che faccio il magistrato, sempre pronto a puntare il dito, poi ha riso. Lo so che vedo il male ovunque, ma il male è ovunque. Lei tende a cercare sempre la motivazione, dice che non si fa il male a caso, salvo delinquenti incalliti, il male lo si fa perché a un certo punto non si può fare a meno di farlo.

Guarda che c’è sempre una scelta.

Parli facile tu, che hai avuto tutto.

E qui chiudo, perché sennò litighiamo. Lei ha lottato, viene da un paesino in Puglia, nessun laureato in famiglia, ha voluto fortemente diventare un avvocato, io l’ammiro, mi sono innamorato di lei per la sua determinazione, non si scoraggia mai. A volte sostiene persino me. Comunque in questi giorni è meglio non uscire, anzi non si deve uscire e poi un magistrato che non rispetta la legge è la cosa peggiore che possa esserci. Meglio un delinquente con la rivoltella, dico io, che è più in linea col personaggio, come sottolinea sempre Laura. Credo che la sua passione per la legge le sia venuta a furia di guardare thriller americani e serie televisive. Lei ride, scosta i capelli in quel modo che mi piace tanto. Mi sembra sprovveduta, ecco cosa. Vorrei sempre proteggerla e invece è lei che protegge i suoi clienti.

La sera a volte facciamo un gioco, camminiamo per le strade di Milano con l’immaginazione. Prendiamo una via e diciamo lì c’è una pasticceria, subito dopo c’è un ristorante. Poi andiamo su google maps e controlliamo, chi sbaglia paga una pizza. Anche se poi non è possibile, ma mettiamo i soldi sotto un sasso, per scaramanzia, perché un giorno ci torneremo. A Laura è sempre piaciuto passeggiare e passeggiare per le vie di Milano. Noi stiamo in centro, siamo fortunati, abbiamo un bell’appartamento e anche una terrazza. Laura cammina spesso sulla terrazza. Al mattino mi sveglio e la trovo lì che cammina, a piedi nudi. Ma fa freddo, le dico, e poi ti puoi ferire. Lei ride, ma ferire con cosa? Io rido pure, è vero le mie paure sono infantili, immotivate, lei è un po’ selvaggia, spontanea. Le serve quella passione nel suo lavoro. Nel mio forse ci vuole più pazienza, per raccogliere i dati, saper aspettare il momento giusto per incastrare il colpevole, capire chi ha torto, chi mente. Capire è un fatto di logica, di prove accumulate e poi tutto in un attimo si scioglie, sparisce. Il puzzle è completo. Quando condanni qualcuno difficilmente ti senti bene, anche se è un delinquente o un corrotto. Mi è capitato con dei politici corrotti di sentirmi bene in un primo momento, come se avessi tolto un parassita dalla società. Ma col passare dei giorni pensi che è un povero diavolo come te, più di te, anche se ha i milioni in un paradiso fiscale. Fa schifo, lo sai, fa proprio schifo, però ti fa pena. Ti fa una pena infinita con tutti quei soldi che lo aspettano, perché sai benissimo che al massimo si fa due anni dentro e poi è libero. A me, a volte, viene voglia di essere un giustiziere alla Robespierre, nei sogni per esempio, poi rido. Non è per questo che ho fatto il magistrato, allora avrei scelto le Brigate Rosse, quando ero giovane, invece mi piaceva la legge, guarda un po’. Incastrare i delinquenti con le prove, i dettagli, le minime incrinature dei loro alibi. Laura fa lo stesso ma al contrario, per smantellare le prove, non è divertente? A volte mi sono chiesto se c’è una morale nel suo lavoro e poi mi sono detto che c’è. La sua morale è salvare un possibile innocente.

Ora abbiamo più tempo per noi e parliamo anche di queste cose, ci sembra di tornare ragazzi quando studiavamo quei libroni di diritto, e tutto era lontano, ma anche vero, possibile. I colpevoli ci sono sempre, se le cose vanno male la responsabilità è di qualcuno, i guai non succedono a caso, questo bisogna averlo ben chiaro in mente. Invece in Italia sono tutti fatalisti, minimizzano. La solidarietà la sentono solo con quelli che come loro organizzano truffe e corruzione.

Anche in questo casino del coronavirus ci sono dei colpevoli, c’è chi non ha capito in tempo, chi non è stato in grado di attrezzare gli ospedali adeguatamente, poi i politici si ammazzeranno. A me i talk in televisione non piacciono, perché tutti dicono quello che gli fa comodo e non ci sono prove, non sai mai chi ha ragione. Io, nel mio lavoro, non mi pronuncio mai fino a quando non sono certo. Accumulo dati, prove, controprove, cerco di toccare la vita delle persone. In televisione invece è tutta aria fritta.

Per me lavorare da casa non è male, avevo tanto lavoro arretrato, ma ci sono cose che si devono fare sul campo, c’è bisogno di collaborare con la polizia, con chi si occupa delle indagini e questo mi manca, mi manca la vita, anche la sporca vita dei delinquenti, dei politici corrotti, di chiunque cerchi la vita al modo suo, nel suo sporco modo. Voglio tornare là fuori e vedere come va il mondo, se va ancora come l’ho lasciato. Che l’ho lasciato male, pieno di truffe e di omicidi. Ma va bene, non ho mai aspirato a rendere il mondo migliore, mi basta mettere un freno al male. E sono convinto che anche Laura fa lo stesso, per lei il male è l’ingiustizia dei magistrati, dei commissari di polizia. Il male del resto può essere ovunque, ci sono anche magistrati corrotti. Laura lo sa che i suoi clienti non sono brave persone, e se le chiedi perché lo fa alza le spalle. Un giorno si è voltata e mi ha detto, qualcuno deve farlo.

Sì, ma perché tu?

Forse non sono così innocente.

Così ha detto, e io so cosa vuole dire. Perché lei è così e a me va bene vivere con una donna così, non pura, intendo, perché io con le mie idee rischio di diventare un puro radicale, un maniaco. Invece, come dice Laura, mi devo rilassare, lasciare che il male mi entri dentro, mi contamini. L’altro giorno ho pensato, ma non è che mi ha già contaminato? Sarà questo periodo surreale, sarà che non si capisce più niente e a volte vado avanti a lavorare fino alle tre di notte e poi confondo la notte col giorno, il bene col male. Ho bisogno di tornare là, di attaccarmi alle prove, che sono le sole che possono dire la verità. Un poco di verità.

16/4/20 Il decalogo

Le cose le sai, no?

Le cose da fare e quelle

da non fare,

te le scrivo sul frigo,

con l’adesivo a forma di cuore

sopra, così non cadono.

Non le devi dimenticare.

Ma basta sapere? Poi sarò salvo?

Tu comincia a sapere,

metteremo la mascherina,

ci laveremo le mani,

staremo a distanza,

non berremo caffè nei bar,

non andremo nei cinema,

non andrai a scuola…

Resterò ignorante? E allora

sarò libero?

Sì, libero, saremo tutti liberi

tra poco.

Ma quando?

Oh presto, presto tesoro,

impara i comandamenti:

la mascherina

l’amuchina

i guanti di lattice

la distanza.

Non fare niente che non sia

assolutamente necessario.

Ma come posso saperlo, chi

lo decide?

Mangiare è necessario,

curarsi e andare in farmacia

è necessario, poi c’è una vasta

gamma decrescente.

E la scuola dove sta?

Al terzo posto direi.

Dopo il supermercato

e la farmacia?

Sì, direi.

E la banca?

Al quarto.

E camminare?

A metà tra la farmacia e la scuola.

Allora dobbiamo introdurre

le mezze misure.

Sì, dobbiamo.

Ma tu dici sempre che in queste cose

non ci sono mezze misure.

Nel senso che le cose che fai

le devi fare bene, lavarti bene

le mani, mettere bene la mascherina,

ma poi noi camminiamo in mezzo

a tutte queste prescrizioni, tra una

e l’altra.

Ma allora, mamma, è come giocare a mondo,

si salta dentro una casella qui e una là.

Sì, si salta, con due gambe o con una sola,

si salta come atleti, ma anche zoppicando

e si salta sempre, si salta fino al confine.

E poi là cosa c’è?

La libertà.

Là saremo nudi e spogli

senza contagi, di nuovo

uomini e donne e potremo

parlare e abbracciarci

e andare con gli amici

in pizzeria e prendere

un aereo e volare in Brasile.

Ma a te non è mai piaciuto

volare.

No, ma l’importante è

sapere di poterlo fare.

Anche questa è una mezza

misura.

Sì, una mezza misura

che porta alla libertà vera,

che è sempre quella immaginata.

17/4/20 Ti scrivo questo

Ti scrivo, ora che non so

che fare.

Abbiamo un cellulare

tasti e codici segreti

pin e numeri riservati

la voce non l’abbiamo.

Ma conservata riecheggia

in noi, come un canto antico.

Ti leggo, ti trovo qui

se passeggio un po’

sulla terrazza degli addii.

Ti vedo nella luce bianca

del mare,

la luce buia della sera

con le stelle a mazzi

sopra le nostre teste.

Ti scrivo questo,

non so altro,

ma tu capisci

tu che mi ami.

18/4/20 Il confine tra il chiuso e l’aperto

A stare chiusi in casa per giorni e settimane ci vorrebbero vasti spazi, dove fosse persino difficile incontrarsi. Le ville romane erano costruite così da isolare le donne dagli uomini, la servitù dai padroni e i padroni dagli ospiti. Vi erano stanze nate per l’intimità familiare, che si trovavano nella parte più interna e segreta dell’edificio e stanze destinate alla vita comune, esposte al pubblico. Le aggregazioni abitative di Cnosso, Santorini e Creta, dove si sviluppo la civiltà minoica prettamente matriarcale, sembra che non avessero mura di cinta, che fossero aperte e infatti la loro civiltà fu infine sterminata. Gli architetti moderni tornano a questa idea di casa aperta al mondo esterno, dove il confine tra dentro e fuori si fa sempre più labile e sottile. Emerge quasi un desiderio di cancellare l’idea di casa, come luogo chiuso, riferito solo ai membri della famiglia per aprirsi all’esterno, la vegetazione, la natura, ma anche la strada e la città. Le case del nord, di Copenaghen per esempio, non hanno tende, né persiane, l’idea è quella di una comunità che apre all’occhio estraneo la propria vita più intima, forse per somiglianza con l’abitudine molto diffusa della sauna, un esercizio di stare nudi insieme a lungo. Non c’è senso di vergogna, il privato è pubblico, anche se a noi latini quel senso di libertà sembra un ennesimo atto puritano di screditare l’erotismo della nudità. E dove forse tutto è mostrato senza vergogna i segreti covano ben al di sotto della soglia di sorveglianza. L’uomo, in genere, rifugge la spettacolarizzazione di sé. Cerca rifugio, solitudine. Se fosse costretto a restare costantemente sotto l’occhio osservatore degli altri impazzirebbe. Una tortura applicata alla Meinhof in prigione era la luce sempre accesa. Questa può infine terrorizzare e far perdere la ragione, come il buio. L’equilibrio psichico dell’uomo sembra sia possibile solo a condizione di una giusta misura tra buio e luce. In questa metà, in questa divisione, in questa alternanza la vita prolifera.

Nelle ultime settimane si desidera il contatto con lo spazio aperto, la visione del vuoto, dello spazio che si allarga intorno. Una specie di agorafobia al contrario, un’agorafilia. Quello che più ci sgomenta è infatti l’obbligo di non uscire, che ci fa pensare che non saremo più in grado di farlo, che forse uscendo ci terremo rasenti i muri, timorosi di perdere l’equilibrio, zoppicanti, incapaci di camminare.

Ma cos’è uscire, andare là, in quello spazio che contempliamo ogni giorno dalle nostre finestre? Cos’è là? È lo sconosciuto che diventa sempre più alieno col passare dei giorni, lo desideriamo e insieme lo temiamo. Come sarà essere lì? Come sarà? Non lo ricordiamo più. Ma accadrà e forse sarà come tornare ad andare in bici o a nuotare, il primo momento in cui l’instabilità delle due ruote incontra il vento o quando il corpo si abbandona come un annegato alla massa dell’acqua e subito il vento e il movimento sorreggono il nostro corpo che si arrampica sull’equilibrio fragile della bicicletta e nel mare l’acqua ci viene incontro, ci sostiene, si fa culla mentre le nostre braccia si tuffano dentro e fuori l’acqua, come se non avessero fatto altro per giorni e giorni. In quel momento tutto ciò che si era pensato prima, le domande su come sarebbe stato, le angosce, le paure saranno superate. Ci sarà solo l’andare. E scorderemo tutto, non ci saranno che fiochi ricordi e i ricordi diventeranno irreali, come le favole e infine saranno leggende. Solo i più bravi scriveranno i fatti sui libri di Storia, ma noi lì non ci siamo mai stati.

19/4/20 Quattro del mattino

Quattro del mattino

mi alzo

e guardo il mare.

