Diario in coronavirus

Diario in coronavirus con grani di scrittura – 1°

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Diario in
coronavirus
con grani di scrittura

1°
Domenica di Lettura –
15 marzo 2020

Indice


1° testo proponente FUIS:
Natale Antonio Rossi,
Diario in corollavirus con petali di scrittura o Diario in coronavirus: con grani di scrittura dedicato e condiviso con gli associati FUIS e aderenti Federintermedia.
(con interpello di preferenza per scegliere uno dei due titoli).

1.
Inizio qui il mio primo settimanario di quarantena.
Da lunedì 9 marzo giorno venuto da notte di superluna, proprio quella che fu un padellon del cielo grande frittata” per nulla pietosa, né lucente, né pura, né gentil, né bella a valutare dalle restrizioni imposte peraltro utili a scoprire gli accumuli nelle proprie case.
A Roma c’è il sole, le mimose sono fiorite e il mandorlo è in fiore, così ho scritto agli amici cinesi.
E’ il giorno del ricordo di Santa Francesca Romana, la santa protettrice contro le pestilenze, quanto mai necessaria, Appena posso uscire vado a sentire l’odore di paglia d’asino che ancora oggi filtra dalla porta di via del Teatro Marcello, 40, a Roma, dietro la quale ancora oggi esiste la stalla della Santa.
Vorrei proporre un diario condiviso con scrittori che, attivando i migliori intrecci telematici, partecipano a una raccolta di racconti brevi (non più di trenta righe) che la Federazione Unitaria Italiana Scrittori vorrebbe fosse a corolla di margherita: un petalo di scrittura (o più di uno, in giorni diversi) a disposizione per ognuno e per tutti coloro che autoquaranteni, vogliono narrare di sé o d’altro.
Venerdì scorso mi è arrivato, sicuramente per suggestione di Anna La Penna Malerba, il volume che Mondadori, con una colta e corposa introduzione di Gino Ruozzi, ha dedicato ai racconti, tutti, di Luigi Malerba (autore scomparso, sembra ieri, dodici anni orsono).

Il primo ha un titolo di promessa poiché è dedicato, in disegno distintivo per chi si dedica a letture di quarantena a ‘La scoperta dell’alfabeto. Me ne sono promesso almeno uno al giorno.
La scrittura di Malerba è sollecitante. I racconti sono viventi. Il primo: un contadino analfabeta voleva imparare a scrivere e si affida al figlio, di undici anni, del padrone. Da lavoratore attento alla natura, abituato a mettere in ordine le robbe dei campi, delle semine e dei raccolti, chiede al ragazzo insegnante: “perché nell’alfabeto prima c’è la lettera a e poi viene la lettera b?”.
Il giovane confessa di non saperlo. Nimmanco io. Voi lo sapete? Provate a dare una risposta anche facendo ricorso a internet che non lo sa; perché “internet è ignorante”. Che non sia questa la morale o il teorema che Malerba lancia con questo racconto?
Nel pomeriggio ho cercato un altro protettore, santa o santo. C’è di bisogno. Mia moglie Gabriella mi ha suggerito che Melania Mazzucco nell’Architettrice, una storia mandata a romanzo, pubblicato da Einaudi, parla di un artista Plautilla Bricci che ha dipinto sante e santi in tempi di lazzaretti e fosse comuni dove, si dice nel libro, finiscono nudi, maschi e femmine “miserabili e poveri, per lo più, perché muore soprattutto la gente bassa, ma anche gli altri”. Invano. Non ho trovato altro santo protettore né lì né d’altro autore. Mi consiglio di affidarmi a Santa Francesca Romana che ancora oggi manda aura per chi sente il soffio e, quindi, efficacia della sua santità.

Alessandra Iannotta
La fabbrica di Iole

Mi chiamo Iolanda, ho nove anni, i capelli biondo cenere e gli occhi che ridono.
Con mia zia aprirò presto una fabbrica di cioccolato.
Sarà una fabbrica bellissima dove i bambini potranno cuocere il cioccolato usando tutte le formine del mondo.
Io voglio i cioccolatini a forma di stelle, piccole, grandi, grandissime, anche con la coda….
Oggi finalmente dobbiamo uscire a comprare tutto quello che ci serve, non vedo l’ora di andare a fare la spesa.
Mia madre mi prende per mano e mi fa sedere sul letto : “sai amore, penso che oggi dobbiamo rimanere a casa”, le  parole di mia madre mi raggiungono come tanti spilli cattivi che fanno scoppiare tutti i miei sogni.
I miei sogni, quelli che non sono stati bucati dalle parole della mia mamma, volano via come tanti palloncini colorati lasciati andare in cielo quando il filo che li lega a terra viene lasciato libero.
Sul mio volto si legge tutto il mio dolore.
La mamma mi prende in braccio, mi guarda negli occhi e incomincia a parlare con voce profonda : “Iole conosci la storia del Coronavirus?”
Guardo la mamma, sono alquanto confusa. Non riesco a capire come quella storia possa riguardare la nostra spesa, so che la televisione, i giornali e i miei fratelli da qualche giorno non fanno altro che parlare di un virus, non so se sia lui, ma se lo è, ha un nome bellissimo… Corona, forse si chiama così perché è un re? Mi chiedo tutto ciò in silenzio.
Poi la mia mamma incomincia a raccontare:
“In un paese lontano, lontano abitava una grande famiglia. I bisnonni, i nonni, i genitori e tantissimi figli, il più piccolo si chiamava Virus. Vivevano tutti insieme in una grande casa. I componenti della grande famiglia si erano dimenticati del piccolo Virus. Fu così che un giorno il piccolo decise di chiedere aiuto alla fatina buona che lo fece diventare invisibile, avrebbe così potuto dare qualche pizzicotto ai famigliari e fare loro qualche piccolo dispetto. La strega cattiva però aveva visto la magia e quando ancora Virus non era diventato invisibile lo toccò con la sua scopa facendolo diventare per sempre un cattivissimo nemico di tutti. Virus, ormai invisibile e cattivo, iniziò così a vendicarsi su tutti i suoi famigliari e poiché era veramente spietato la strega lo incoronò re di tutti i cattivi.”
Ho ascoltato in silenzio e poi con curiosità ho chiesto: “Mamma ho capito, ma cosa c’entra Coronavirus con le formine della mia fabbrica?”

“Iole, il solo modo per sconfiggere l’invisibile re dei virus è restare in casa e renderci, in tal modo, anche noi invisibili ai suoi occhi. E sai perché? Perché nella nostra casa regna l’amore e lui non può vincere contro ciò che non ha mai conosciuto.”
Mi volto verso la mia mamma, accenno un sorriso e come se fossi diventata improvvisamente grande: “ho capito mamma, il Coronavirus è l’invisibile che rende visibile ciò che sfugge a chi non ama…La mia fabbrica può aspettare, ora voglio godere la mia famiglia, restiamo a casa.”

Stefania Severi
Su di un quadro di Orazio Borgianni

I recenti eventi connessi con il coronavirus hanno indotto a comportamenti inusuali ed a riflessioni al di fuori da quelle che solitamente si affacciano alla nostra mente. Ognuno di noi ha vissuto o sta vivendo il problema, che sicuramente ha aperto un nuovo orizzonte nel nostro futuro, in modo personale. Ma in tale momento di crisi una frase è stata per me consolatoria, una frase di Dostoevskij che San Giovanni Paolo II fece sua, inserendola nella lettera agli artisti del 4 aprile 1999: la bellezza salverà il mondo.

«… l’umanità, dopo ogni smarrimento, potrà ancora rialzarsi e riprendere il suo cammino. In questo senso è stato detto con profonda intuizione che “la bellezza salverà il mondo”. La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente. E invito a gustare la vita e a sognare il futuro. Per questo la bellezza delle cose create non può appagare, e suscita quell’arcana nostalgia di Dio che un innamorato del bello come sant’Agostino ha saputo interpretare con accenti ineguagliabili: “Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato!”»

Nei periodi più critici l’arte, la musica, la poesia assumono un indubbio ruolo consolatorio. Tali riflessioni mi sono state suggerite da un dipinto di Orazio Bargianni, esposto alla mostra, a cura di Giovanni Papi, nella Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma, dedicata proprio a questo “genio inquieto nella Roma di Caravaggio” (6 marzo – 30 giugno 2010). Orazio (Roma, 1574 – 1616) è un validissimo pittore il cui nome si inserisce nel clima della Controriforma per approdare poi nell’orbita dei cosiddetti Caravaggeschi, cioè quegli artisti che hanno seguito la lezione del grande maestro adottandone la luce, come elemento fondamentale della composizione, e la “verità” dell’immagine. E nella mostra mi ha colpito il dipinto “San Carlo Borromeo visita gli appestati”. Il dipinto, un olio su tela alto 3 metri e largo quasi un metro e mezzo, è conservato a Roma nella Curia Generalizia dell’Ordine della Mercede. Sono i tempi della famosa peste di Milano di cui parla Alessandro Manzoni nei “Promessi Sposi”. Erano altri tempi, senza mascherine, senza reparti di terapia intensiva, senza presidi medicali. C’era solo il lazzaretto, un luogo dove gli ammalati erano raccolti e dal quale solo i più fortunati uscivano vivi, e Renzo e Lucia erano stati tra quelli. Parlo dei due promessi sposi come se fossero veramente esistiti ma in realtà essi esistono per il nostro immaginario e per la nostra consolazione.

Ebbene, il dipinto di San Carlo tra gli appestati è una luce nel dolore, è un richiamo ad appellarsi alla Vera Luce. Lasciamoci consolare dunque anche dall’arte, e, nell’intimità della nostra casa, riprendiamo quella vecchia edizione dei Promessi Sposi (per chi ha il computer basta cercarlo!) ed andiamo a rileggerci il celebre brano della Madre di Cecilia: Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci…

Roma 10 marzo 2020

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Luciana Vasile
Il mio grano di scrittura Roma 12 marzo 2020

Lessi diversi anni fa La peste, romanzo del 1947 di Albert Camus, scrittore e filosofo algerino di nazionalità francese. Premio Nobel per la Letteratura nel 1957. Morto nel 1960 all’età di 47 aa.

Quelle pagine, allora, molto mi colpirono e restarono tatuate in me per l’acutezza e la profondità nell’addentrarsi nell’animo umano in un momento tragico per la popolazione “Unita e Separata” dal morbo infettante, come del resto verifichiamo in questi giorni della nuova drammatica esperienza per il nostro mondo globalizzato.

E così, ora, ho sentito il bisogno di andarlo a riprendere quel libro, confrontarmi con le parole ma soprattutto con i vuoti fra di esse che la scrittura lascia nel bianco del foglio. Muti suggerimenti, interrogativi, dubbi, paure, ma anche un’infinità di riflessioni che altrimenti l’essere umano non trova mai il tempo di fare – c’è sempre del positivo anche nelle situazioni più tragiche -. Nella sua corsa verso non si sa cosa: sicuramente la fine, inesorabile per tutti ma alla quale vogliamo arrivare con il fiatone, l’uomo non riesce a vivere il presente, qui e ora.

Proviamoci, in un momento così difficile. Ecco, raccolgo l’invito-provocazione della FUIS.

Non fuggire, stazionare nel vuoto del non detto, non solo in quello che leggiamo ma anche in ciò che abita la nostra interiorità, che tuttavia ci parla se abbiamo orecchie per sentire, con l’anima e con il corpo. Perché come succede negli spazi reali è il Vuoto che disegna il pieno.

Lui il protagonista.

Cosa leggiamo nel libro di Camus:

Orano è una cittadina commerciale della costa dell’Algeria francese in cui << ci si annoia e ci si applica a contrarre delle abitudini >> fino al giorno in cui le strade e le case vengono invase dai topi che portano la terribile malattia.

La città si chiude poco a poco nell’isolamento. L’isolamento e la paura modificano i comportamenti collettivi ed individuali: “La peste fu un affare di tutti”, nota il narratore.
Gli abitanti devono convivere con l’isolamento sia all’esterno che all’interno. Incontrano difficoltà a comunicare con i loro genitori o i loro amici che sono all’esterno.

Negli interstizi, pause fra le parole, del racconto l’Autore sembra suggerire:

l’uomo può superare la disperazione e la solitudine della propria condizione attraverso la rivolta lucida e cosciente contro l’assurdo, ovvero attraverso l’impegno e la solidarietà.

Il male ed il dolore non possono essere spiegati teoreticamente ma possono e devono essere affrontati con l’etica laica della sincerità individuale e dell’impegno collettivo.

Quanto tutto ciò assomiglia a quello che sta succedendo …!?

Ecco, personalmente ho ritrovato e mi sono ri-conosciuta (riconoscersi è un attimo, conoscere è lento) nel bisogno di Solidarietà, più che mai forte in questi giorni, all’interno dell’ossimoro della forzata responsabile Separazione dei corpi.

Cetta Petrollo
11 marzo 2020

Sono una persona a rischio. Ho quasi settant’anni e devo restare in casa.
Quelle che lavorano con me non possono più farlo. Non l’archivista che dovrebbe prendere mezzi pubblici, cosa davvero sconsigliabile in questo momento, non la collaboratrice domestica che si è messa in ferie e si è rinchiusa in casa, non le bibliotecarie che, benché più giovani, convivono con persone fragili. E poi la biblioteca è chiusa e chissà quando potrò riaprirla.
Non può venire a trovarmi il nipotino, poco sicuro per lui, per me e per mia figlia.
Una lombosciatalgia, corifea di disastro, ben prima della protezione nazionale, aveva iniziato a proteggermi per conto suo e mi aveva fatto disdire impegni cene, riunioni, corsi, lezioni, palestre e spettacoli. La schiena rattrappita mi aveva legato a casa, aggrappata a una stampella.
Adesso, dall’8 marzo, la mente è paralizzata, intenta a seguire nuovi rituali: disinfezione con amuchina, pulizia meticolosa di pelle, mani, capelli, scarpe, vestiti, superfici, computer, interruttori, maniglie. Lavaggio giornaliero di panni utilizzati solo una volta. Lavaggio di pavimenti, spolveratura di soprammobili e ripiani, il tutto in una turnazione predisposta e studiata in base al clima, agli orari, al sorgere ed al calare del sole.
La dispensa è piena di cibarie, la credenza di articoli per la pulizia.
Sono il caporeparto di una fabbrica che ha un solo operaio, me stessa, controllo, verifico, ispeziono e lo faccio secondo un piano che prevede cicli e alternanze. Così muovo la frutta e il formaggio, cucino i cibi più deperibili, controllo le scadenze.
Nel ciclo produttivo impossibile non pensare al caporeparto che mi insegnò il mestiere, mia mamma, e dunque ricomincio a seguire, nei miei rituali, i suoi, che sembrano studiati per la lotta a virus e batteri.
Dunque arieggio la casa con perfetta rotazione di ante, porte, finestre, pulisco angoli mai affrontati prima, sbatto e appendo i cappotti al sole, lavo prima di andare a letto la biancheria, mi specializzo lavando la suola delle pantofole in modo da non portare la polvere di stanza in stanza.
Nel ciclo produttivo c’è però una falla, una sezione che non funziona: il nastro trasportatore non scorre, si ferma prima, davanti all’asse da stiro e al ferro, oggetto affrontato malamente da bambina e da ragazza, impugnato con impegno e sudarella da moglie, poi definitivamente abbandonato per sostituirlo con quelle simpatiche amanti che sostituiscono le mogli: tintorie, stirerie, domestiche ad ore.
Dietro al ferro c’è una storia, naturalmente.
Storia di femminilità perfette che lo brandivano come uno scettro senza stancarsi, né bruciarsi, e bruciare!, mai.
Storia di piegature perfette, di mutande – e di lenzuola per le quali occorreva essere in due – storia di rifiniture al millimetro di colli di camicia e di polsini .
Avevo deciso di essere imperfetta davanti a tutta questa perfezione, un blocco come per la matematica.
Io perfetta? Mannò, non stiro e non so fare le equazioni.
Ora in questa stasi del tempo, dove la casa mi ingoia e mi sovrasta, dallo stipo occhieggia il ferro da stiro e una voce mi dice, come nelle favole: “dai provaci, è risaputo, il calore ammazza i virus!”

Franco Buffoni
Mentre da Roma cercavo sul Corriere

Mentre da Roma cercavo sul Corriere
Le notizie sul contagio a Gallarate,
L’occhio mi è caduto sul servizio
Con le foto da Marte. Trentaquattro istantanee
Inviate da Curiosity, il rover della Nasa
Che da otto anni vaga sul pianeta.
Il Sole da Marte in un tramonto blu,
Mount Sharp e il cratere di Gale,
I sedimenti d’un antico fiume
Rocce meteoriti e dune
E poi ad un tratto quel pallino chiaro
The Earth
La Terra vista dal cortile del vicino
Con le fidejussioni i rogiti i contratti
Le zone rosse ed arancioni
Le bare bianche senza estreme unzioni.

Salvatore Rondello

C O R O N A V I R U S

 

Corre notizia

Orribile di pericolosi

Rapporti umani.

Ovunque si annidano

Nemici invisibili:

Assumono nel corpo

Virulenza temuta.

Imprevista lotta

Riduce la debole

Umanità a condotta

Sofferta e isolata.

 

Massimiliano Kornmuller

Voyage autour de ma chambre

“Ecco la Primavera i cori a rallegrare…”

Sto incidendo la xilografia del frontespizio delle”Rime petrose” di Dante, alla maniera di un incunabolo, con dovizia di foglie
d’acanto, lettere capitali e sinuose figure.