L’ora della preghiera

e della tentazione.

Per me l’ora

dei pensieri che

si arruffano,

come onde

sul bagnasciuga.

Aspetto che l’alta

marea scenda,

poi torno a letto.

Affondo nel

piano regolare

della mia vita.

20/4/20 Un richiamo

Di te mi giungono

notizie,

il tempo passa

e noi invecchiamo.

O siamo un po’

più saggi.

Ti ho sempre

davanti

e la tua voce

è un richiamo.

Se mi leggi

sii felice.

Io lo sono

nel tuo amore.

21/4/20 Vita nell’apartheid da virus

Dentro al sicuro

Aveva riposto le scarpe sopra una mensola sul balcone, dentro un sacchetto di plastica, che poi avrebbe gettato via, per essere sicuro di non spargere il virus in giro. Usciva solo per fare la spesa, ogni dieci giorni, centellinava le cose in dispensa, pasta, zucchero, olio, frutta, verdura. E congelava. Aveva congelato chili di carne, di pesce, di verdura. La congelazione garantiva una conservazione lunga e sana. Glielo aveva insegnato sua mamma. Era un fisico, il suo lavoro consisteva nel garantire le procedure di qualità e sicurezza sulle linee di produzione della sua azienda. In questo campo ne sapeva una più del diavolo, se così si poteva dire, e quando lo diceva rideva compiaciuto. A lui non lo fregavano.

-Sapete cosa accade alla maggior parte delle persone? – chiedeva agli amici. -Fanno le cose pensando ad altro, non si accorgono dei pericoli insiti nelle azioni più banali. Per esempio uno sgabello in mezzo alla stanza costituisce un impedimento, se ti giri e non ricordi che l’avevi spostato rischi di caderci sopra e romperti una gamba.

Gli amici ridevano. Ora che c’era l’emergenza lui era uno dei pochissimi a rispettare tutte le regole di sicurezza. Per questo odiava uscire, per esempio quando doveva andare a fare la spesa. Già la sera prima stava male, il pensiero che qualcuno nel supermercato potesse urtarlo o andargli vicino non lo faceva dormire. La mascherina sarebbe stata sufficiente? E se avesse avuto qualche leakage? Quelle maledette fessure anche infinitesimali, ma che rischiano di diventare fatali? Per questo era importante che la mascherina venisse indossata in modo adeguato, senza interruzioni sulla superficie di contatto, vale a dire la sua faccia, così da ridurre al minimo il rischio che movimenti bruschi potessero spostarla inavvertitamente. La mascherina era di fatto così stretta che gli sembrava di soffocare, ma non ci poteva fare niente. Era il prezzo da pagare per la sicurezza. La mascherina che aveva trovato su Amazon, dopo giorni di ricerca, non era una normale mascherina chirurgica, ma simile a quelle antigas, da rifugio antiatomico. Del resto niente doveva essere lasciato al caso, bisognava agire in modo adeguato, corretto, veloce e risolutivo. Dunque mascherina da rifugio, guanti di lattice, rimozione dell’orologio e di ogni accessorio non indispensabile come portafoglio, portacarte di credito, cellulare. Scendeva le scale a piedi, perché l’ascensore poteva avere trattenuto particelle di respiro del condomino che l’aveva preceduto, e dunque costituiva un pericolo che si poteva evitare. Si immetteva nella coda dove altri clienti sostavano con le mascherine, le loro chirurgiche, a debita distanza. La spesa era un affare veloce che faceva come tuffandosi in apnea. Non appena era di nuovo a casa lasciava le scarpe sulla soglia, buttava l’unica carta di credito che aveva portato per pagare e la tessera del supermercato in un sacchetto, insieme alla cintura dei pantaloni e alle chiavi di casa. Poi metteva il sacchetto sul balcone in quarantena. Si toglieva quindi giacca, golf, camicia, pantaloni, calzini e mutande e li buttava nella lavatrice dove li avrebbe lavati col disinfettante adatto. Si rivestiva, indossava nuovi guanti di lattice, metteva i sacchi della spesa su giornali che poi avrebbe buttato, questo per non contaminare il pavimento, e passava ogni pacco con alcol o prodotto apposito deputato alla rimozione di virus e microbi. Disinfettava quindi anche i sacchetti di plastica della spesa ma, per ulteriore sicurezza, li depositava poi in quarantena sul balcone.

Tra spesa e le varie operazioni di disinfettazione impiegava circa tre ore. Infine, stremato, si buttava su una poltrona dove, lentamente, cominciava a sentire un lieve pizzicore alla gola, che dopo qualche ora, immancabilmente, si era trasformato in raffreddore con starnuti frequenti e naso colante.

-Come fai a rendere così reali le tue paure lo sai solo tu, -gli diceva la sorella al telefono.

-Ma sono reali.

-È tutta immaginazione, tu sei malato nella testa.

-Non puoi capire, non capisci niente di procedure di sicurezza.

E con questo chiudeva l’argomento. Dopo un aerosol a base di cortisone se ne andava a letto, non osando misurarsi l’eventuale febbre, ma certo di averla. Il giorno dopo si alzava titubante. Infilava un piede nel calzino di lana e nella pantofola, poi l’altro piede nel calzino e nella pantofola e piano si avviava verso il bagno. Dopo la doccia e un’abbondante colazione doveva ammettere che si sentiva meglio. Come sempre, tutto confermava, e di questo avrebbe discusso con la sorella la prossima volta che la sentiva, che era vitale seguire tutte le procedure di sicurezza. Ora avrebbe svolto il suo lavoro al pc, tanto di uscire si sarebbe parlato tra dieci giorni minimo. Poteva stare tranquillo. A casa era al riparo da ogni contagio. E se si affacciava alla finestra osservava i pochi passanti muniti di mascherina con un senso di commiserazione. Lui non aveva cani da far passeggiare, né altre incombenze improrogabili. Poverini quelli che erano fuori e rischiavano. E beato lui.

22/4/20 Oggetti soggetti a contagio

Lo smartphone può

essere un veicolo

di contagio?

Lo dicono.

Lo dicono?

E cos’altro dicono?

Dicono dei fiori

di pioppi carichi

di virus, di aria

leggera coltura

di virus,

di risa soffocate

ammorbate di virus,

di sogni scambiati

proliferanti virus.

Chiudiamoci

allora sempre

più, non usciamo

non respiriamo

non guardiamo i passanti

non ridiamo

non muoviamoci.

Restiamo fermi

immobili

imbalsamati.

In attesa

della vita.

21/4/20 Vita nell’apartheid da virus

Dentro al sicuro

Aveva riposto le scarpe sopra una mensola sul balcone, dentro un sacchetto di plastica, che poi avrebbe gettato via, per essere sicuro di non spargere il virus in giro. Usciva solo per fare la spesa, ogni dieci giorni, centellinava le cose in dispensa, pasta, zucchero, olio, frutta, verdura. E congelava. Aveva congelato chili di carne, di pesce, di verdura. La congelazione garantiva una conservazione lunga e sana. Glielo aveva insegnato sua mamma. Era un fisico, il suo lavoro consisteva nel garantire le procedure di qualità e sicurezza sulle linee di produzione della sua azienda. In questo campo ne sapeva una più del diavolo, se così si poteva dire, e quando lo diceva rideva compiaciuto. A lui non lo fregavano.

-Sapete cosa accade alla maggior parte delle persone? – chiedeva agli amici. -Fanno le cose pensando ad altro, non si accorgono dei pericoli insiti nelle azioni più banali. Per esempio uno sgabello in mezzo alla stanza costituisce un impedimento, se ti giri e non ricordi che l’avevi spostato rischi di caderci sopra e romperti una gamba.

Gli amici ridevano. Ora che c’era l’emergenza lui era uno dei pochissimi a rispettare tutte le regole di sicurezza. Per questo odiava uscire, per esempio quando doveva andare a fare la spesa. Già la sera prima stava male, il pensiero che qualcuno nel supermercato potesse urtarlo o andargli vicino non lo faceva dormire. La mascherina sarebbe stata sufficiente? E se avesse avuto qualche leakage? Quelle maledette fessure anche infinitesimali, ma che rischiano di diventare fatali? Per questo era importante che la mascherina venisse indossata in modo adeguato, senza interruzioni sulla superficie di contatto, vale a dire la sua faccia, così da ridurre al minimo il rischio che movimenti bruschi potessero spostarla inavvertitamente. La mascherina era di fatto così stretta che gli sembrava di soffocare, ma non ci poteva fare niente. Era il prezzo da pagare per la sicurezza. La mascherina che aveva trovato su Amazon, dopo giorni di ricerca, non era una normale mascherina chirurgica, ma simile a quelle antigas, da rifugio antiatomico. Del resto niente doveva essere lasciato al caso, bisognava agire in modo adeguato, corretto, veloce e risolutivo. Dunque mascherina da rifugio, guanti di lattice, rimozione dell’orologio e di ogni accessorio non indispensabile come portafoglio, portacarte di credito, cellulare. Scendeva le scale a piedi, perché l’ascensore poteva avere trattenuto particelle di respiro del condomino che l’aveva preceduto, e dunque costituiva un pericolo che si poteva evitare. Si immetteva nella coda dove altri clienti sostavano con le mascherine, le loro chirurgiche, a debita distanza. La spesa era un affare veloce che faceva come tuffandosi in apnea. Non appena era di nuovo a casa lasciava le scarpe sulla soglia, buttava l’unica carta di credito che aveva portato per pagare e la tessera del supermercato in un sacchetto, insieme alla cintura dei pantaloni e alle chiavi di casa. Poi metteva il sacchetto sul balcone in quarantena. Si toglieva quindi giacca, golf, camicia, pantaloni, calzini e mutande e li buttava nella lavatrice dove li avrebbe lavati col disinfettante adatto. Si rivestiva, indossava nuovi guanti di lattice, metteva i sacchi della spesa su giornali che poi avrebbe buttato, questo per non contaminare il pavimento, e passava ogni pacco con alcol o prodotto apposito deputato alla rimozione di virus e microbi. Disinfettava quindi anche i sacchetti di plastica della spesa ma, per ulteriore sicurezza, li depositava poi in quarantena sul balcone.

Tra spesa e le varie operazioni di disinfettazione impiegava circa tre ore. Infine, stremato, si buttava su una poltrona dove, lentamente, cominciava a sentire un lieve pizzicore alla gola, che dopo qualche ora, immancabilmente, si era trasformato in raffreddore con starnuti frequenti e naso colante.

-Come fai a rendere così reali le tue paure lo sai solo tu, -gli diceva la sorella al telefono.

-Ma sono reali.

-È tutta immaginazione, tu sei malato nella testa.

-Non puoi capire, non capisci niente di procedure di sicurezza.

E con questo chiudeva l’argomento. Dopo un aerosol a base di cortisone se ne andava a letto, non osando misurarsi l’eventuale febbre, ma certo di averla. Il giorno dopo si alzava titubante. Infilava un piede nel calzino di lana e nella pantofola, poi l’altro piede nel calzino e nella pantofola e piano si avviava verso il bagno. Dopo la doccia e un’abbondante colazione doveva ammettere che si sentiva meglio. Come sempre, tutto confermava, e di questo avrebbe discusso con la sorella la prossima volta che la sentiva, che era vitale seguire tutte le procedure di sicurezza. Ora avrebbe svolto il suo lavoro al pc, tanto di uscire si sarebbe parlato tra dieci giorni minimo. Poteva stare tranquillo. A casa era al riparo da ogni contagio. E se si affacciava alla finestra osservava i pochi passanti muniti di mascherina con un senso di commiserazione. Lui non aveva cani da far passeggiare, né altre incombenze improrogabili. Poverini quelli che erano fuori e rischiavano. E beato lui.

22/4/20 Oggetti soggetti a contagio
Lo smartphone può

essere un veicolo

di contagio?

Lo dicono.

Lo dicono?

E cos’altro dicono?

Dicono dei fiori

di pioppi carichi

di virus, di aria

leggera coltura

di virus,

di risa soffocate

ammorbate di virus,

di sogni scambiati

proliferanti virus.

Chiudiamoci

allora sempre

più, non usciamo

non respiriamo

non guardiamo i passanti

non ridiamo

non muoviamoci.

Restiamo fermi

immobili

imbalsamati.

In attesa

della vita.

49. Marco Sessi
Angelo Vendicatore

I. Primo giorno

Il concerto volge al termine. I quindicimila spettatori sono in trepida attesa, perché sanno che a breve raggiungeranno l’apoteosi, il momento clou, quell’attimo tanto desiderato che li farà esplodere in un urlo liberatorio. Il frontman attacca con le ultime strofe della canzone, la canzone, quella con la “C” maiuscola:

… chi se ne frega della gente…

e come un eco i presenti ripetono all’unisono: … chi se ne frega della gente…

… io sono il padrone del mondo…

e gli astanti come un grosso variopinto pappagallo: … io sono il padrone del mondo…

… è insignificante la mente….

e quindicimila voci: … è insignificante la mente….

… perché io comando il mondo!

e un boato fa tremare il palazzetto fin sotto le fondamenta: … perché io comando il mondo!

L’urlo della folla dura un attimo, poi tutto si accheta e il cantante “l’Angelo Vendicatore” come da copione non scritto, parte con l’assolo di chitarra che sentenzierà la fine del concerto. Sono note che annebbiano l’intelletto che prendendo per mano i fans, li condurrà a volteggiare in alto, lassù sulle più alte vette dello spirito alla ricerca dei propri demoni. Poi, con un repentino cambio di ritmo, li farà ripiombare in basso fin dentro se stessi alla ricerca del proprio nirvana. Sulle ultime note dell’assolo, dalla folla nasce il battito ritmato di trentamila mani clap clap… inframmezzato da un potente incitamento… volo volo.

Le due azioni aumentano d’intensità fine a mescolarsi in un uragano di suoni accompagnati da una baraonda di balli e spintoni. “l’Angelo Vendicatore” intuendone l’attimo, appoggia la chitarra, prende la rincorsa e poi con ampie falcate attraversa tutto il palco e con un balzo si libra nell’aria con le braccia aperte come fosse un’aquila, anzi come un angelo e con lo sguardo truce, da perfetto vendicatore, zittisce tutti.

Il volo plana in un piccolo recinto a ridosso del palco, dove alcuni fan indemoniati lo attendono con le braccia alzate. A pochi millimetri dal contatto i dieci si aprono a ventaglio e il cantante atterra su un morbido materasso. I supporters si avventano sul cantante e selvaggiamente iniziano a spogliarlo, mentre la platea grida… biglietto…. biglietto.

Le luci del palazzetto si spengono per un secondo, per poi riaccendersi più splendenti di prima. Del cantante restano i brandelli dei vestiti sul materasso e tre dei dieci fortunati saltano come dei forsennati, perché hanno un biglietto in mano.

La festa ha consumato l’ultimo atto. Il pubblico esce diligentemente dal palazzetto, mentre i tre possessori del biglietto, scortati dalle guardie del corpo, si avviano verso il backstage

L’accappatoio fatto su misura, sul quale spicca un angelo ricamato con un finissimo filo d’oro, avvolge come un confetto Mattia. L’adrenalina dovuta dalle oltre tre ore di concerto si sta prendendo il meritato riposo, lasciandogli addosso un lieve torpore. Osserva Marco al suo solito posto e pensa: “Sempre sul pezzo mai una sbavatura”. Mentre si strofina un occhio con voce impastata chiede con sarcasmo: «Chi ha vinto il terzo tempo?»

Il tuttofare apre un’agenda e con tono languido legge macchinalmente: «Due ragazze e un ragazzo. Una delle due è minorenne».

«Ti ho detto che i dettagli non m’interessano» lo rimprovera come farebbe una maestrina con il somaro di turno: «Se hanno assistito al concerto hanno tutti i permessi genitoriali di questo mondo». Da un cassetto del comodino prende una scatolina d’avorio e ingolla un paio di pastiglie: «… e non farmi l’elenco dei nomi, con codice fiscale e l’elenco delle vaccinazioni. I miei ammiratori sono tutti uguali, non voglio fare distinzione». È un ghigno sardonico quello che accompagna la battuta: «Se loro sono qui, sanno» pontifica. Da un frigo bar prende una bottiglia di vodka dozzinale e ne beve un lungo sorso: «Non togliermi il gusto e lasciami indovinare qual’è la minorenne. Il tuo compito è terminato ci vediamo domani mattina in albergo».

Con il capo chino Marco esce dalla stanza e fa un cenno alla guardia del corpo, che prontamente accompagna la prima fan davanti alla porta. Sarà seguita ad intervalli di dieci minuti dagli altri due.

La ragazza bionda entra nella stanza con in mano una biro e un piccolo diario che ha un puerile lucchetto ad una estremità. La gonna arriva a mala pena a metà ginocchia e le curve del corpo s’intravvedono sotto il maglioncino attillato. Titubante fa un passo e si guarda in giro.

«Di qua» la voce di Mattia la guida verso una piccola alcova, nascosta dietro un paravento. «Benvenuta!»

La ragazza resta basita dalla visione che le si para davanti agli occhi; una erezione da primato spunta tra i lembi dell’accappatoio. Il grosso pene sembra un lungo becco che spunta tra le due ali ricamate. La ragazza si mette la mano davanti alla bocca per mascherare lo stupore, poi lascia cadere sulla moquette biro e diario e si avventa sull’uomo.

La seconda ragazza entra nella stanza e osserva il separé formato da tre telai in legno ricoperti da una fine stoffa bianca sulla quale spiccano dei disegni, probabilmente dipinti a mano, raffiguranti posizioni del Kamasutra. Un gemito attira la sua attenzione ed incuriosita si alza sulle punte per poter osservare la fonte del gridolino. Vedendo i due in un amplesso sfrenato, sul suo viso si allarga un sorriso che comunica libidine. Senza pensarci due volte, sfila maglione e pantaloni e a passo di carica si unisce al gioco erotico. Dall’alto del suo metro e ottantacinque, scosta la ragazza bionda rubandogli il cazzo dell’uomo.

Sembrano passati pochi attimi, ma sono già trascorsi dieci minuti, quando Mattia sente una fitta al culo e urla: «Porca puttana mi ero dimenticato che c’era anche un maschio!»

Una lancinante lama di luce trafigge le palpebre di Mattia, che imprecando, si copre la testa con un soffice cuscino e gracchia: «Che ore sono?». È una domanda che gli serve solo per fare ripartire i neuroni, perché sa perfettamente che sono appena scoccate le 11,30.

Marco con tono neutrale risponde macchinalmente: «Le 11,30. L’acqua della vasca da bagno raggiungerà il 39° tra cinque minuti. Gli appuntamenti di oggi sono: alle 14,30 intervista per la rivista Rolling Star. Alle 18,00 dobbiamo assolutamente essere in macchina perché alle 21,30 inizierà il concerto al pala Panini di Modena».

Da sotto il cuscino si materializza un suono rauco che assomiglia alla voce di Mattia: «Non vuoi sapere se ho indovinato?». Lancia il cuscino verso Marco e con fatica si mette a sedere: «Tu sai già la risposta e so che non te ne frega un cazzo, ma sto perdendo il fiuto e questo non mi piace. Qual’è lo score?»

«Solamente 3 su 5».

«Fammi pensare». Mattia si massaggia le meningi con gli indici e mentalmente ripercorre la nottata tutto sesso e pasticche allungate con torrenti di vodka. «La minorenne era… era» cerca di tenere in piedi una falsa suspense: «Era la stangona. Mi ha scopato come se non ci fosse un

domani, mentre la bionda mi ha fatto di quei lavori di bocca… uuuu» mugola arrapato: «Troppa maestria per una minorenne».

«4 su 5» è l’algido aggiornamento del punteggio.

«Evvaiiii!» e si alza di scatto dal letto tutto felice. Un decimo di secondo e il sorriso si tramuta in una smorfia di dolore e chinandosi su se stesso, si stringe la parte bassa dello stomaco. Mattia inizia a dondolare paurosamente ed allunga le mani alla ricerca di un appiglio che non c’è. Perde l’equilibro e accompagnato da un tonfo sordo si accascia sulla pedana iniziando a vomitare copiosamente.

«Che puzza merdosa». Mattia striscia in mezzo al vomito, si aggrappa ad una sedia e si alza come fosse un vecchio artritico di 150 anni. Profonde occhiaie nere scolpiscono il suo viso e claudicante, passettino dopo passettino, si avvicina a Marco che gira il capo per non annusare la pestilenza.

«E’ inutile che fai lo schizzinoso, dovresti esserci abituato». Si pulisce il mento con la mano e l’asciuga sul maglione di Marco.

«Non mi abituo a vederti suicidare lentamente».

«Non sopporto le paternali da te». Con un gesto autoritario allunga il braccio ed apre la mano, come se stesse facendo l’elemosina.

«Avevamo detto due alla settimana. Questa settimana sarebbe la quarta di fila». Nello sguardo di Marco si nota una punta di apprensione.

«Dammi quello stramaledetto confetto. Ne ho bisogno». Riallunga la mano. A Marco non resta che cedere di fronte a tale disprezzo verso la vita.

«Grazie».

È trascorsa solo mezz’ora e Mattia rinvigorito dalla pastiglia è tutto un fascio di nervi che vorrebbero squarciare il corpo e librarsi nell’aria. «Bene Marco, andiamo dalla mia amica Katia a fare questa fottutissima intervista».

«Non ci sarà Katia. Oggi sarai al cospetto del grande capo che si è scomodato e porterà il suo culo teutonico in Italia».

«Marco sei anche spiritoso e come si chiama questo grande capo supremo?»

«Gertrude Messerschmitt».

«Sarà una vecchia racchia spocchiosa e con la puzza sotto il naso. Dai andiamo nelle fauci della stampa!»

L’attesa per Mattia è snervante. Non riesce a stare fermo a causa della pillola: «È insopportabile aspettare una donna che si sta facendo il bidè». Nervosamente apre e chiede le mani.

«Sono trascorsi cinque minuti da quando siamo entrati in questo ufficio e dodici da quando abbiamo varcato la porta del palazzo», lo rintuzza Marco. Mattia alza le braccia in segno di resa: «Non me ne frega un cazzo della tua precisione. Se non faccio dieci chilometri di corsa mi scoppierà il cuore».

Finalmente si apre una porta, dalla quale sbirciando in tralice si possono intravedere dei coloratissimi sanitari; sicuramente opere di altissimo valore.

Mattia allarga le braccia come voler dire: “Te l’avevo detto”, mentre Marco si copre la bocca con l’agenda, ma è tradito dagli occhi che brillano ilari.

«Scusatemi l’attesa non perderemo ulteriore tempo». Stringe la mano ai due, che ammirandola, hanno perso il senno. La donna prima di sedersi si alza la gonna fin sopra le ginocchia lasciando scoperte due gambe mozzafiato. «Scusatemi ma la gonna è talmente stretta che non riesco a sedermi». Una volta comoda sulla poltrona, si sfila gli occhiali e spuntano due occhi verde acqua nei quali ci si potrebbe nuotare per l’eternità. Prende dalla borsetta un registratore tascabile: «Bene, io sono pronta» ed accompagna l’affermazione accavallando le gambe mostrando, da sotto il piano della scrivania trasparente, una coscia statuaria.

«Io di solito preferisco il microfono».

Non capendo la battuta, Marco si gira verso Mattia il quale ha in mano il pene duro come un pestello di alabastro e alzandosi, gira intorno alla scrivania. La donna avvezza ad ogni stravaganza non batte ciglio e risponde: «Io preferisco suonare il flauto, ma quello dolce non mi è mai piaciuto».

Marco si alza e fa il gesto di uscire dalla stanza, ma Mattia gli fa segno di no con l’indice.

«Spero che il passaggio dalla registrazione alla carta stampata vengano tolti i mugolii di piacere e l’urlo finale». Mattia scattante come una molla, non attende la risposta e chiede: «Adesso dove siamo diretti?»

Prima di rispondere Marco lo mette al corrente della telefonata ricevuta nella mattinata: «Ha chiamato Carla, tua moglie e …».

«Sei precisino solo quando pare a te… appena puoi mi fai girare le palle. Carla è la mia ex moglie e le passo fior fiori di alimenti. Non voglio sapere nulla. Passiamo ad altro».

«Veramente è molto imp…».

«Non me ne frega una minchia». Mattia lo interrompe e accelera il passo verso la macchina.

Marco scuote la testa e mentalmente si appunta che riaffronterà il problema appena possibile perché il tempo stringe.

II. Secondo giorno

Sono le undici e venti quando Marco entra nella stanza d’albergo. Con passo felpato attraversa la stanza e si dirige verso il bagno, quando il silenzio viene rotto da un sommesso gemito. Senza pensarci due volte accende la luce e nota che il letto è vuoto. Gira intorno al letto matrimoniale e vede Mattia supino, che rantola in mezzo ad una pozza maleodorante formata da vomito, piscio e feci. Si china sul corpo e lo issa cercando di metterlo seduto sul pavimento in modo che possa respirare più liberamente.

«Adesso chiamo l’ambulanza, dov’è finito il telefonino… hai ingoiato anche quello?» Lo schiaffeggia sulla faccia sperando di rinvenirlo.

«Non farlo mai più» è il ringraziamento che esce ruvido dalla bocca di Mattia.

«Almeno mi sono sfogato» è il laconico commenti di Marco.