La musica del trecentesco Landini m’ ispira il tratto, invitandomi ad essere piu’ medievaleggiante
(l’odiata “eta’ della barbarie ” dei Libertini e degli Illuministi…!) considerando i versi gelidi ed invernali che ho deciso di trattare:William Morris e la Kelmscott Press mi spronano
all’ impresa!

“Al poco giorno ed al gran cerchio d’ ombre

son giunto, lasso, ed al bianchir de’ colli

quando si perde lo color nel’ erba

e’ l mio desio però non cangia il verde

si’ e’ barbato ne la dura petra

che parla e sente come fosse donna”

versi ispidi gotici, ben lontani da quelli per me eleganti e cari del Petrarca e del Metastasio, versi che però splendidamente illustrano la stagione che sto vivendo…

Negli anni precedenti a questo funesto bisesto, ero solito recarmi in compagnia di una coppia di fraterni amici alchimisti presso un bullicame di Viterbo,

e li’ rintemprare il corpo e la mente…

Presso le Masse di San Sisto c’ immergevamo in rovine di terme romane, ove ancora oggi una sorgente calda sulfurea sgorga in prossimità di una limpida e fredda.

Dentro la pozza calda , vedendo nell’ inverno le persone immerse tra fumiganti vapori, non potevo non pensare che questa scena l’avesse vista pure Dante mentre si recava a Roma, e che, prima ancora del suo Inferno, ispirò alcune sue petrose rime:

“versan le vene le fummifere acque

per li vapor che terra ha nel ventre

che d’ abisso li tira suso in alto”

Penso all’ antico “Kalendarium Romanum”, al rito della lustratio, o purificazione, che avveniva in questo periodo, penso a Catone ed alla processione rituale nel perimetro dei campi e della casa, con l’ incenso e la preghiera “e nos, Lases iuvate!”, penso al Carmen arvale  recitato in questo periodo per la purificazione dei campi e delle greggi…

Penso alla primavera che tra poco arrivera’…!

Lucio Castagneri
In forma di lettera

Caro Tonino,

accolgo il tuo invito a scrivere di questi giorni di quarantena,  iniziando non come poesia, nè diario, ma in forma epistolare.

II senso della devastazione psichica è dilagante, e non serve nasconderlo, semmai metterlo sotto la lente, senza preconcetti. E’ inevitabile il raffronto del nostro Paese con la Terra Desolata di poetica memoria. Sotto la mia lente càpita stamattina il ricordo del detto di Gorgia Nulla è e se pur fosse non sarebbe conoscibile e se cononoscibile non sarebbe comunicabile. E poi ricordi letterari  da Kafka a Sartre, ma forse l’unico che ci ha beccato fino in fondo resta  configurato nel Deserto dei Tartari: inevitabile pure, nell’osservare le strade vuote, rammentare (per carità senza citare) libri amati, perché  le persone e le cose che tacciono sono racchiuse nel pudico silenzio di un nuovo orrore. Già da vivere per Decreto Presidenziale, e poi da cibare giorno per giorno. Perché oltre il Deserto dei Tartari  c’è in agguato l’inversione prospettica, desertica, del Qui e Adesso. E nel migliore dei casi la Noia…

Ciao, Lucio

Natale Antonio Rossi
2. Martedi, 11 marzo, secondo giorno da quaranteno

(forse devo mettere l’anno, 2020 e precisare ch’è bisestile, per scaramanzia e lunga memoria)
Comunicazione di settimanario: sono con un giorno di ritardo, che prima o …. e comunque entro la fine della settimana cercherò di recuperare. Magari con un poemetto per incoraggiare chi pensa e vuole di saper scrivere solo in versi. Perché? Domenica – mattina o pomeriggio o sera, insomma quand’è – mi piacerebbe attivare la prima DOMENICA di LETTURA inviando, in girotondo e per e.mail, tutti i racconti pervenuti (in corrispondenza della data di ieri) a tutti coloro che li hanno scritti e vedere (non di nascosto) l’effetto che fa.
In direzione più ampia va la proposta di Luciana Vasile di diffondere il “breve” suo, (che ha un valore pari a quello della breve in musica cioè doppio, come l’immagine qui sotto

Presso i quotidiani on.line www.lacertezza.it, www.ilmensile.it il cui direttore è l’avv. Lillo Salvatore Bruccoleri.
Per cercare di arginare l’inconsueta costrizione in casa, ho cercato persone le più lontane possibili da Roma per riprendermi l’aria del mondo e costringerla a infilarsi nel computer o nel telefono . Infatti ho scritto a Zhang Tao, direttore generale, e ai colleghi dell’Associazione Scrittori China Writers che ci hanno inviato i sensi della loro solidarietà (la FUIS aveva anticipato i suoi”) scrivendoci “We are on the same boat” (siamo nella stessa barca). Non ho potuto rispondere (ma prima o poi sono certo che lo potrò fare) che mi sarebbe piaciuto dire che in un ospedale di Napoli (è quello in cui alcuni degenti furono invasi da formiche?) è pronta la cura che abbatte il coronavirus. E non solo quello degli italiani (virus che s’infetta d’arte, di letteratura, di cultura e civiltà, anche sanitaria), ma anche quello dei cinesi, dei portoghesi (nel senso di quelli che non pagano), senza distinzione tra ricchi e poveri . Se intervenisse una scelta – ben si sa – non sarebbe a favore dei poveri.
Ho telefonato poi a Londra, a Katie Webb, che svolge rappresentanza per conto della FUIS . Mi ha detto che non può venire in Italia a causa dell’emergenza sanitaria. Le ho chiesto se poteva partecipare all’elezione – sua – del prossimo Consiglio Direttivo di International Authors Forum , un’organizzazione che riunisce le associazioni degli scrittori di tutto il mondo. Ha accettato. L’elezione in videoconferenza ci sarà il 15 maggio 2020. Le ho chiesto anche di preparare un contributo per la prossima partecipazione della FUIS alla 60° riunione ONU – WIPO che si terrà a Ginevra il 7 e 8 maggio prossimi (se non viene rimandata).
Mia moglie, Gabriella; che sta cercando di mettere a posto quel che negli anni è stato disposto in confusione, dice che, con le restrizioni adottate, i ladri vanno in fallimento, impossibilitati all’esercizio delle loro intrusioni dalla permanenza in casa dei proprietari.
Il racconto di Luigi Malerba che ho letto oggi è “Fuoco e fiamme”: vi si narra di Petronio un giovane respinto da Margherita, che si taglia, invano, prima un dito e poi si voleva tagliare la testa per convincerla a mettersi con lui. La canzone di Fabrizio De André, che ha un argomento simile è sicuramente dopo.

Alessandra Iannotta
12 marzo 2020 

Oggi ho litigato con mia sorella.

Sono davvero arrabbiata.

Agnese-come al solito – pensa di sapere tutto.

Mio fratello Riccardo, prima ha cercato di farla ragionare, poi, ha lasciato perdere e si è messo a giocare alla PlayStation.

Adesso – ho deciso- ne parlo con la mamma, lei saprà sicuramente darmi la risposta giusta.

La trovo finalmente in cucina intenta a preparare la cena.

Appena mi vede mi sorride e mi domanda: “Iolanda cosa succede?”

Adoro la mia mamma, mi capisce al volo anche quando non dico una parola,Lei è magica,ormai ne sono certa.

“Ho litigato con Agnese; le ho detto che tutti i dottori e gli infermieri che lavorano in ospedale, quelli con i guanti e le mascherine che fanno vedere in televisione, sono Angeli. Agnese mi ha detto che sbaglio, che gli Angeli  non esistono e che -se esistono -non sono certamente uomini.”

La mamma lascia da parte pentole e pentolini, mi abbraccia e sorridendo mi sussurra qualcosa all’orecchio.

Corro in stanza da mia sorella e felice la guardo negli occhi,poi le chiedo scusa: “ Hai ragione Agnese – le dico- i medici e gli infermieri che fanno  vedere in televisione sono uomini e donne proprio come tutti,  però dietro di loro ci sono degli Angeli  bellissimi con delle grandi ali dorate che li aiutano a sorridere a tutti e a non essere mai stanchi.”

Mia sorella mi guarda perplessa: “io non ho visto nessun Angelo, se ci fossero  stati si sarebbero visti  anche in televisione.”Ribatte lei.

“Anche il Coronavirus è invisibile eppure c’è”.

Ho parlato con una voce allegra e cristallina, mia sorella mi abbraccia e finalmente,per la prima volta in quindici anni della sua vita, mi dà ragione.

Cetta Petrollo
Passeggiata
Roma 12 marzo 2020

Esco furtivamente e senza nessuna gioia. Lo faccio per motivi igienici, il corpo ha bisogno di muoversi ma lo fa come un soldato sprovvisto di fucile che va incontro ad un nemico invisibile.