«Non mi riferivo allo schiaffo» le parole fluiscono sillaba dopo sillaba come se arrivassero dal centro della galassia. Mattia dondola in modo scomposto la testa, come se volesse staccarsi dal resto del corpo. Un aspro sospiro fa sussultare il suo petto che inizia a tossire in modo convulso e dalla bocca escono spruzzi di sangue. Finalmente Marco trova il telefonino e digita il 118. Una manata fa volare lontano il cellulare: «Non chiamerai nessuno» è il categorico ordine di Mattia. Con affanno cerca di trovare un regolare respiro e con uno sforzo immane sbatte ripetutamente le palpebre: «Nessuno deve sapere quello che sta succedendo in questa stanza», mentre il suo petto si alza convulsamente: «La mia carriera sarebbe rovinata e non lo potrei sopportare, è l’unica cosa che mi fa sentire vivo». Inclina scompostamente la testa sulla spalla sinistra, mentre il muco che fuoriesce dal naso riga la scarna guancia: «Mi sento… mi sento imprigionato in questa mia carcassa…». Un altro colpo di tosse gli tronca il fiato: «… è come se il mondo che mi circonda, non riesco a spiegarmi… mi sento un marziano su questa terra… io sono

molto più avanti… mi sento… lo sento qui nel mio cuore. Vi lascerò un segno indelebile». Sono parole confuse e senza senso.

«Se continui a buttarti via non avrai comunque una lunga carriera» taglia corto un impotente Marco.

«Mi basta entrare nella storia dalla porta di servizio». Occhiaie violacee spiccano sullo spettrale viso di Mattia, che scavando nel più profondo dei suoi incubi sentenzia: «Farò tutto quello che serve per arrivare in cima: nulla e nessuno mi fermerà: che sia morale o immorale». Un altra scarica di tosse lo scuote ed inizia a tremare. Sono venti secondi tremendi e Marco in cuor suo pensa già a come organizzare il funerale. Poi all’improvviso la tosse si calma e il respiro si assesta su un ritmo quasi regolare: «Dai aiutami ad alzarmi, voglio andare in bagno». Marco lo prende per una ascella e puntando i piedi sulle gambe del letto cerca di trovare una posizione d’equilibrio ed inizia a tirarlo su. Finalmente in piedi. Mattia inizia ad oscillare come un papavero spazzato dal maestrale: «Ferma la stanza. Gira tutto… sorreggimi». Marco si irrigidisce e gli fa da stampella e lo incita: «Dai, un passo dietro l’altro ed arriveremo in bagno».

«È una parola, ho perso anche l’orientamento» ed allunga le braccia alla ricerca del muro. La gamba sinistra si dimentica di seguire la destra e scivolando sul vomito, cade pesantemente sul pavimento trascinando Marco in mezzo al liquido organico.

«Cazzo che botta al culo, diventerà un colabrodo». Mattia trova la forza di sorridere alla propria battuta, mentre Marco cerca di pulirsi dalla materia appiccicosa: «Ora capisco cosa significa fare una vita di merda».

Marco si rialza e prendendo Mattia per le braccia lo issa e lo appoggia al muro: «Non muoverti».

«Se tengo chiuso gli occhi, penso di farcela. Tu cosa fai adesso?» chiede mentre sente scorrere le ante del box doccia.

«Una doccia gelida. Ti aiuterò, ma il mio servizio extra necessita di un premio».

«Concesso» accetta senza fiatare per il fatto che non può fare altro.

«Una volta ripulito e messo a nuovo verrai con me in un posto».

«Se la memoria non m’inganna oggi abbiamo l’appuntamento con il manager discografico… che mal di testa… porca puttana» e con movimenti lentissimi si sfila la maglietta.

«Ci andremo dopo aver parlato con il manager» e lo ficca sotto l’acqua gelida senza preavviso.

 

«Dovresti provare questi miracolosi confetti, ti infondono in tutto il corpo una carica stre-pi-to-sa». Mattia rimesso a nuovo è scalpitante in vista dell’incontro che potrebbe dare una sterzata alla carriera: «Chiuso l’accordo andremo a festeggiare e poi questa sera….» inspira a pieni polmoni come se fosse la prima volta: «… devo finire un lavoretto con “pel di carota”. Ieri sera il terzo tempo è stato troppo corto e non me lo sono goduto appieno o forse ho mescolato troppe schifezze».

«Ti ricordo che dopo l’incontro con il manager sarai a mia disposizione». L’occhiataccia di Marco non ammette repliche: «Non intendo sentire scuse fanciullesche e brontolii da comare. Andremo dove dirò io senza tentennamenti. Me lo devi perché lo hai promesso».

«Agli ordini mio Gruppenführer».

«Un’ultima cosa. Ricordati che dovrai esibirti anche domani sera. Occhio a non scivolare su una pelle di carota». Marco, mentre esce, sogghigna.

Dischi d’oro, di platino e innumerevoli poster raffiguranti cantanti di ieri e di oggi tappezzano la sala d’attesa. Marco scuote la testa e si rituffa nei propri pensieri.

«Cosa ti turba?» Mattia attento e sorpreso s’incuriosisce al cenno di diniego del segretario.

«Vedi quel disco d’oro?» Indica con l’indice una cornice alla loro destra.

«Sì, è per quello che sono qui. Cioè è dove vorrei arrivare».

«Che differenza c’è con quello alla nostra sinistra». Lo indica con un cenno del capo.

Mattia alza le spalle, rimira i due dischi d’oro e sceglie la risposta più ovvia: «A parte la cornice e i cantanti sono due dischi d’oro identici».

«Perfetto. Io prendo i diritti d’autore di quello alla nostra sinistra».

Una espressione da papera rende ridicolo il viso di Mattia che osserva perplesso prima i due dischi poi Marco, il quale abbozza un sorriso increspando leggermente le labbra: «Quello che ho scelto è stato assegnato in Francia nel 1998 perché superò la soglia di 250.000 copie. Quell’altro è stato assegnato nel 2006 perché superò quota 100.000. Sai che cosa significa?»

«Significa che le vendite sono diminuite» risponde sicuro Mattia, visibilmente soddisfatto.

«Io non sarei così contento» lo gela Marco: «Se vuoi vivere di musica dovrai fare un prodotto che si venda tantissimo, non importa se di alta qualità, ma devi vendere tanto… forse troppo per poter campare con i soli diritti d’autore».

Una porta si apre ed appaiono un paio di gambe mozzafiato, intrigante piedistallo che sorregge un sedere generoso ed un seno prosperoso. La natura non ha completato il lavoro in quanto la voce che esce dal perfetto ovale del viso assomiglia ad un gessetto che stride sulla lavagna: «Il signor J.P. De Martia è libero».

I due si alzano ma vengono prontamente stoppati da “gessetto”: «Solo il cantante».

Un simil pachiderma si crogiola su una poltrona fatta su misura per sopportare la sua mole. Allunga una manona sudaticcia, sulla quale spiccano un paio di anelli pacchiani.

«Finalmente conosco “l‘Angelo Vendicatore”… mi hanno parlato benissimo di lei». La voce, un perfetto falsetto ottenuto tramite castrazione, ha il potere di mettere a disagio Mattia.

«Piacere… piacere mio». Stringe la mano dell’interlocutore e quando la ritrae l’asciuga sui pantaloni.

«Non ho potuto assistere alle sue performance» continua con tono lascivo: «ma i miei cacciatori di talenti hanno fatto una serie di rapporti minuziosi, direi capillari, e mi hanno convinto che era giunto il momento d’incontrarla». Si asciuga con il dorso della mano un filo di bava che pascolava sul mento: «È piaciuta la sua vocazione nel coinvolgere la gente e mi hanno sussurrato che ha il potere di estirpare sensazioni nascoste ai suoi supporters, non solo con canzoni e maestria alla chitarra». L’allusione al terzo tempo resta sospesa a mezz’aria e Mattia non comprende la deriva che sta prendendo il discorso. Decide di restare sulla difensiva: «I complimenti fanno sempre piacere».

«Nella mia scuderia» con l’avambraccio spazia a trecentosessanta gradi lungo le pareti dell’ufficio, soffermandosi solo su alcune foto raffiguranti visi famosi: «Manca un giovane talentuoso, è da tempo che non ne metto

uno sotto contratto… ops, mi scusi, che cercherò di mettere sotto contratto».

«Mi sento lusingato dalle sue parole». Sono poche parole, sempre difensive, quelle di Mattia.

«Tutte prime donne con la puzza sotto il naso. Abbiamo bisogno di giovani talenti con i quali si potrebbe intavolare un discorso a lungo termine».

Mattia resta impassibile e decide di aprire il banco: «Sono qui per trovare un accordo. Sono tutt’orecchi».

«Vedo che va diritto al sodo». Usando il palmo della mano si pulisce il naso da una goccia che era in bilico: «Io posso mettere la mia organizzazione al suo servizio, il come, il dove e altre cazzate le potremo definire insieme ai mie avvocati. Lei riceverà il cinque per cento sulle vendite e il venti sui diritti d’immagine».

Una camera anecoica sarebbe più rumorosa. Mattia resta a bocca aperta e cerca di assorbire la botta. Davanti ai suoi occhi si dissolvono sogni di gloria, titoli cubitali sui giornali e le lunghe fila di donne vogliose si tramutano in un’accozzaglia di megere. Senza aprire bocca si alza, muove alcuni passi pestandosi i piedi, come se fosse ubriaco e fa per uscire dall’ufficio.

«Esiste un piano B». La vocina oltre ad essere molesta ha il potere, però, di riaccendere l’attenzione di Mattia che voltandosi guarda diritto negli occhi del ciccione.

J.P. De Martia prontamente sfila una bustina di polverina bianca dal taschino del gilet: «Questa è di quella buona» e scalciando sul pavimento fa muovere la poltrona, allontanandola dalla scrivania.

«Il cinquanta per cento sulle vendite e il cento sui diritti d’immagine». Il grassone tira giù la cerniera dei pantaloni e dall’anfratto spunta un pene floscio ed inerme: «Potremmo essere soci».

Mattia senza tentennamenti si avvicina al grassone.

«Finalmente!» Marco affianca Mattia che si dirige con passo svelto verso l’aria aperta: «Sei più scattante di quando sei impegnato nel terzo tempo». L’occhiataccia di Mattia blocca sul nascere ulteriori commenti ai quali Marco stava dando vita. I due s’incamminano velocemente sotto i portici rincorsi dall’eco dei loro passi. Marco non sopportando lo strano mutismo

del cantante si fa forza ed accenna: «Tutto bene?»

«Meglio del previsto» risponde con tono glaciale: «Cinquanta sulle vendite e cento sui diritti d’immagine».

Un fischio complimentoso accompagna la bella notizia: «Ti sei venduto l’anima?»

«Sì». Risponde meccanicamente e per sviare i propri cupi pensieri chiede: «Dove siamo diretti?»

«Ieri ha telefonato Carla, la tua ex moglie. Vostra figlia Martina è ricoverata in ospedale. È molto grave e Carla ha chiesto di passare urgentemente, prima che sia troppo tardi». Ha sputato le informazioni tutto d’un fiato per non dare tempo a Mattia di zittirlo

«Cazzo. Proprio in questo momento una grana! Ma ha bisogno proprio di me?» Dalla tasca prende una scatolina, scarta un confetto e lo butta in gola: «Mi serve un aiutino per affrontare questo ulteriore casino. Andiamo in ospedale, diamo una pacca a Martina, parlo con il primario e Carla non la voglio vedere!»

«Come vuoi. La chiamo al cellulare e le spiego la situazione».

Mattia ha il motore su di giri. La pastiglia sta sprigionando tutto il potenziale ed impedisce all’uomo di star fermo: «Devo trovare al più presto una valvola di sfogo il cuore bussa con insistenza al cervello». Occhi lucidi osservano la maestosità dell’edificio e i due muovendosi all’unisono si dirigono verso la portineria. Marco scambia un paio di battute con l’impiegata e girandosi resta basito, perché vede Mattia inseguire una infermiera dentro al bagno. Cerca di richiamarlo, ma oramai la porta ha inghiottito i due. Affranto si lascia cadere su una poltrona ed in attesa del suo ritorno inizia a leggere una rivista.

Sono trascorsi dieci minuti, quando dal bagno esce l’infermiera che si liscia la gonna, si ravviva i capelli di un biondo ossigenato e con la soddisfazione dipinta in volto si avvia verso le sue mansioni. Pochi attimi e Mattia sbuca dalla porta mentre tira su la cerniera dei pantaloni. Vede Marco e lancia un amichevole saluto. Si avvicina e finalmente sereno riannoda il discorso: «Una scopata e la tensione resta un lontano ricordo» si liscia le labbra con l’indice e il pollice della mano sinistra. Notando l’espressione seria di Marco, abbassa i toni gioviali e cerca un dignitoso contegno: «Ti hanno detto dov’è ricoverata Martina?»

«Al reparto di oncologia. Non potremo entrare direttamente nella stanza,

ma la vedremo attraverso una vetrata».

«Lo sa chi sono?» chiede con tono dimesso.

«No. Per lei tu non esisti e se venisse a sapere che suo padre è vivo e vegeto non farebbe che peggiorare il suo stato di salute… così mi ha detto Carla al telefono».