Il soldato ha paura di respirare, il suo elmetto è insufficiente, è infatti un elmetto giocattolo, costruito con la carta stagnola, il soldato anzi pensa che gli sia proibito respirare e quando esce per strada, in un‘ offensiva che è piuttosto una tattica da trincea, il respiro si fa affannoso, troppo veloce e senza ritmo, come se lo avessero già ferito e lui fosse lì già vinto in attesa di cadere per non rialzarsi.

Perché uscire allora? Per verificare che il mondo esista ancora, che si sia solo appannato, che al mondo abbiano semplicemente cambiato le quinte di scena, fra uno spettacolo e un altro e che però, in qualche angolo, ci sia ancora qualcosa da scoprire e da immaginare.

Ma la distesa è desertica, i ricordi di altre stagioni si susseguono rapidi nella mente, i luoghi abbandonati si allontanano, la fame d’aria, e di futuro, si fa struggente.

Il soldato è vivo ma sperimenta nella solitudine della sortita cosa sia davvero la morte, lontananza, senza colori e senza speranza, da ciò che si è amato.

Giulia Morgani
DIARIO IN CORONAVIRUS

GIORNO 4
Il mondo è cambiato velocemente. Sono passati solo 2 giorni dal totale isolamento e il panico iniziale ha fatto posto a una sobria assuefazione.
In pochi momenti il cervello registra l’angoscia della situazione attuale e la sensazione di soffocamento è l’effetto immediato.
Ma l’essere umano si abitua a tutto, perciò prima che la vita del nuovo mondo sovrascriva quella che conoscevamo, voglio appuntare i cambiamenti che giorno per giorno sconvolgono la nostra vita, di cui solo ora apprezziamo aspetti che davamo per scontati e purtroppo scontati non sono più.
Quando avevamo la libertà. E non sapevamo che farci.

DOMENICA (quando dare un nome ai giorni aveva ancora senso)

Fino a 5 giorni prima ero su un palco, oggi sarebbe dovuta essere l’ultima replica ma i teatri sono stati chiusi, così come i cinema, le sale da concerto e tutti i luoghi di aggregazione. Si dice persino le chiese. Ci siamo sorpresi, sembrava assurdo arrivare a tanto per qualcosa molto simile a un raffreddore. Io e alcuni altri abbiamo messo su la nostra piccola resistenza alla psicosi generale, che in città non aveva ancora attecchito in vasta scala. Abbiamo continuato a fare la vita di sempre, ridendo delle misure che il governo imponeva. Gli articoli, la tv, raccontano di una Roma svuotata ma la gente c’è e il traffico pure. Abbiamo mangiato cinese quella sera, scoprendo per primi il nuovo assetto dei ristoranti, sentendoci pionieri di qualcosa che sarebbe diventato normalità almeno per un po’: coppiette in tavoli da 6 costrette ad occupare i capotavola, tavoli da 8 adesso ospitano 3 persone al massimo, amici distanziati tra loro da una sedia vuota, mantenere le distanze per la vostra sicurezza, le reazioni di chi entra nel ristorante e scopre le nuove norme decise dal decreto, lo smarrimento, le risate causate dall’apparente assurdità, l’indignazione di quelli che vengono separati quando comunque sono arrivati lì nelle stessa auto o addirittura convivono. Sa di 1984. A noi, che siamo 3, propongono di dividerci in 2 tavoli da 6. Protestiamo, 1 mangerebbe da solo, ci spiegano che non hanno tavoli più grandi disponibili al momento e che in uno da 4 può sedersi solo 1 persona. Adocchiamo una sala con due grossi tavoli rotondi, quelli che di solito sono da 10 coperti. Vogliamo uno di quelli. Ci dicono che sono prenotati. Notiamo come sono apparecchiati. Di 20 coperti nel nuovo mondo ne sono permessi 5. Alla fine se ne libera uno da 8 e ci possiamo accomodare belli larghi lì, ognuno nel suo tavolo privato da 4. In fondo non ci dispiace.

GIORNO 0
Racconto divertita il nuovo assetto dei ristoranti, dicendo “devi provare, è proprio strano”. Non potranno farlo, i ristoranti dal giorno dopo chiuderanno.
Incontro un mio amico per un caffè, solo un istante d’incertezza, quasi impercettibile, e ci abbracciamo nell’enorme salone vuoto di quello che nel corso dell’anno è diventato il nostro punto d’incontro, con gli schienali delle sedie ancora inclinate sui tavoli come in attesa che si alzino le saracinesche, vuoto persino di camerieri e baristi. Ci sembra ancora tutto un’immotivata follia.

GIORNO 1 – VERSO LA DISTOPIA

Ieri sera è arrivata la notizia delle prime vere restrizioni della nostra libertà. Locali chiusi dopo le 18, ne deriva una specie di coprifuoco. S’iniziano a vedere file in strada davanti ai supermercati, persone distanziate un metro l’una dall’altra, e dentro, gli scaffali sono svuotati. Ci si prepara al peggio.

GIORNO 2

Non è ben chiaro cosa si può ancora fare e cosa no. Esploro il nuovo mondo. Si deve stare distanti gli uni dagli altri e rispetto a ieri i volti coperti dalle mascherine si sono moltiplicati. Ma forse il virus non c’entra, l’ipotesi che tutto questo sia l’istaurarsi di una dittatura mi occupa la mente.
I funerali sono vietati, e i morti? Mi lascio andare a lugubri fantasie.
I marciapiedi sono occupati da file di persone a distanza di sicurezza, ma pare che 1 metro non basti più, bisognerebbe stare a 4 metri dagli altri umani. Nei negozi più piccoli si entra uno alla volta, alcuni ti lasciano in strada urlando da dentro cosa ti serve e che banconota hai e poi allungano la mano fuori dal negozio, con la merce e il resto. C’è diffidenza, gente pronta alla lite se qualcuno si avvicina troppo, pronti al linciaggio verbale se scappa uno starnuto. Quando ci si trova in direzioni opposte sullo stesso marciapiede si va in crisi e qualcuno si appiattisce contro i muri. Ci temiamo. L’essere umano è diventato il peggior pericolo.

GIORNO 3

Ora sì che il mondo è svuotato. I ristoranti sono chiusi a tutte le ore, la gente non va più a lavoro, i solo negozi a cui è consentita l’apertura, fino alle 18, sono quelli di prima necessità. Per uscire bisogna portare con sé un foglio dove si autocertifica che il motivo per stare fuori casa è necessario alla salute o alla sopravvivenza. Vado due volte al supermercato giusto per non impazzire imprigionata tra quattro mura. Ne hanno arrestati 7 a Roma e denunciati il doppio solo perché erano usciti senza un motivo valido. In altre città camionette presidiano le strade intimando con voci metalliche di non muoversi di casa. C’è chi usa il cane come scusa per una passeggiata e pare che invece andare al parco per una corsetta non sia fuorilegge. Ma l’isolamento si fa sentire. Il mondo è cambiato velocemente, e i cambiamenti si cristallizzano facendo sembrare un giorno un’intera settimana. Dal cortile interno del mio palazzo arrivano voci alterate per una litigata.

Il mondo fuori dal portone è solo un’eco che ci arriva, uguali notizie da fonti diverse, ma abbiamo imparato che raramente sono uno specchio della realtà.

La settimana scorsa potevo ancora uscire, no, era solo 2 giorni fa.

Gli abbracci sono banditi. C’è chi ne manda di virtuali non comprendendo l’ulteriore tristezza che ne deriva. Siamo alla deriva appunto, di un’umanità che è diventata virtuale ma basta un calo di corrente perché si spenga.

Paola Cimmino

De virus e de viris

Tredici marzo duemilaventi
e a casa ricchi e nullatenenti
tutti ce dicono che te ne esci
anche se i farmaci invano mesci.

Quando ogni arma pare fallire
me pare inutile impallidire
chiedo dei lumi a tutti quanti
rompo le scatole pure a li santi.

Lo chiedo a lei, Santa Cristina
dove la trovo ‘na mascherina?
Parla per lei il gran San Leandro
che suggerisce adottar lo scafandro

“Fuss che è meglio una botte da vino?”
sprona al sorriso Sant’Ansovino
Pria che m’abbatto o che me moro
giunge dall’alto un altro bel coro:

“Statev a casa, di notte e al mattino
e per finire un caldo brodino”
Brodo di pollo ahimè surgelato
quando del virus ti sei ammalato
ma grazie a Conte, Speranza e Salvini
siamo tornati un po’ tutti bambini.

Bando alle ciance e pure a li pianti
che ci salviamo sì tutti quanti
ma se qualcuno dovesse sparire
che ci vuoi fare, s’ha da murire!

S’alza una voce da Roma a Soccavo
Spero davvero che io me la cavo!

Roberto Piperno
Ero già chiuso in casa da due giorni

Ero già chiuso in casa da due giorni, non sapendo più cosa fare con troppi amici scomparsi o addormentati, quando un saggio ministro ha chiesto a tutti di non uscire e stare sempre a casa, isolati per non rischiare di essere contagiati dal virus micidiale che sta invadendo l’intera Italia e inoltre anche di lavarsi spesso le mani con buon sapone, invenzione ormai antica ed essenziale per favorire la permanenza nell’esistenza anche contro il nuovo malanno.

Per fortuna sono ancora ben sposato e condivido in tutti modi con mia moglie anche questo impegno di salvezza. Infatti proprio non desidero la prossima morte per nessuno, perché la vita è il più bel dono della nostra esistenza e vorrei viverla più a lungo possibile: la morte è il peggiore avvenimento, qualunque sia stato il corso della vita personale..

Già da bambino imparai il valore centrale della vita, quando fui nascosto per quasi un anno in una cantina di un monastero per salvarmi dalle mortali retate dei nazisti delle razze dichiarate inferiori. Così imparai presto che siamo tutti eguali e che godiamo del dono divino dell’esistenza, che va goduta da tutti a lungo, senza rischi ed ingiustizie.

Questa primaria esperienza mi ha salvato e segnato, innamorandomi per sempre della vita, mia e di chiunque è vivo.

Silvana Baroni
Costretti alla razionalità

A due passi da casa mia sorge un parco di medie dimensioni, non certo villa Ada o villa Panfili, ma un paio d’ettari sufficienti ad ospitare i più agguerriti maratoneti ed individui solo bisognosi d’ossigenarsi. Il buon cuore della circoscrizione ci offre piste ciclabili, circuiti per la corsa, panchine, attrezzi per l’atletica e vari giochi per i bambini.
In questi primi giorni d’isolamento collettivo, causa il coronavirus, molti degli abitanti del quartiere, ben distanziati gli uni dagli altri, portano qui a sfrenarsi cani, figli e nipoti, impudicamente anche loro stessi. Gli anziani, in coppia oppure sottobraccio ad un figlio, si permettono la famosa ora d’aria come a tutti i carcerati è concesso. Più numerose amiche adolescenti e giovani coppiette impegnate a corteggiarsi. Anch’io approfitto di questi sentieri nel verde che consentono a tutti la dovuta distanza, e mi siedo a leggere al pallido sole del tardo pomeriggio.
Proprio ieri, appartata come al solito sotto un imponente eucaliptus, a rileggere alcuni aforismi di Pessoa, ho avuto modo d’ascoltare il colloquio di due bambine coetanee, nove / dieci anni, probabili compagne di scuola, sdraiatesi a due passi da me sull’erba, stanche d’aver corso sui pattini per molto tempo. L’argomento ebbe così ad interessarmi che, l’ammetto, non persi una parola delle loro confidenze.
Una delle due era stata molto coinvolta dall’intervista televisiva di un noto primario che asseriva d’esser stato costretto a scegliere chi salvare dalla morte tra i troppi pazienti affluiti al suo ospedale.
La bambina più sensibile all’argomento si domandava chi avrebbe scelto il medico tra i costituenti della sua famiglia e chiedeva pareri all’altra. Le due tentarono di condividere il dilemma del dottore provando a valutare le priorità applicabili ai propri famigliari, rispetto a parametri affettivi, di simpatia ed età. A lungo durò il tentativo di mettere al muro uno per volta i propri cari, finché, scantonando arditamente dal recinto famigliare, entrambe inserirono come papabili al salvataggio le due maestre ed un paio di ragazzini, i più belli della scuola. Solo per un po’ ebbero a discutere sulla prestanza fisica di uno dei due, ma sulle maestre concordarono all’unisono: andavano salvate.
Il mio stupore iniziale subito divenne comprensione dell’impossibilità di una qualsivoglia scelta affettiva. Scelta affettiva impossibile per tutti, di qualsiasi età. Scelta che solo dalla più lucida razionalità, e costretta all’estremo, può essere presa. A maggior ragione per le due giovani non v’era altro modo per risolvere la questione che divergere dal sacro recinto. La soluzione per le due stava nell’uscire dal dilemma, glissare il dramma e buttarla in commedia.

Questo mio breve racconto vuole essere segno di stima e di grande commossa partecipazione per chi è costretto alla ghigliottina della razionalità.

Silvana Cirillo
Lettera al caro tonino

Caro Tonino,
ti leggo e chissà che prima o poi non scriva anche io…E mi scopra una vena di “raccontatrice”, che spesso mi ripropongo di cercare, senza trovare mai il tempo”giusto” per farlo. Ci vuole una buona forte ragione che mi solleciti parole e pulsioni, mi dico, e non ne trovo mai granché in verità…Ora ne avrei qualcuna, mi dirai, ma è troppo più grande di me e mi toglie il fiato, figuriamoci le parole..! Preferisco dunque leggere quello che scrivono gli altri. Malerba, citi tu, il Malerba de La scoperta dell’Alfabeto. Direi che li conosco a memoria, quei racconti, così semplici e perciò così paradossali, dove le parole prese alla lettera  sono capaci di ribaltarti il tuo convinto omologato punto di vista: ne feci tanti anni fa una delle prime edizioni scolastiche per Einaudi. Come mi divertii. Con la bella  intervista a Gigi, tanti esercizi in fondo ai vari racconti per aiutare i ragazzi a ragionare, e la gran gioia di condividere quel piacere con i giovani : tu dici che sono la mia passione, è vero! quelli poi, delle scuole medie, mi parevano allora tanti figli da instradare alla letteratura, ai giochi di parole, a guardare da un lato diverso, non automatizzato, alle cose e  alla vita. Tanto tempo fa…Gli anni in cui camminavo con Savinio sotto il braccio e nella testa..: non per niente il senso dell’humour e la volontà di guardare al mondo da sotto, Malerba e Savinio ce l’hanno in comune…Tutti e due scrittori e intellettuali geniali, battaglieri, sornioni e profondi, che andrebbero letti e riletti  per chi volesse deautomatizzarsi veramente pensiero e parola… Di Savinio, come di Malerba, non posso che ribadire che se il Novecento letterario è stato grande, lo deve sicuramente anche a loro…Ecco, vedi, la deformazione mentale mi riporta lì, alla Letteratura , ai miei miti, agli studenti sottintesi e immaginati…E la vena da raccontartice è bella e dimenticata… Non avrà per caso ragione mio figlio quando mi riprende: ma mamma ti accorgi che hai l’aria da professoressa…? E pensare che mi fregio da sempre di essere così poco accademica..!

Daniela Quieti
Homo homini virus

Il cielo del nostro Paese si è all’improvviso oscurato: non più strette di mano, baci e abbracci tra nonni e nipoti, scuole chiuse dovunque, musei, teatri, sale cinematografiche, uffici pubblici di fatto inaccessibili. Le nostre abitudini quotidiane sovvertite… e se il contagio si dovesse estendere al sud in modo esponenziale, sarebbe un disastro. Muoiono essenzialmente gli anziani… discriminati dalla malattia Covid-19… sembra di vivere in un incubo.

Ci si chiede come tutto questo possa essere accaduto…

Le prospettive sono incerte, e non c’è niente di peggio che non sapere ciò che ci accadrà. Qualche speranza giunge dai ricercatori che stanno cercando di approntare un vaccino contro il coronavirus.

La stringente raccomandazione del Governo e degli specialisti di evitare il contatto tra le persone, mantenere la distanza di sicurezza, lavarsi spesso e bene le mani è giusta e utile per contenere una ulteriore diffusione della pandemia.

Infatti, essa si comporta come il gioco del “domino” in cui le tessere vengono messe in fila l’una accanto all’altra; la caduta della prima (paziente zero) spinge (infetta) la seconda, che, a sua volta, urta (infetta a sua volta) la terza e così via…

Nel mentre, guardiamo con prudenza chi si avvicina troppo a noi ed evitiamo l’ascensore da cui è appena uscito qualcuno…

Parafrasando l’espressione latina… Homo homini virus.

Chiara Rossi
Diario in corolla virus con petali di scrittura (Distico)

(In attesa che l’Autrice fornisca il testo in world, anziché in pdf incompatibile con questo formato)

Franco Carlo Ricci
Un sogno ad occhi aperti

Quella mattina Federico si era svegliato con una strana sensazione di benessere mista ad inquietudine delle quali ignorava l’origine. Gli dovevano derivare da un sogno fatto verso l’alba che non ricordava. O meglio, il ricordo delle immagini era vago ma il turbamento dell’animo profondo. Mentre, con la mente ancora un po’ confusa, andava in cucina per prepararsi un buon caffè, gli venne da sorridere al pensiero che era, “si parva licet”, nelle stesse condizioni evocate da Dante nell’ultimo canto del Paradiso dedicato alla Vergine. Ecco i mirabili versi, che ricordava perfettamente a memoria, con i quali il Sommo Poeta rende l’ineffabile momento del risveglio:

Qual è colui che somniando vede,
Che dopo il sogno la passione impressa
Rimane, e l’altro alla mente non riede;
Cotal son io: ché quasi tutta cessa
Mia visione, ed ancor mi distilla
Nel cor lo dolce che nacque da essa.