«È una serpe. Da quando ci siamo separati non mi ha mai permesso di frequentarla».

«Ed è un bene» lo interrompe Marco: «Che esempio saresti agli occhi di una bambina di cinque anni? Nei momenti di pianto le avresti dato un confettino».

«Come ti permetti di parlare in questo modo!». E fa il gesto di alzare la mano.

«Sei un vigliacco. Ti fa male sentire la verità. Che cazzo di padre sei!» Quasi urla l’accusa: «Hai mollato tutto quando Martina aveva solo sei mesi… sei mesi, per dio! Non hai neanche provato l’ebrezza di essere chiamato papà».

«Per quale motivo ti ho dato retta? Mi sono già pentito di essere qui!»

«Sei suo padre, almeno donale uno sguardo. Glielo devi!» Lo strattona per la giacca cercando di scuoterlo: «Entriamo nell’anticamera e tra cinque minuti andremo dal primario». Dalla vetrata osservano una bambina magrissima che ha una cannula che esce da una narice. Una fioca luce rende ancora più latteo lo scarno viso. La piccola quasi scompare nel letto ad una piazza e stringe tra le braccia un piccolo orsacchiotto peloso. La testa della ragazzina è liscia come una palla da biliardo mentre gli occhi di un verde intenso sono concentrati verso un cartone animato che si muove goffamente dentro alla televisione. Una infermiera, quella della scopata precedente, sta facendo compagnia a Martina. Mattia riconoscendola diventa rosso in volto, si muove scompostamente e fa per uscire. Marco lo blocca con durezza: «Almeno cinque minuti».

La ragazzina notando il movimento che c’è dietro la finestra, volge la sua attenzione verso i due sconosciuti e con naturalezza dona a loro un candido sorriso che ha il potere di illuminare la stanza e sciogliere la tensione.

III. Terzo giorno.

Le mani accarezzano cosce finemente cesellate e con sapienti movimenti si avvicinano all’inguine. Lo sguardo cade sul pube incorniciato in un boschetto rosso fuoco e gli occhi lampeggiano lussuriosi. Sentendo avvicinarsi il momento topico, la ragazza inarca la schiena aprendo l’umido antro. L’uomo nel pieno delle sue forze si adagia sulla donna ed inizia a baciarla in modo forsennato su tutto il corpo. Lei in trepida attesa al fine di aumentare la libido gli sussurra nell’orecchio: «Chiamami con il mio nome di battesimo… mi fa eccitare… mi riporta alla mia prima e stupenda scopata…».

L’uomo si scosta dalla bocca una ciocca rosso vermiglio e con voce rotta dall’orgasmo che sta sopraggiungendo: «Non… non me lo hai detto…».

«Martina…». La ragazza sotto l’effetto di un maleficio si tramuta in una glabra statua di gesso che toccandola si disintegra in milioni di pezzettini…

Mattia si alza di scatto dal letto e guarda la radiosveglia che lampeggia sulle 11,15. Madido di sudore scende dal letto e con passettini lenti si avvicina alla finestra e apre gli scuri. Viene baciato da un tiepido sole che ha il potere di rallentare il battito del cuore e dare un po di calore alle gelide membra. Apre la finestra e chiude gli occhi cercando di assaporare il momento, iniziando ad inalare l’aria con ampi e regolari respiri. Sente aprirsi la porta della stanza d’albergo, ma non si volta, sa perfettamente che è il fido Marco, il quale vedendo la stanza inondata dalla luce non crede ai propri occhi e si accerta di non aver sbagliato appartamento.

Senza proferire verbo si affianca a Mattia e lascia spaziare lo sguardo lungo i filari della vigna abilmente curati da un sapiente contadino.

Sono attimi che dovrebbero durare in eterno per il fatto che i due uomini si sentono finalmente in sintonia con se stessi e anche i loro desideri, per una volta, sono simili.

«È stata così brava pel di carota

«Molto brava. Abbiamo mangiato una pizza e parlato di cinema fino a notte fonda. Poi, come un bravo ragazzo, l’ho accompagnata a casa e le

ho dato un pudico bacio sulla fronte».

«Non ci credo».

«Pensala come vuoi, non sono mai stato così sobrio dagli anni del liceo».

«In effetti, noto che ti reggi in piedi senza stampelle».

«Stronzo. Voglio riparlare con il primario».

«Dopo quello che gli hai detto ieri! Credo che se varcherai la soglia dell’ospedale ti internerà».

«Solo perché gli ho chiesto quanto costava al chilo il midollo osseo? O perché non mi ha indicato in quale super mercato lo vendessero?» Sorride, perché rivede lo stupore che inondò il viso del primario. Una interpretazione da oscar. «E hai messo il dito nella piaga sulla loro incapacità nel trovare un donatore compatibile».

«Ero su di giri».

«Ti sei giocato l’ultima carta. Non hai modo di rimediare».

«Lui non potrà dire di no a centomila motivi. Sarà costretto ad ascoltarmi».

Marco apre gli occhi e gira il capo verso Mattia e nota che ha i lineamenti del viso rilassati; serio nella sua innaturale compostezza: «Cosa ti è successo? Se gli doni centomila euro resterai al verde». Ritorna con lo sguardo verso l’orizzonte e richiude gli occhi. Sente che una mano lo tocca sul costato, poi a tentoni si sposta leggermente fino a quando non arriva a stringere la sua: «Quello sguardo sincero, come solo può essere quello di una bambina, mi ha scosso. Martina, seppur non sapendo chi fossimo, ci ha donato un innocente sorriso senza chiedere nulla in cambio. Devo fare qualcosa per lei».

«Anch’io sono rimasto impressionato». Stringe con forza la mano di Mattia: «Ci proverò. Telefono è gli chiedo un appuntamento per oggi pomeriggio».

«Grazie. Io passo dall’agente, devo sistemare una cosa in sospeso. Ci vediamo questa sera al concerto. Portami buone notizie; stordiscilo con la

tua proverbiale parlantina, ma devi ottenere un incontro. Domani».

«Ce la metterò tutta». Molla la presa e con la mano sinistra si asciuga una lacrima.

Mattia osserva con occhi avidi i dischi d’oro e di platino che ostentano brillantezza sulla parete. Si lascia attraversare da un lungo sospiro in attesa dell’incontro decisivo con J.P. De Martia e non osa pensare a quali altra prove umilianti dovrà sopportare per arrivare là appeso al muro.

Viene riportato alla realtà da “gessetto” che è comparsa dal nulla come una nuova tassa e lo accompagna fin dentro all’ufficio. Il pachiderma è appollaiato su un divano che a malapena ne sopporta la stazza. Con un gesto del dito congeda la segretaria e sorride affabilmente al suo nuovo pupillo. Dalla tasca interna prende un foglio di carta e lo allunga al cantante: «Come vedi», l’agente è passato al più amichevole “tu”: «Io le promesse le mantengo. Nero su bianco. Se vuoi apporre la tua firma sotto la mia».

Mattia si tasta le tasche e non trovando nessuna biro la chiede al ciccione che prontamente gli allunga la sua e nel passaggio di mano, stringe in modo lascivo quella del cantante. Mattia senza ripensamenti appone il suo autografo sul documento.

J.P. De Martia emette un suono gutturale che dovrebbe assomigliare ad una risata e velocemente come un morso del Cobra Reale fa apparire una bustina con della polverina bianca e si apre la patta dei pantaloni.

Mattia con le spalle al muro non ha un attimo di esitazione: apre la bustina e versa il contenuto sul flaccido pene di un esterrefatto J.P. De Martia e, con gesti convulsi straccia il contratto, infilando i coriandoli nei mutandoni del grosso uomo. Con il ringhio di un animale ferito, Mattia aggredisce verbalmente il suo ex agente: «Il tuo contratto te lo puoi infilare su per il culo e con la vocina da pervertito che ti ritrovi puoi fare dei gargarismi con la tua bava al sapore di cocaina».

«Tu… tu come osi…» J.P. De Martia ha gli occhi fuori dalle orbite ed ansima in modo animalesco: «La tua carriera è finita! Nessuno oserà chiamarti per una serata, neanche l’ospizio di Santa Maria Mediatrice. Fuori!» E con un gesto del braccio lo caccia, ma il movimento frenetico gli fa perdere l’equilibrio e la sua massa gelatinosa si spiaccica sul pavimento con un tonfo melmoso.

«Fottiti!» È l’ultima parola di Mattia che sbatte la porta e da una manata sul culo di “gessetto”, la quale sentendo il trambusto, si apprestava ad entrare in ufficio.

In strada, all’aria aperta sente vibrare il telefonino e la rassicurante voce di Marco lo aggiorna: «Abbiamo l’appuntamento per domani. Alle 08,15 nel suo studio presso l’ospedale. Ha detto che avrà una mazza da baseball sotto la scrivania. Se andrai ancora in escandescenza non avrà remore ad usarla».

«Grandioso Marco. Come farei senza di te!». Esprime tutta la sua contentezza con un raggiante sorriso: «Adesso il concerto, poi ti aggiornerò sulla mia contro-proposta fatta all’agente».

L’assolo di chitarra sentenzia la fine del concerto. Le struggenti note frantumano le residue barriere che fanno da ultimo baluardo all’annientamento dell’individualità dei presenti. Desideri, passioni e illusioni dei sensi vengono presi per mano ed innalzati allo stato perfetto di pace e felicità, poi il brusco repentino cambio di ritmo, li fa ripiombare nelle giornaliere paure. Sulle ultime note dell’assolo, dalla folla nasce il battito ritmato di dieci mila mani clap clap… inframmezzato da un potente incitamento… volo volo. l’Angelo Vendicatore” intuendone l’attimo, appoggia la chitarra, prende la rincorsa e poi con ampie falcate attraversa tutto il palco e… di botto si ferma sul bordo, fa un inchino e scompare nel backstage.

Gli astanti dopo un attimo di smarrimento urlano tutto il loro apprezzamento al cambio di programma, elevando il concerto come il raggiungimento dell’assoluta perfezione; il punto di non ritorno.

IV. Quarto giorno.

«Come pensi di poter aiutare Martina?» Chiede incuriosito Marco.

«Voglio capire la reale gravità della malattia di mia figlia».

«Mi hai sorpreso. Il tuo comportamento di ieri mi ha spiazzato. Sei quasi

diventato una persona normale, anche se la tua carriera, almeno in Italia, è finita».

«Ho ancora impresso il sorriso di Martina. Da dove nasce tanta dolcezza anche di fronte ad un palese e profondo stato di malessere?» si domanda risoluto.

Attonito Marco volge il capo verso il cantante: «Non riesco a capire quale dei due Mattia sia la brutta copia».

«Io sono entrambi».

La porta dello studio aprendosi tronca la discussione. Compare l’alta figura di un trentenne vestito da un camice bianco e lancia uno sguardo gelido verso i due uomini seduti.

«Potete entrare». La voce baritonale non ammette repliche.

Mentre i due uomini si siedono è Mattia che mette in chiaro le proprie intenzioni: «Sono tranquillo. Ho chiesto con insistenza questo ulteriore incontro perché voglio essere messo al corrente della reale situazione di Martina». Anche la sua voce non ha subito inflessioni lasciando nell’aria un senso di positività.

«Martina è affetta da leucemia. L’unica soluzione sarebbe, anzi è il trapianto del midollo osseo. Ieri non mi ha lasciato continuare. Il trapianto può essere fatto con cellule staminali prelevate da un familiare, da un non consanguineo o dal paziente stesso. Purtroppo la malattia è stata riconosciuta ad uno stadio troppo avanzato e ci è precluso l’utilizzo del midollo di Martina. Fino ad oggi non abbiamo trovato un donatore compatibile; esiste una probabilità su centomila. La madre purtroppo non si trova nella situazione ottimale per donare: è affetta da depressione cronica, forse lei ne sa qualcosa» il primario palesa risentimento, ma non ha potuto fare a meno di sferrare la stilettata a Mattia: «La malattia della sua ex moglie ha avuto due conseguenze devastanti: le ha impedito di attivarsi velocemente sullo stato di salute della bambina e l’ha portata ad un peso di 46,6 chili. Ben al di sotto dello standard ottimale per sottoporsi ad un intervento. Alla bambina resta una settimana, forse dieci giorni di speranza». Si sfila gli occhiali e affranto si massaggia le

sopracciglia: «Vede non riesco a mettere in fila due parole semplici semplici “sua figlia”» e utilizzando gli occhiali come un puntatore laser conclude la filippica: «La sua figura è sfocata quanto la mia vista».

«Sono conscio delle mie responsabilità, ed ho chiesto questo incontro perché penso di essere utile, oltre a centomila euro».