L’accostamento a Dante lo fece naturalmente sorridere perché gli richiamò un vecchio adagio appreso da ragazzo, “Anche le pulci hanno la tosse”, che, con immagine bislacca ma efficace, rende la sproporzione tra due persone di grandezza e valore assolutamente diseguali, che sono però animate dagli stessi sentimenti o compiono le medesime azioni.

Federico adorava Dante che riteneva non solo uno dei poeti più grandi nella storia dell’umanità ma anche l’espressione massima del genere umano, insieme a non molti altri geni. Era solito dire, infatti, che Dante, Mozart, Beethoven, Leonardo, Michelangelo, tanto per ricordarne alcuni, erano una delle prove dell’esistenza di Dio.

Mentre in cucina apriva lo sportello del pensile per prendere la macchinetta del caffè si compiaceva dei versi di Dante e della propria memoria che gli consentiva di ricordarli così bene.
Stava per mettere sul fornelletto del gas la macchinetta da una tazza quando lo raggiunse la voce della moglie che, dalla camera da letto, chiedeva:

  • Se sei in cucina, tesoro, metteresti su un caffè anche per me?
  • Certo, cara – rispose un po’ spazientito Federico, richiamato bruscamente alla realtà.

Mentre metteva in funzione una macchinetta più grande, cercava di richiamare alla memoria le immagini del sogno che si ostinavano a rimanere avvolte nella nebbia, anche se gli davano “una dolcezza al core/che ‘ntender no la può chi non la prova”, tanto per ricorrere ancora all’infinito repertorio dantesco.
Dopo qualche momento Federico fu raggiunto in cucina dalla moglie Elena che gli sorrise teneramente e lo baciò sugli occhi. Mentre si godevano l’ottimo caffè arrivò la proposta:

– Che ne diresti, caro, di trascorrere la giornata festiva in modo diverso dal solito.

– Perché no – si affrettò a rispondere Federico, con sorpresa di Elena che si attendeva qualche resistenza.
La domenica, infatti, alla pur piacevole gita fuori porta, preferivano rimanere a casa a leggere e riposare, per non affrontare lo snervante traffico festivo. Anche perché nessuno dei due amava guidare! Quel giorno, però, si trovarono immediatamente d’accordo non solo di prendere una boccata d’aria ma anche sulla mèta da raggiungere: il mare. Per fortuna non si era ancora in estate, quando migliaia di romani non resistono al piacere di un bagno! Fu Federico a caldeggiare l’idea forse per la presenza, sia pur vaga, del “liquido elemento” nel sogno che stentava ad affiorare alla mente. La proposta fu subito accolta da Elena; più volte, infatti, aveva espresso il desiderio di recarsi al mare in una giornata primaverile, fresca, frizzante, quale quella che si profilava. Era allettata anche dal “têtê à têtê” in un ristorante sulla spiaggia, davanti ad un buon piatto di spaghetti alle vongole “veraci”, che amava, e ad un prosecco ben ghiacciato.
Si prepararono senza affannarsi, anche perché ritenevano che, con quel freschetto, ben pochi avrebbero condiviso la loro idea; scesero in garage e si avviarono verso il litorale senza incontrare traffico. Dopo aver ascoltato le ultime notizie del giornale radio decisero, di comune accordo, di raggiungere la bella spiaggia del Circeo; tutti e due la preferivano alle altre del Tirreno perché, più volte, vi avevano trascorso ore piacevoli con amici cari.
Sulla Via Cristoforo Colombo Elena fece presente che la gita in alcun modo doveva impedire di assistere alla Messa domenicale. Federico la rassicurò e le promise di cercare una chiesetta nelle vicinanze di Sabaudia che avrebbe dato loro l’opportunità di rompere la “routine” domenicale. Da qualche tempo, infatti, mostravano qualche intolleranza nei confronti del parroco che si compiaceva delle proprie prediche “colte”, forse perché le riteneva più gradite ai fedeli della borghesia medio-alta alla quale erano rivolte. Da un prete meno preparato e saccente avrebbero potuto ascoltare, probabilmente, parole più efficaci e convincenti.
A Sabaudia fu loro consigliata una piccola chiesa sulle rive del Lago di Paola, detto anche Laguna o Lago di Sabaudia, un po’ enfaticamente chiamata Santuario di Santa Maria della Sorresca. Quando la videro non tardarono a riconoscere la chiesetta, con il soffitto a capriata, nella quale, alcuni anni prima, si era sposata una loro amica e ne furono contenti. Dopo la messa, celebrata da un monaco benedettino, e la sua breve, gradita predica di una semplicità evangelica, vollero chiedere qualche informazione su questo suggestivo tempietto. Si rivolsero così ad un vecchio pescatore del luogo, con l’abito “buono” della domenica, felicissimo di raccontare una leggenda che gli stava molto a cuore. Una volta, molto tempo fa, alcuni pescatori di San Felice Circeo, nel ritirare le reti videro, tra tanti pesci azzurri guizzanti, una statua di legno che raffigurava la Madonna con in braccio il Bambinello. Felicissimi e commossi per il ritrovamento della cara immagine erosa dalle acque e rosicchiata dai pesci, pensarono di destinarla alla chiesa di San Paolo, ai piedi del promontorio del Circeo. Il giorno seguente, però, la statua fu trovata, con sorpresa generale, su un grande ceppo di quercia, sulla riva vicino al luogo dove era stata “pescata”. Il messaggio era evidente. La Madonna voleva essere adorata lì. La statua di Santa Maria della Sorresca, così denominata perché “risorta” dalle acque, dette di conseguenza il nome sia alla chiesa costruita intorno al ceppo sia al lago.
Contenti di aver rispettato il precetto domenicale ed essere venuti a conoscenza della poetica leggenda legata al nome di Maria, Federico e Elena, dopo un aperitivo in un piccolo bar di Sabaudia, decisero di recarsi sul lungomare alla ricerca di un ristorante, possibilmente sulla spiaggia. Lo trovarono proprio vicino al promontorio del Circeo. Pochissimi erano i clienti presenti perché la stagione era ancora acerba. Furono d’accordo nell’ordinare, dopo i classici spaghetti alle vongole “veraci”, un secondo a base di pesce, possibilmente del Lago della Sorresca, e un sorbetto. Furono accontentati e serviti con una certa rapidità. Dopo il caffè Elena avrebbe voluto fare due chiacchiere in libertà ma si accorse che il marito era distratto, forse perché stanco, pensò. Gli propose di riposarsi beandosi della bella vista del mare azzurro, appena increspato, mentre sulla riva lei si dedicava alla ricerca delle amate conchiglie. Le raccoglieva sempre quando andava al mare per farne collanine da donare in parrocchia per la “pesca di beneficenza”.
Federico non era stanco ma assorto nel tentativo di ricordare il sogno della notte precedente che lo aveva molto coinvolto emotivamente ma che stentava a riaffiorare. Quando si accorse che la moglie si era allontanata al punto da non vederla più, saldò il conto e scese in spiaggia. Voleva esser più vicino al mare forse perché sperava di facilitare la memoria. Si allontanò un po’ dal ristorante, si sedette su un tratto di spiaggia asciutta e cominciò a guardare il cielo azzurro. Improvvisamente sciami di piccoli volatili non bene identificabili apparvero in lontananza. Il loro volo, ad ampie volute a spirale discendente, estremamente variabile, ma sempre armonico, descriveva le forme più fantasiose. Ad ogni giro si avvicinavano consentendo a Federico di formulare ipotesi sulla loro identità. Quando erano molto lontani e non poteva distinguerne neppure il colore gli sembravano storni; ma qualche gruppo indisciplinato gli faceva pensare al volo estroso (capriccioso) delle rondini. A mano a mano che si approssimavano il loro colore diveniva più chiaro e il corpicino più grande. Poi notò che erano bianchi e grigi e dal loro garrito, gioioso ma asprigno, li riconobbe; erano gabbiani. Ormai quasi vicini alla superficie del mare formarono come una grande conchiglia all’interno della quale una strana forma perlacea guizzava nell’aria, quasi danzando; sembrava un delfino. Pensò però ad un abbaglio perché i delfini, da che mondo è mondo, non volano.
L’osservazione di questo tripudio di forme alate gli faceva tornare alla mente alcuni momenti del sogno. Ad un certo punto i gabbiani si disposero a forma di soffice culla bianca che accoglieva, ormai ne era sicuro, un giovane e agile delfino. In un ultimo giro, sfiorando la spiaggia, la culla si inclinò su un lato lasciandolo scivolare amorosamente non molto lontano da Federico. La culla immediatamente si dissolse e i gabbiani spiccarono di nuovo il volo verso l’infinito. In pochi momenti si dileguarono. Federico, che sempre più si andava ricordando del sogno, scrutò per qualche istante ancora l’orizzonte; poi corse verso il delfino che gli sembrava chiedere aiuto con uno sguardo tenerissimo. Mentre lo accarezzava fu impressionato nel vedere le parti sfiorate dalla mano divenire rosee, umane. Sconvolto volle chiedere aiuto ma la spiaggia era deserta. Cominciò a correre scompostamente in tutte le direzioni ma invano. Decise allora di ritornare dal delfino che andava sempre più acquisendo l’immagine di una giovanissima donna. Attratto dalla sua non comune bellezza e ancora più sconvolto dall’evento, dopo averla contemplata per qualche momento, iniziò di nuovo a correre e a gridare senza sapere neanche perché. Anche questa volta non ebbe risposta; si rivolse allora all’ineffabile creatura che si era definitivamente trasfigurata, divenendo donna di indescrivibile incanto. Leggerissimi veli, dai colori teneri, rosa, azzurrino, arancione, verde acqua, lievemente mossi dalla brezza marina, lasciavano intravvedere forme perfette, al limite dell’umano. Quando riconobbe in lei l’immagine sognata ebbe un mancamento e cadde. Continuava però ad ammirare, come in estasi, la creatura divina che, sfiorando la sabbia, gli passò vicino e gli sorrise; in quel momento venne meno il respiro a Federico che temette per la vita. Gli occhi, per un momento, gli si chiusero. Quando li riaprì quell’essere ineffabile, con la leggerezza di un alito, si era levato in volo nella stessa direzione dalla quale era disceso per sciogliersi nell’infinito.
Richiamata dalle grida del marito Elena corse verso di lui che, con sguardo allucinato, ancora osservava il cielo. Elena si spaventò e gli chiese se si sentisse male. Federico non rispose immediatamente, come vivesse in un’altra dimensione. Poi alle atterrite richieste di cosa avesse rispose che non stava bene; aveva avuto una visione che non era assolutamente in grado di riferire. Elena preferì tacere; si sedette accanto a lui, lo baciò sulla fronte e si accorse che era febbricitante. Gli mise il proprio foulard sulle spalle e lo tenne stretto a sé mentre rivolse una preghiera alla Madonna della Sorresca. Intanto in cielo, dolce e pietosa, appariva Venere, la stella della sera, nella quale Federico, per un istante, vide la creatura che un momento prima lo aveva lambito con un sorriso. A lungo rimasero a contemplarla nella speranza di placare le emozioni.