Il primario stira le labbra dando vita ad un finto sorriso e prende da un cassetto della scrivania un libro ed inizia a leggere: «I principali motivi per cui non si può donare il midollo osseo, per il fatto che si metterebbe a rischio la salute dei riceventi la donazione, sono coloro che hanno comportamenti sessuali ad alto rischio di trasmissione di malattie infettive o sono affetti da infezioni da virus HIV/AIDS e/o da epatite o sono tossicodipendenti o fanno uso di sostanze stupefacenti». Chiude con impeto il libretto: «Lei cosa mi dice al riguardo?»

Per nulla intimorito Mattia non si scompone: «Sì lo so».

Marco perdendo l’appoggio sui braccioli a momenti cade dalla poltrona e completamente esterrefatto alza le mani in segno di resa.

«Mi sono informato. Ma cerchiamo di usare il buon senso: tra dieci giorni Martina morirà. Io credo, ma questo lo potranno dire solo gli esami del sangue, di non essere infetto da AIDS ed epatite. Escludendo queste ipotesi, il resto potrebbe essere gestito dalla vostra professionalità e comunque concederemmo il cinquanta, il trenta, il quaranta percento, faccia lei, di probabilità a mia figlia di sfangarla».

Marco si sente in dovere d’intervenire: «Da ignorante in materia è l’idea più sensata che tu hai sfornato negli ultimi cinque anni… in pratica da quando è nata Martina».

«Deontologicamente e moralmente questa ipotesi non ha nessuno appiglio». Il viso del dottore esprime perplessità: «La madre potrebbe non essere d’accordo e non vorrei creare un caso che potrebbe ritorcersi su future decisioni».

Mattia visibilmente spazientito non perde la calma: «Siamo in un racconto dove tutto è possibile. Il lettore non può più aspettare… È obbligatorio fare sapere chi è il donatore? Se un domani Martina avrà dei problemi, sicuramente lei e il suo staff sarete in grado di dare giustificazioni diverse dalla realtà. Io starò muto come un pesce e Marco non ha sentito nulla. Vero?»

«Verissimo. Parola di boy scout».

Un mezzo sorriso rende più profonde le rughe del primario, che schiacciando un bottone apre la comunicazione e ordina alla sua aiutante: «Dobbiamo fare immediatamente un esame del sangue. Dia priorità a questo lavoro». Si gratta il collo: «Spero di non dovermi pentire di questa forzatura. Adesso lei è nelle mani della mia collaboratrice». Come se avesse sentito, dalla porta entra l’infermiera dai capelli biondo ossigenati e senza fare trasparire imbarazzo con piglio professionale si rivolge a Mattia: «Da questo momento sarà a mia completa disposizione».

Marco non capisce se c’è qualcosa di sottinteso, ma continua a mantenere un comportamento neutrale.

È sera quando i tre uomini si ritrovano seduti intorno alla scrivania. Occhiaie profonde accomunano Mattia e il dottore, che più legge le carte, più sul suo viso traspare scetticismo: «Tralascio tutti i particolari tecnici e vado al sodo. Il problema è che lei ha un cuore di un centenario. Sicuramente la sua vita è stata molto sulle righe, ma non è mia intenzione farle la morale. Il trapianto si potrebbe fare in anestesia locale, ma c’è il rischio che il suo cuore non regga e non possiamo intervenire contemporaneamente su un infarto e l’operazione alla quale deve sottoporsi. L’altra soluzione è l’anestesia totale. In questo modo potremmo tenere meglio sotto controllo la sua persona, perché in caso d’infarto, non saremmo costretti ad intervenire sugli effetti collaterali: ansia, nausea, capogiri al quale lei sarebbe soggetto, se fosse semi cosciente, ma sicuramente il suo cuore non reggerebbe al risveglio… mi dispiace per sua figlia». È l’algida sentenza del dottore.

V. Quinto giorno.

Gessetto ammicca compiaciuta alla folla infiammata dall’assolo di chitarra spaccata sulla testa di J.P. De Martia incartapecorito nella rivista patinata dalla polverina bianca cavalcante le vogliose labbra di pel di carota febbricitante nel letto d’ospedale Marco bianco vestito con l’antidoto che Martina dai capelli biondo ossigenati addenta vogliosa il disco di platino simbolo della rinascita a nuova vita che infonde il

confetto che Carla ha disprezzato sull’altare simbolo del palco sulla vita presente amaro calice colmo di vomito che impedisce il respiro in soccorso arriva in volo l’angelo alato sorridente osannato dalla spogliazione alla ricerca del lussurioso bigliettino desiderato.

Si sveglia perché percepisce una presenza. Allunga la mano che viene stretta con una presa tremolante: «Grazie Marco. Ancora al mio fianco, anche in questo momento. Quando sono in difficoltà tu ci sei… sempre».

«Come ti senti? Hai bisogno di qualcosa?»

«Non mi serve nulla… a questo punto». Mattia ha ancora gli occhi chiusi e la voce è fluida senza inflessioni.

«Hai paura?». Marco stenta a mantenere un tono neutro e osserva attraverso la finestra il volo di alcuni uccelli.

«Sì. O meglio se ci penso non è quella paura che proviamo nei momenti di difficoltà o quando siamo in pericolo. Quella sensazione che ti fa star male e che ti attanaglia lo stomaco. Più che paura… direi che è curiosità». Volge lo sguardo verso Marco, che ricambia con un sorriso: «È curiosità verso l’ignoto. Viviamo tutti i giorni ricordando il passato o programmando il futuro. Oggi sarà diverso, so che non ci sarà un futuro… o almeno così come lo conosciamo. Oggi provo invidia. Uno stato d’animo che non ho mai veramente sentito mio». Si sfrega la fronte con la mano sinistra: «Sono invidioso di tutti i credenti che affrontano questo passaggio con serenità, anche se potrebbe essere una fregatura».

«Sai» interviene Marco incuriosito: «non ho mai pensato al fatto che viviamo ricordando il passato con uno sguardo rivolto al futuro o viceversa. Mi sorprendi ancora una volta».

«In queste ore ho avuto modo di ragionarci sopra e ti dirò di più, ho capito che quando vivo il presente, c’è un momento nel quale io sono quello per cui sono nato».

«Quando sei sul palco».

«Come hai fatto a capirlo?» Chiede sorpreso Mattia.

«Il tuo sguardo… la tua voce… la simbiosi che hai con la chitarra». Prende un fazzoletto dalla tasca e si soffia il naso, ricacciando giù il magone: «Quando vivi il palco sei un’altra persona; sei tu ma anche tutti i tuoi ammiratori. Ora ho capito il perché delle diverse personalità che hai».

«Tu hai sempre avuto un intuito sopraffino su di me e mi hai sempre protetto. Ricordi quando il contadino, io avevo dodici o tredici anni se la

memoria non m’inganna, fermo sotto l’albero di ciliegio mi aspettava con il bastone in mano e tu arrivasti piangente e gli raccontasti che stava bruciando il fienile. Le risate che facemmo alle sue spalle mentre lo guardammo correre goffamente perché si teneva tra le mani la grossa pancia».

«Quella mattina ebbi un colpo di genio». Marco finalmente sorride spensierato: «Quante ne abbiamo passate insieme e tu sei sempre riuscito a mettermi in difficoltà e mi hai costretto a superare i miei limiti, fino a questa decisione, indubbiamente sopra le righe e veramente mi hai spiazzato come un bravo rigorista. Non credevo nella tua capacità di stoppare la realizzazione del tuo sogno. Chapeau».

«Ho fatto pace con me stesso. L’altro giorno quando Martina mi ha sorriso… quel sorriso mi ha rapito l’anima. E il suo sguardo seppur febbricitante mi ha stretto il cuore… è come… è come… ho avuto la sensazione che il mio e il suo battessero all’unisono. Sono rimasto folgorato. Mi ha fatto rinascere».

La stanza piomba nel silenzio, interrotto solamente dal ticchettio del puntino bianco che balla dentro al monitor. Le parole appena sussurrate hanno lasciato un segno indelebile sui due uomini che viene sigillato dall’aumento della forza impressa nella loro stretta di mano. È Mattia che continua: «Per quale motivo mi hai sempre protetto e aiutato?»

«L’avevo promesso a nostra madre. Lei ha sempre affermato che in fondo in fondo dentro di te qualcosa di buon c’era. Si trattava di essere pazienti. Ma era anche consapevole che da solo non saresti stato in grado di trovare la giusta via».

«È colpa dello scrittore se mi ha reso così spregevole… alla fine però l’ho fregato!»

«Ancora con questa storia. Non viviamo in un racconto, questa è la vita reale».

«In effetti se ci penso, può essere vero. Questa storia non avrà un lieto fine e forse neanche parziale. Non è detto che Martina si salverà».

«Lo dimostra il fatto che ieri anch’io mi sono sottoposto agli esami perché volevo capire se potevo essere d’aiuto. Ma non avendo in comune con Martina nessuno dei due cromosomi sono stato tagliato fuori dalla partita».

«La vita è molto dura».

La porta della camera d’ospedale si apre e compare l’infermiera che con un groppo alla gola riesce solo a sussurrare: «Dieci minuti» e si asciuga una lacrima con la manica del camice.

«Cosa dovrò dire a Martina quando si sveglierà?» Chiede sincopato Marco.

«Che l’Angelo Vendicatore ha lottato contro la sua malattia e l’ha sconfitta».

«E se mi chiederà chi è l’Angelo vendicatore?»

«Semplicemente che tutti hanno un Angelo Custode e il suo ha fatto il proprio dovere».

50. Sandro Ardizzon
Il sistema dei Chakra e il Coronavirus

I sette Chakra

Il sistema dei Chakra è un concetto di derivazione orientale, se ne parla negli antichi testi sacri indiani: i Veda, le Upanishad, gli Yoga Sutra di Patanjali. Da diverso tempo se ne parla anche in Occidente.

I sette Chakra, parola sanscrita che letteralmente significa ruota o disco, appartengono a quello che lo yoga definisce il corpo sottile: sono centri di energia collocati lungo la colonna vertebrale invisibili agli occhi, ma responsabili di effetti tangibili importanti sul nostro corpo e sulla nostra mente. I Chakra più bassi, fisicamente più vicini alla terra, sono collegati agli aspetti più pratici della nostra esistenza: sopravvivenza, movimento, azione. Quelli più alti, fisicamente più vicini al cielo, sono legati ad aspetti più simbolici e impalpabili quali parole, immagini, concetti.

Ogni Chakra riflette un diritto fondamentale, è collegato a un obiettivo e a un’identità specifica e per ogni Chakra c’è un “demone”, ovvero una “controforza”, solitamente un’emozione, che si oppone al naturale obiettivo di quel Chakra.

Il Chakra della radice

Mula significa radice, Adhara supporto: da qui Muladhara, il primo Chakra che, collocato alla base della colonna vertebrale, è il sostegno sui cui si regge tutto il sistema. È qui che costruiamo le fondamenta del tempio del corpo e, per farlo, abbiamo bisogno di un terreno abbastanza solido per avere stabilità e abbastanza morbido per essere penetrato dalle radici.

Il primo Chakra è associato all’identità fisica e all’intelligenza bioenergetica, o intelligenza del corpo. Si tratta di una forma di intelligenza primordiale, che si struttura nell’essere umano fin dal concepimento e, per poter funzionare al meglio, necessita di nutrimento continuo. Oltre al bisogno di cibo, c’è un’altra fame che è indispensabile soddisfare perché il primo Chakra funzioni bene, quella che Erik Berne, padre fondatore dell’Analisi Transazionale, chiamava fame di contatto. Il bisogno di essere toccati, abbracciati e coccolati esiste già nel neonato, come è stato dimostrato fin dai primi studi sulla deprivazione da contatto, che hanno riscontrato ritardi nello sviluppo cognitivo e motorio e un calo delle difese immunitarie nei bambini accuditi in modo “tecnicamente” adeguato, ma privo di affettività e contatto umano.

Il primo Chakra è legato al diritto di esistere e di avere ciò che ci è necessario per sopravvivere: un luogo dove vivere, cibo con cui nutrirsi, medicine con cui curarsi. Per questo il “demone” di Muladhara è la paura, in particolare la paura di non avere abbastanza risorse per sopravvivere.

Le diverse facce della paura

La paura è un’emozione atavica con la quale ogni essere umano deve necessariamente fare i conti, così come i protagonisti di Dammi vento.

Tindara, parlando a Giulia della sua storia con Francesco, le confessa di aver avuto paura: “con Francesco avevo la sensazione di essere sulle montagne russe e di non avere alcun controllo delle mie emozioni, il mio stare bene o male sembrava dipendere unicamente da lui, non mi riconoscevo più e ho avuto paura di perdermi”.

Giulia, quando si ritrova davanti a Luigi, scopre che la sua paura nasconde un’altra emozione: “il suo tono di voce continua a salire, so che sta per esplodere, ma stranamente la paura, mia compagna per tanti anni in situazioni analoghe, a ogni sua parola si ritrae, facendo posto a un’emozione nuova, la rabbia.

Luca, che fin da bambino “viveva costantemente avvolto da un velo sottile di paura” ha intrapreso il suo viaggio proprio per affrontare i suoi demoni: “non è la paura dell’oceano che mi blocca, ma quella, molto più difficile da combattere, di guardarmi finalmente dentro. Ma ormai la strada è tracciata, devo continuare a percorrerla andando avanti, perché tutto ha un senso, come sempre.”

Il COVID-19 e Muladhara

In base a quanto scritto finora è evidente che la pandemia che stiamo fronteggiando va ad attaccare direttamente gli elementi fondamentali del nostro primo Chakra e, di conseguenza, dell’intero sistema.

Si tratta infatti di una minaccia diretta alla nostra sopravvivenza: al momento non esiste cura, c’è penuria di dispositivi di protezione e non c’è garanzia per nessuno di guarire in caso di contagio. Allo stesso tempo il virus minaccia la nostra sopravvivenza anche indirettamente: c’è chi ha già perso il lavoro, chi rischia di perderlo, chi percepisce uno stipendio ridotto e, in generale, sembra ormai certo che il nostro Paese attraverserà un periodo di recessione, il che significa che tutti corriamo il rischio di non avere abbastanza risorse per sopravvivere. Tutto ciò alimenta proprio il “demone” del nostro primo Chakra, la paura.

Inoltre le cosiddette misure di “distanziamento sociale”, fondamentali per evitare il propagarsi del virus, ci impediscono di soddisfare la nostra naturale “fame di contatto”. Personalmente, essendo tra i fortunati che non hanno contratto il Coronavirus e hanno ancora un lavoro, questa è la limitazione che sento più forte. Non vedere le persone a cui tengo da tanto tempo, non avere idea di quando le incontrerò di nuovo e sapere che, in ogni caso, probabilmente non ci potremo abbracciare, mi fa sentire davvero deprivata di un nutrimento importante.

Fiducia, protezione e coraggio

Cosa possiamo fare allora per proteggere il nostro sistema in questo momento?

Partiamo dalla paura. Sicuramente non è un’emozione “piacevole”, alcune persone si vergognano addirittura di provarla. Invece, tra le emozioni primarie, è probabilmente quella con la funzione più importante: proteggerci. Il Coronavirus è un pericolo reale ed è normale averne paura: ascoltare quest’emozione e comportarci di conseguenza adottando tutte le precauzioni possibili per non prendere e non diffondere il virus è il modo migliore per garantire la nostra e l’altrui sopravvivenza. Proteggerci significa anche non lasciarci andare e prenderci cura di noi in particolare, visto che parliamo del primo Chakra, del nostro corpo, magari approfittando del tempo più dilatato per dedicarci a un’attività fisica che lo aiuti a svolgere la sua funzione naturale: muoversi. O dedicare più tempo alla cucina, preparando cibi buoni e sani che normalmente non abbiamo il tempo di cucinare.

Purtroppo non tutti hanno la fortuna di poter restare a casa, ci sono molte persone costrette a uscire, o addirittura ad affrontare il pericolo da vicino, come chi lavora negli ospedali, in particolare nei reparti COVID. Per loro, ancora di più è importante la protezione, ma c’è un’altra risorsa alla quale hanno necessariamente bisogno di attingere: il coraggio. Dal latino cor – cuore – e dal verbo habere – avere – la parola coraggio rimanda alla dimensione del quarto Chakra, il cuore. E sicuramente ne stanno dimostrando tanto le persone che affrontano in prima linea questa emergenza, mettendo a rischio la propria vita per salvarne altre.

Oltre al cuore, per potersi alimentare giorno dopo giorno, il coraggio ha bisogno anche di un altro combustibile: la fiducia. In un momento in cui è pericolosamente facile scivolare nel pessimismo più nero, è davvero importante alimentare questa dimensione: fiducia che si troveranno una cura o un vaccino, fiducia che ognuno di noi farà il meglio che può per dare il suo contributo, fiducia che nonostante le inevitabili conseguenze sul piano sociale ed economico troveremo le risorse necessarie per uscirne. In una parola fiducia che tutto andrà bene.

Un 8 marzo diverso dagli altri

La mattina dell’8 marzo ho alzato la tapparella della mia vecchia camera da letto a casa dei miei genitori a Milano. La stanza è esposta a est e immediatamente si è diffusa la luce calda del sole attraverso le fessure. È un fatto normale, che è successo ogni mattina di bel tempo in cui mi sono alzata in quella stanza per anni, eppure quel giorno mi ha trasmesso una sensazione particolare. Il sole continua a sorgere – ho pensato – nonostante il coronavirus, nonostante i decreti sulle zone rosse, nonostante le quarantene e la chiusura di scuole, cinema, teatri, nonostante le persone muoiano ogni giorno.

La sera precedente si era diffusa l’indiscrezione che il governo stava per emanare un decreto che avrebbe vietato di entrare e uscire dalla Lombardia. Io ero preoccupata all’idea di non poter tornare a casa mia nel Lazio. Ero anche preoccupata perché una decisione così drastica mi ha fatto capire, come gli eventi successivi hanno confermato, che la situazione era più grave di quanto immaginassi. Ed ero preoccupata all’idea di tornare a casa separandomi dai miei genitori, dai miei fratelli, dai miei nipoti, che si trovano in Lombardia e in Emilia Romagna, dove c’era la massima diffusione del virus. Ero anche dispiaciuta perché abbiamo dovuto cancellare tutte le presentazioni programmate per Dammi vento, rinviandole a data da destinarsi.

Eppure quella mattina vedere la luce del sole entrare nella stanza mi ha rassicurata e le mie preoccupazioni, i miei dispiaceri mi sono sembrati piccoli rispetto al fatto che il sole continua a sorgere ogni giorno e che la natura continua il suo risveglio come ogni primavera.

La quarantena

Sono ripartita da Milano due giorni dopo, in un’atmosfera surreale, quasi spettrale. Sono salita su un treno vuoto, in una stazione vuota, indossando la mia mascherina, ho salutato i miei senza avere idea di quando li avrei rivisti e, quando sono arrivata a casa, ho iniziato la quarantena prevista dai decreti ministeriali.

Ogni giorno lavoro, pratico yoga, faccio attività fisica (mi sono inventata una forma di “step” casereccio facendo le scale più volte al giorno), sento amici e famigliari al telefono, studio, metto insieme le idee per un nuovo libro e rifletto. Rifletto sugli effetti paradossali che questa situazione ha già creato e mi domando quali saranno quelli futuri. Sono preoccupata per la salute di tutti, per i danni sulla nostra economia, già piuttosto “scricchiolante”, dispiaciuta per le difficoltà di chi rischia di perdere il lavoro o l’ha già perso, senza parlare delle vittime del virus e delle loro famiglie.

Ma cerco anche di chiedermi cosa di buono ne potrà uscire. In fondo, mi sono detta, gli italiani hanno affrontato due guerre mondiali. Il dopoguerra è stato il periodo in cui tutti indistintamente hanno lavorato per ricostruire il Paese e il trentennio che ne è seguito, nonostante alcuni momenti di forte tensione politica ed economica, è stato di fatto il più florido e sereno che il nostro Paese abbia conosciuto.

Mi è venuto in mente il libro di Aldo Cazzullo “Giuro che non avrò più fame. L’Italia della Ricostruzione”, nel quale l’autore racconta gli anni del dopoguerra, osservando che oggi come ieri l’Italia è, per certi aspetti, un Paese da ricostruire ma, pur avendo più ricchezza e risorse di allora, è come se mancasse nelle persone la fiducia di potercela fare.

Siamo tutti collegati

A mio parere quello che da tempo ci manca è soprattutto il senso di unione e credo che la mancanza di fiducia nasca anche da questo. Se ci si sente soli e isolati è impossibile pensare di poter cambiare le cose, di poter ricostruire un Paese. Ma se ci si rende conto, come sembra essere ormai chiaro a tutti, che ognuno di noi è collegato all’altro, che il mio benessere dipende anche dal tuo e viceversa e che essere uniti significa aumentare le nostre risorse in modo esponenziale, allora credo che ci possa essere nuovamente spazio per la fiducia.

E in questi giorni, in cui ogni persona e ogni nucleo famigliare deve restare isolato nella propria casa, ho la sensazione che ci si senta paradossalmente più uniti, sicuramente perché c’è un obiettivo comune di importanza vitale, ma forse anche perché in questa occasione ognuno di noi sta avendo modo di riflettere sul valore del sentirsi vicini e connessi gli uni agli altri.

È il respiro dell’Universo che ci unisce in un’unica perfetta armonia. Tutto è amore incondizionato” è la riflessione di Luca, proprio quando si trova solo in mezzo all’oceano “nel punto più lontano da ogni terra emersa”.

Tutto andrà bene

Penso alle iniziative di solidarietà che si sono attivate in queste settimane, tra cui quella promossa da JeanLuc Bertoni, il nostro editore, che con #piùlibrimenostress ha reso disponibili gratuitamente i libri a catalogo inizialmente per i residenti della zona rossa del lodigiano e, in seguito, per tutta Italia.

Penso ai medici cinesi che, dopo aver lavorato settimane per gestire l’emergenza nel loro Paese, sono venuti in Italia mettendo la loro esperienza a nostra disposizione nonostante i rischi che questo comporta. E penso ai medici, agli infermieri e a tutti coloro che stanno lavorando duramente per assistere i malati, o per trovare una cura, o un vaccino.

E pensando a tutto questo mi viene in mente il mantra di Tindara “Baba Nam Kevalam”, tutto è amore infinito, e mi rendo conto che è proprio vero che in ogni situazione c’è spazio per l’amore, perché cosa sono queste se non espressioni di cura e di amore per l’altro?

E se questo è vero, mi dico, allora tutto andrà bene.

Ogni Chakra è collegato agli altri e uno squilibrio va ad inficiare il benessere a tutti i livelli, ma un squilibrio nel Chakra della radice, che come abbiamo detto prima è la base su cui si regge tutto il sistema è particolarmente critico. È come se ci fosse una pila di monete una sopra l’altra e alcune fossero sbeccate: se queste sono in alto magari cadranno, ma la pila resterà in piedi, se ad essere danneggiate sono quelle alla base rischiano di crollare tutte.

Il virus che stiamo fronteggiando, non solo minaccia tutti i livelli dei Chakra, ma va ad impattare particolarmente il primo, vediamo perché. quando qualcosa minaccia la nostra sopravvivenza e ci impedisce di sentirci sicuri. Qui c’è un paradosso interessante: da una parte la paura è la migliore alleata del primo chakra perché, attivando il nostro sistema nervoso e le ghiandole surrenali, prepara il corpo a rispondere a ciò che ci minaccia con l’attacco o con la fuga garantendoci appunto la sopravvivenza, da un’altra però può succedere che, se per qualche motivo viviamo a lungo in un ambiente in cui ci sentiamo minacciati (non importa se lo siamo davvero o se si tratta di una nostra percezione), il nostro sistema rimane attivo troppo a lungo e ci abituiamo ad essere costantemente ipervigili, a non rilassarci e a non lasciarci andare. Tutto questo, oltre a generare lo stress, crea dei blocchi nel primo Chakra e forza l’energia verso i Chakra superiori.

(Muladhara rappresenta inoltre la materia primordiale, ancora passiva e inconscia, che potenzialmente contiene tutto ciò che sarà creato: porta in sé tutte le potenzialità presenti ma non ancora espresse.) Quando il primo Chakra è in equilibrio vediamo il mondo con fiducia, ci sentiamo sicuri di noi, otteniamo facilmente risultati sul lavoro, il denaro non ci manca mai e la nostra casa rappresenta un porto sicuro.

Siamo presenti attimo per attimo e stiamo bene con il nostro corpo. Quando invece il primo Chakra è danneggiato potremmo avere la sensazione di non sentirci mai a casa, essere poco concreti o avere difficoltà ad essere presenti nel “qui ed ora”, o potremmo avere spesso problemi di lavoro o mancanza di denaro. Un eccesso di energia nel primo Chakra potrebbe portarci ad essere eccessivamente “attaccati” a tutto ciò che è materiale, trascurando gli aspetti più sottili dell’esperienza.

In generale squilibri del primo Chakra si riflettono in ciascuno degli altri Chakra. Ne viene alterata la sessualità (II Chakra), in quanto esperienza del corpo, dei sensi e di contatto e connessione, ne è affetto il proprio senso di potere personale (III Chakra), le relazioni (IV Chakra) sono influenzate negativamente dalla mancanza di confini e da una persistente insicurezza che ha bisogno di continue rassicurazioni. La comunicazione (V Chrakra) può essere bloccata dalla paura o diventare eccessiva e scollegata dalle emozioni. I Chakra superiori (VI e VII Chakra) tendono ad essere più intensi, con un’immaginazione creativa ed elaborata e una dedizione all’intelletto come difesa nei confronti delle sensazioni.