Lidia Popa
Stato d’animo ai tempi di coronavirus? #iorestoacasa fino a nuovi ordini delle autorità

Lunedì pomeriggio vado al supermercato come ogni inizio settimana per farmi un rifornimento di alimenti, verdure e detersivi. Trovo carta igienica in offerta e mi dico perché no stavolta mi compro questo pacco 12, così non penso più, ricordando il video della battaglia nel supermercato di Sidney, sorrido. Avrei voglia di fare un minestrone di lenticchie, mi avvicino al reparto e vedo con stupore che tra i legumi stanno visibilmente finendo i fagioli. Succede qualche volta per quaresima che non trovo sempre i borlotti che sono i miei preferiti, quindi qualche scatola non sarebbe male comprare. Riso e pasta sempre perché sono buoni per sostituire il pane nella mia dieta contro il diabete. Passo poi vicino al reparto detersivi e l’alcool era già finito, comunque non mi occorre ho sempre in casa una bottiglia. Compro il solito pane di grano duro, che resiste un po’ di più dato che ora mangio meno pane. Mi avvio verso la cassa pensando a cosa mi sono scordata e stupore vedo le transenne ad un metro, e davanti a me un signore con un carello stracolmo di tutto soprattutto cose a lunga conservazione. Tra me e me, dico: ma la gente e proprio scema! Mica è in arrivo l’Eucaristia del cibo? Così in fila osservo che gli impiegati della cassa ogni tanto si fermano per disinfettare. Menomale, mi dico, dovrebbe succedere sempre dato che il supermercato è uno frequentato da molta gente di zona, anche da quartieri adiacenti a Casalotti, dove vivo da circa vent’anni. Lentamente ci avviciniamo alle casse mentre si aprono altre due che hanno finito di igienizzare. Tutto bene così la gente in fila ora si divide per quattro. Arriva il turno del signore con le provviste per una stagione 10 pezzi per ogni genere, pasta, farine e conserve, e un box da 24 pezzi di polpa di pomodoro. Nulla assolutamente per l’igiene. L’uomo pensa per prima alla pancia, mi dico, per sdrammatizzare il sentimento di paura che mi crea questo tipo di atteggiamento, tipico per alcuni con un grosso conto in banca. Mentre ero la che aspettavo che finisca di scannare tutta la roba, do uno sguardo alle altre casse, tutto normale la gente fa spesa per due giorni anche se molti di loro indossavano mascherine bianche come in un poliambulatorio. Penso, andrà tutto bene, Lidia, anche se hai avuto una doppia embolia polmonare e hai il diabete. Respira, se domani respiri ancora vuol dire che i tuoi polmoni sono forti. Carico la spesa nella mia modesta busta e vado tranquilla a casa. Mi sta venendo la fame. Mi lavo le mani con acqua e sapone. Cucino per cena il minestrone.
Martedì mi alzo come al solito e mi ricordo che devo stampare l’Autocertificazione per lavoro se mi fermano per il controllo. Giornata bella soleggiata, ma i mezzi di trasporto sono quasi vuoti, sembra che Roma sia svuotata come nel periodo delle ferie di agosto, ma il silenzio è impressionante, isola. Anche oggi scrivo mentre viaggio per non perdere l’abitudine. Arrivo al lavoro, i signori sono partiti per Alto Adige dalla scorsa settimana, vogliono stare vicino alla famiglia, hanno una casa in un piccolo paese vicino al Lago Di Garda. Non sono mai stata. Penso nemmeno me lo potrei permettere dato che è una zona turistica per chi ha più soldi. Penso di sistemare per tutta la settimana il gatto, l’unico abitante della villa. Faccio il mio dovere mentre la signora mi chiama per avvisare che dovrei mettere più ciotole per il gatto e distribuire il cibo nel modo che non ritorno più al lavoro per momento. La cosa buona in tutto ciò è che mi pagano però dovrei recuperare le ore al ritorno. D’accordo anche se mi dispiace molto per il gatto, però essendo libero di uscire verso il parco vicino si arrangia per l’istinto. Tanto spesso sparisce per giorni questo carino traditore.
Chiamo per il lavoro del pomeriggio e mi conferma che posso andare però per la prossima settimana non si sa. Arrivo in orario, però la signora è chiusa dentro la stanza, con la scusa che sta dormendo, seconda settimana di seguito, per malattia o paura di contagio, non so nessuno mi spiega. Ma come spesso viaggio all’estero essendo di formazione statistica, non mi preoccupo, dopo un volo dalla Birmania, o Inghilterra magari vuole riprendersi. Faccio il mio lavoro e torno con i mezzi pubblici a casa con la sciarpa al posto di mascherina e guanti monouso nelle mani. Da mercoledì mi fermo. Nessuno si fida meglio che #iorestoacasa e mi sistemo la casa facendo le pulizie generali della primavera. Una sosta mi fa bene anche per leggere i tanti libri che ho in casa e scrivere ancora. Scrivere è liberatorio per tutta l’ansia insinuata di questo isolamento proibitivo della nostra libertà. Cara libertà, quanto mi mancherà l’abbraccio del mondo, le riunioni letterarie o rivedere la mia famiglia.
Sì, la mia famiglia divisa in più continenti del mondo. Chissà quando rivedrò le mie figlie e i miei nipoti? Iulia vive in Grecia, molto felice la mia principessa snella, ma lei non sa che la nomino così da quando è nata. Maria, sua figlia, di recente ha iniziato a leggere in rumeno, la sua voglia di comunicare con i nonni della Romania è tanta, e spero che un giorno insieme riusciremo. Quello che è certo amo la mia stella. Ana la seconda figlia la regina della famiglia perché è un buon manager vive in Inghilterra, in attesa di un secondo bambino e io sono strafelice, spero di poter essere utile come nonna, se il cardiologo mi conferma che posso viaggiare al prossimo controllo. Suoi bellissimi figli sono i miei fiori preferiti Thaliscia e Adam Jordan. La nipotina ogni volta mi dice nonna sei unica, mi manchi, un saluto con il mio inglese amatoriale non manca. Con Adam la confidenza è legata dei suoi mini auto che sono il suo passatempo preferito. Ma il nostro amore si comunica con gli sguardi e sorrisi. E sono felice di vederli attraverso le vetrate del tempo liquido, che accorciano le distanze. Siamo abituati, meglio di prima che ci sentivamo solo per telefono, non era WhatsApp nemmeno il Messenger o Skype. A noi il pensiero di stare bene di salute ci illumina come il sole il cielo sereno che questi ultimi giorni manca. Abbraccio tutti, anche la mia cara mamma rimasta in Romania, a parole senza fatti anche se mi manca l’energia che si dona e si riceve in un approccio ravvicinato. Ci sentiamo. Ci sentiamo più spesso.
I prossimi giorni saranno decisivi per il futuro. Aspetto che risplende la primavera mentre soggiorno nella mia mansarda con vista cielo, guardando dalla finestra le strade vuote e con un traslato del cuore quado sento le sirene dell’ambulanza. Si fermano, non si fermano, si fermano, non si fermano. Mi mancano i petali bianche delle margherite e le api. Il cinguettio degli uccelli che mi salutavano al mattino mentre uscivo dal cortile. Nei vasi ho piantato cipolle e aglio. Guardo la vita che continua. Ancora respiro.