: il primo Chakra ci radica nei nostri corpi, nel mondo fisico e nella terra. Senza essere radicati a terra siamo instabili, perdiamo il nostro centro, partiamo per la tangente o sogniamo ad occhi aperti nel mondo della fantasia. Senza contatto con il corpo corriamo il rischio di non sopravvivere: pensate alle persone che non provano dolore e non possono accorgersi di essere malate e, quindi, di curarsi.

Muladhara è quindi tradotto come sostegno della base ed è il Chakra dell’origine, da cui parte il cammino dello yoga, dell’esperienza più materiale e terrena.

Adhara: supporto

Situato alla base della colonna vertebrale, il primo è il fondamento di tutto il sistema dei Chakra: è qui che costruiamo le fondamenta del tempio del corpo. Senza fondamenta forti e radicate ben poco può essere

realizzato: abbiamo bisogno di un terreno abbastanza solido per avere la stabilità e tuttavia abbastanza morbido per essere penetrato dalle radici. Le fondamenta definiscono la base di tutto ciò che ci accade intorno e ci forniscono un punto di ancoraggio per la nostra esperienza. Costruire delle fondamenta forti significa solidità e questa ci permette di essere fermi e di costruirci delle delimitazioni, dei confini.

Mula: radice

In generale le nostre radici ci riportano alle nostre famiglie, ai nostri antenati e alla nostra storia: per creare delle fondamenta solide abbiamo bisogno di individuare le radici della nostra infanzia, quelle che ci hanno dato il nutrimento quando non eravamo in grado di sopravvivere autonomamente.

Le radici sono legate alla terra – l’elemento collegato al primo Chakra – che riflette quindi la nostra connessione e il nostro modo di stare sul pianeta: indica, per esempio, se consideriamo la nostra vita un viaggio facile o una continua lotta. Il rapporto che abbiamo con la Madre Terra mostra anche la relazione che abbiamo con nostra madre: se proviamo da lei un senso di separazione da lei o se sentiamo di non essere amati da nostra madre, energeticamente parlando, tagliamo le radici che ci nutrono e questo farà sì che attireremo esperienze che confermano il nostro filtro distorto.

Diritto si esistere e di avere

Ogni Chakra riflette un diritto fondamentale, la cui perdita può creare dei blocchi. Il primo Chakra è legato al diritto di esistere e al diritto di avere ciò che ci è necessario per sopravvivere: il diritto di avere è alla base della capacità di contenere, di mantenere e di manifestare, che sono tutti aspetti di un primo Chakra sano.

Nell’ambito del percorso di sviluppo di un adulto, il primo problema da risolvere è quello della

sopravvivenza: trovare un luogo per vivere, imparare ad avere cura di se stessi e trovare una fonte indipendente di guadagno in questo senso il primo Chakra è quindi legato all’indipendenza e all’autosufficienza.

Identità fisica

Ciascun Chakra è poi associato ad una particolare identità, che è ciò che ci dà un significato. Il primo livello è l’identità fisica: il primo Chakra ci radica nei nostri corpi, nel mondo fisico e nella terra. Senza essere radicati a terra siamo instabili, perdiamo il nostro centro, partiamo per la tangente o sogniamo ad occhi aperti nel mondo della fantasia. Senza contatto con il corpo corriamo il rischio di non sopravvivere: pensate alle persone che non provano dolore e non possono accorgersi di essere malate e, quindi, di curarsi.

Demone

Ciascun Chakra possiede un “demone”, una controforza che interferisce con la sua energia e si oppone alla sua naturale attività. Quello del primo Chakra è la paura che nasce quando qualcosa minaccia la nostra sopravvivenza e ci impedisce di sentirci sicuri. Qui c’è un paradosso interessante: da una parte la paura è la migliore alleata del primo chakra perché, attivando il nostro sistema nervoso e le ghiandole surrenali, prepara il corpo a rispondere a ciò che ci minaccia con l’attacco o con la fuga garantendoci appunto la sopravvivenza, da un’altra però può succedere che, se per qualche motivo viviamo a lungo in un ambiente in cui ci sentiamo minacciati (non importa se lo siamo davvero o se si tratta di una nostra percezione), il nostro sistema rimane attivo troppo a lungo e ci abituiamo ad essere costantemente ipervigili, a non rilassarci e a non lasciarci andare. Tutto questo, oltre a generare lo stress, crea dei blocchi nel primo Chakra e forza l’energia verso i Chakra superiori.

(Muladhara rappresenta inoltre la materia primordiale, ancora passiva e inconscia, che potenzialmente contiene tutto ciò che sarà creato: porta in sé tutte le potenzialità presenti ma non ancora espresse.) Quando il primo Chakra è in equilibrio vediamo il mondo con fiducia, ci sentiamo sicuri di noi, otteniamo facilmente risultati sul lavoro, il denaro non ci manca mai e la nostra casa rappresenta un porto sicuro.

Siamo presenti attimo per attimo e stiamo bene con il nostro corpo. Quando invece il primo Chakra è danneggiato potremmo avere la sensazione di non sentirci mai a casa, essere poco concreti o avere difficoltà ad essere presenti nel “qui ed ora”, o potremmo avere spesso problemi di lavoro o mancanza di denaro. Un eccesso di energia nel primo Chakra potrebbe portarci ad essere eccessivamente “attaccati” a tutto ciò che è materiale, trascurando gli aspetti più sottili dell’esperienza.

In generale squilibri del primo Chakra si riflettono in ciascuno degli altri Chakra. Ne viene alterata la sessualità (II Chakra), in quanto esperienza del corpo, dei sensi e di contatto e connessione, ne è affetto il proprio senso di potere personale (III Chakra), le relazioni (IV Chakra) sono influenzate negativamente dalla mancanza di confini e da una persistente insicurezza che ha bisogno di continue rassicurazioni. La comunicazione (V Chrakra) può essere bloccata dalla paura o diventare eccessiva e scollegata dalle emozioni. I Chakra superiori (VI e VII Chakra) tendono ad essere più intensi, con un’immaginazione creativa ed elaborata e una dedizione all’intelletto come difesa nei confronti delle sensazioni.

Intanto, come dicevo prima, sono invisibili ma hanno effetti importanti sul nostro sistema psicocorporeo.

Muladhara è il chakra della radice, collegato all’elemento terra ed è il fondamento di tutto il sistema.

Pensa che quand’ero piccolo dormivo facendo

attenzione a non sporgere gambe o braccia fuori dal letto per

paura che di notte, nel buio, un coccodrillo o qualche altra

creatura feroce potesse mordermi e strapparmele. Poi,

crescendo, si sono sviluppate altre paure: ad esempio, ho avuto

paura che non sarei mai riuscito ad uscire con una ragazza e a

baciarla.

Ho avuto una paura folle dell’acqua e di annegarvi dentro

Sono qui, davanti all’oceano e a tutto quello che ho sempre

sognato, ma invece di sentirmi felice ho quasi paura, un’altra

delle mie tante paure. E se non sarò in grado di affrontarlo? Se

mi renderò conto che non vorrò più attraversarlo e vorrò tornar

indietro?

“Non ho peso, non ho memoria, non ho passato. Soprattutto,

non ho più paura. Non ho paura del futuro, né di questo mio

confuso passato, non ho paura di amare, né di essere amato.

Avverto una sensazione di pace mentre sento il fuori e il dentro

passare attraverso la mia pelle e i miei sensi, senza alcuna

resistenza, e fondersi e confondersi e scambiarsi e rincorrersi.

Il tempo che vorrei
La quarantena

La fase 1 dell’emergenza sanitaria è alle spalle e, chi prima e chi dopo, ognuno di noi sta prendendo le misure con la fase 2, che ci porta nuovamente a uscire di casa e a riprendere, anche se non come prima, le nostre vite.
Io sto ancora lavorando in modalità smart working, quindi la mia quotidianità è rimasta sostanzialmente invariata. La mattina la sveglia non suona più da oltre due mesi, ma quella biologica mi porta ad aprire gli occhi piuttosto presto. Meditazione, colazione e poi una passeggiata al mare con Ninja, la mia cagnolona.

All’inizio non si poteva andare in spiaggia e vedevamo il mare da lontano camminando sulla strada. Adesso, invece, possiamo camminare in riva al mare. Con il passare delle settimane sono cambiati gli odori che ci accompagnano mentre attraversiamo la via di casa: prima il glicine, poi il pitosforo, adesso il gelsomino in piena fioritura che riempie l’aria del suo profumo dolce e intenso.
Stamattina mentre camminavo in riva al mare mi sono tornate in mente le “passiate” di Tindara al porto di Levante che l’hanno portata a scoprire “che non ci sono un’alba o un tramonto uguale all’altro: il colore del cielo e delle nuvole che lo attraversano, gli odori provenienti dalle barche ormeggiate, i rumori del porto sembrano ogni volta diversi e ogni singolo giorno questo mi regala sensazioni con sfumature uniche.”

Mentre camminavo e percepivo l’odore dell’aria, guardando il colore del mare e del cielo mi sono resa conto che stavo sperimentando proprio quello che avevo scritto con la voce narrante di Tindara e ho pensato che, pur abitando al mare da oltre quindici anni, non ne avevo mai avuto una percezione così chiara.

Il tempo per osservare

Cosa ha fatto la differenza? Mi sono chiesta. Perché me ne rendo conto solo adesso? E credo che la risposta sia: il tempo. Prima del lockdown non avevo mai avuto l’opportunità di fare tutti i giorni per tante settimane di fila una passeggiata al mare come Tindara. Soprattutto oggi posso farlo la mattina presto, quando la mente non si è ancora buttata a capofitto nelle attività della giornata, quando la natura intorno si sta risvegliando e tutto è ancora calmo.

Ci sono mattine in cui il cielo e il mare sono di un blu intenso e l’aria così è tersa e pulita che il porto di Capolinaro verso nord e i ruderi di Torre Flavia verso sud sembrano vicini. Ci sono giorni in cui il mare sembra completamente immobile, altri in cui è leggermente increspato, altri ancora in cui le onde si susseguono accavallandosi una sull’altra. Alcune mattine il vento soffia da terra portando il profumo delle tamerici, altre soffia dal mare riempiendo l’aria di salsedine.
Oggi il cielo era nuvoloso, sembrava avere lo stesso colore del mare, l’aria era immobile e piccole onde ordinate accarezzavano il bagnasciuga. Mentre le osservavo ho praticato il “respiro dell’oceano” che mi ha insegnato il mio amico Francesco Marziano in una delle nostre pratiche di yoga via zoom: inspiro in quattro tempi, trattengo uno, espiro in quattro, trattengo a polmoni vuoti.
Tutto questo in tempi “normali” non sarebbe stato possibile perché a quell’ora sarei stata sul treno o in mezzo al traffico in direzione dell’ufficio.

Il tempo per praticare

Un’altra cosa a cui posso dedicare molto più tempo è la pratica dello yoga, online naturalmente: con la mia insegnante Marta Grechi, con Francesco e con altri amici. Oggi posso permettermi quasi quotidianamente questo appuntamento, senza arrivare trafelata dopo mille corse come facevo prima. In questo periodo ha trovato il tempo di praticare yoga anche la mia amica Alessandra: voleva farlo da tanto, ma nelle sue giornate fatte di corse in cui si divideva tra il lavoro e la cura dei suoi due figli non c’era spazio per la cura di sé. Adesso lo ha potuto fare e, come è successo a me tanto tempo fa, si è innamorata di questa pratica meravigliosa.
Il tempo per prendersi cura
Il lockdown mi ha dato anche tempo per prendermi cura: della mia famiglia, di me stessa, della casa e delle amicizie. Credo davvero, come dice Francesco a Luca, che “Per nutrire il nostro spirito serve il giusto tempo, ma il tempo sembra non bastare mai. Eppure dovrebbe essere questo il bisogno primario: elevare la nostra anima, cercare risposte, scambiare esperienze, leggere, studiare, ascoltare musica, apprezzare l’arte, vivere seguendo un ritmo più naturale, a contatto con gli elementi fondamentali della natura, la terra, l’aria, l’acqua.”
Il tempo che vorrei
Quello di cui parla Francesco è il tempo che vorrei.
Sentendo che non mi bastava mai, ho sempre pensato che il tempo fosse una risorsa preziosa. Ora che ho assaporato cosa significa averne di più ne sono ancora più convinta.
Mi piace fantasticare immaginando un mondo in cui il detto “il tempo è denaro” sarà sostituito dal detto “il tempo è vita” e uno degli obiettivi della società sarà far sì che tutti abbiano il tempo necessario per nutrire il proprio spirito e dedicarsi alle persone importanti della loro vita.
Nel mondo che vorrei c’è molto altro, naturalmente, ma questa riflessione richiederebbe decisamente più spazio.
Quello che mi domando è: serviva una pandemia per portarci a questo? E soprattutto, una volta passata l’emergenza ci avvicineremo a questo modello o torneremo indietro alle vecchie assurde modalità?

 

  1. https://www.eltiempo.com/cultura/gente/pastor-colombiano-arrazola-coronavirus-es-una-farsa-de-bill-gates-491632

 

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