Mario Sammarone

Un caro saluto a tutti

Più che altro in questi giorni sto mettendo in pratica i precetti di filosofia che ho studiato da tanti anni ormai. Occorre conservare la buona via di mezzo, l’equilibrio psicologico ed esistenziale, di fronte alle buone circostanze che la vita ci mette davanti così come ne confronti delle avversità. Non si deve lasciarsi scoraggiare troppo dalla situazione che stiamo vivendo e per questo cerco di tenere su il morale per dare aiuto a chi mi circonda fisicamente, ma anche tutti gli amici e parenti con i quali sono in contatto costante digitalmente. Dedico alcune ore della giornata a sentirmi con loro telefonicamente o via whattsupp, per condividere questo momento difficile, per dare sostegno e per essere a mia volta sostenuto, mostrando loro la mia convinzione che andrà tutto bene, che se tutti rispettiamo le regole, presto, tra qualche settimana, il contagio potrà regredire, come accaduto in Cina, e potremo tornare, gradualmente, a una condizione di normalità o quasi.

Ho rispolverato uno dei miei vecchi romanzi preferiti che leggevo da ragazzo, Il signore degli anelli, che tutti conoscete. Ho scoperto che la lettura di quelle pagine per me così famigliari, che mi riservo per le prime ore pomeridiane, mi lascia un moto di gioia, di tranquillità nel cuore che mi rimane fino a sera. Ho iniziato l’alto ieri la lettura e sono arrivato al capitolo in cui Frodo e gli altri Hobbit lasciano hobbiville e incontrano degli elfi lungo la via…

Questo è un tempo inusuale, a cui non siamo abituati, che possiamo usare certamente per riflettere su noi stessi e sul mondo. Siamo di fronte alla crisi più importante avventa in Italia dai tempi della seconda guerra mondiale, è per questo che bisogna conservare dentro noi stessi una serenità d’animo, una forza interiore che ci consenta di andare avanti in questo difficile momento. Un buon farmaco per aiutarci è quello di condividere con gli altri quello che stiamo vivendo, in modo da non sentirci soli e poter rispecchiarsi nel comune cammino di questi lunghi, inusuali giorno. Da affrontare con forza e bellezza nel cuore.

E poi mia figlia, un ringraziamento a lei che ieri ha fatto tre anni e che con il suo sorriso illumina più che ogni altra cosa il mio cuore. A proposito, adesso vi devo lasciare perché Giulia mi reclama: vuole giocare…

Pietro De Santis
Roma, tredici marzo, venerdì

A stare sul divano mi vengono i brufoli sul coccige: sdraiato sotto alla coperta mi tocco per il fastidio; tra prurito e dolore (poco) penso a piaghe da decubito, il capo piegato per la malasorte del divano.

Ricevo video brevi con esercizi ginnici antibrufolo: ieri, due; oggi, uno. Una bella ragazza saltella, dovrei farlo? Lei è bionda, io bruno. È giovane e non raccoglie virus dal tappeto. Spinge il coccige in alto, vederlo fa bene; spinge anche il pube bene in su, meno chic, per me. Le gambe? Male al ginocchio, abbandono.

Il video, oggi, me l’ha girato Massi; Massi è sempre originale. Qui l’istruttore è in verde, meno carino di lei e mi somiglia un po’: pulisce subito le mani, è un bene e non si fa fatica. Pulisce a lungo: sopra, sotto, ruota i polsi; a usare il mouse i polsi fanno male è da un po’ che ci penso.

Tira su il ginocchio, estende il piede, ci infila una busta con elastico. Io lo faccio a Venezia per l’acqua alta, le buste costano meno degli stivali. A Venezia le buste, questo è certo, sono made in China: colore blu, arancio o bianche trasparenti; tirando su il ginocchio fai grandi addominali, mentre cammini… e non ti accorgi.

Ancora un esercizio per mani e polsi: ok.

Ora: su il braccio, piega il braccio, infila il guanto: e uno! su il braccio, piega il braccio, infila il guanto: e due! Sembra divertente, il motivo musicale è giusto.

Inspira ed espira dalla mascherina, ma io dove la trovo? Al mercato non ce l’hanno; in farmacia manco a dirlo.

Da giovane ero anche scemo: nell’estate rovente correvo sull’asfalto alle due del pomeriggio, infilato in un sacco nero da spazzatura per sudare; fortuna che Dio non mi ha voluto. La tutina che ha infilata l’istruttore è bianca quasi trasparente; la chiude con la zip e lo strap intorno al mento; le righe rosse saranno snellenti, però ormai somiglia a una salsiccia… non che prima fosse un fighettino; la ragazza in nero invece, beh.

Infila una visiera trasparente – antivento e antipioggia: gli ripara il viso; speriamo non appanni col respiro – e ancora guanti blu: braccio su, guanto blu; braccio su, guanto blu. In totale fanno quattro: due sotto la tuta, due sopra la tuta. A posto? Allora indietro tutta: via la visiera, via i guanti, via la tuta.

La tuta la sfiliamo in modo sexy: oscillazioni morbide a sinistra, destra, piano e giù; piano e giù. A gambe piegate, sfilare piano; le braccia via in un colpo, poi la tuta va messa nel secchiello.

Muovere fianchi e piedi per sfilare gli stivali; niente mani, solo piedi: destra sinistra, destra sinistra, sinistra. Bisogna imparare dai cani che si grattano, gli fa piacere e si vede da come allungano il collo; l’istruttore in verde, il collo non lo allunga… L’uomo guarda convinto verso la camera di ripresa: così si deve fare. Via i guanti blu e gran pulizia di mani: è tutto a posto.

Sei minuti, niente male. Però non specifica quante ripetizioni… la ragazza era più professionale.

Sì lo so, l’uomo in verde è un infermiere e non si lamenta, lui. Torno sul divano, Massi, coraggiosamente.

Guido Barlozzetti
Sto a casa.

Sto a casa.

La punta del dito indice della mano destra è diventata rossa.

In effetti, è da ieri che ho sentito il dito, nel senso che un dito quanto tutto funziona non lo senti, fa il suo dovere, silente come i carabinieri. Usi ad obbedir tacendo. Lo usi o fa da solo e neanche te ne accorgi.

E invece l’ho sentito. Devo averlo sbattuto in un certo modo, prendendo la moka del caffè, con quel manico gentile che fuoriesce nella parte superiore, quella che si chiude sull’altra che sta sotto con l’acqua e il caffè nel filtro, perché è arrivata una dolenzia che non ha fatto tempo a manifestarsi che era già sparita. Sono rimasto sorpreso, non avvertivo più nulla, neanche una coda di quella fitta, no, troppo, di quell’avviso appena fastidioso.

Allora, ho messo la testa del dito fra l’indice e il pollice dell’altra mano, in effetti scopri in queste circostanze che è bene averne due e che, quando serve, se una va fuori uso, per qualunque motivo, puoi darti una mano con l’altra. Ho premuto e, sì, la dolenzia si è subito ricomparsa. Dunque, nel dito indice della mano destra, in particolare sulla punta, c’era qualcosa che ne metteva a repentaglio la sanità.

Non solo, a guardare bene, sulla parte in cui si era palesato l’indolenzimento si faceva percepire un leggero rossore, là dove finisce l’unghia, nel suo lato sinistro, anzi era proprio da lì, da quel confine, che si spandeva. Minacciosamente.

Da quel momento, non saprei dire ogni quanto, un’ora, mezz’ora, un quarto d’ora, minuti forse, ho cominciato un’osservazione non sapete quanto attenta, accompagnata da palpazioni continue, ogni volta con la preoccupazione di verificare se la dolenzia restasse tale o se, invece, andasse ad accentuarsi. E quindi con grande attenzione, ho cercato di memorizzare l’impressione che mi restava, in modo da farne il metro di paragone per la successiva e verificare la differenza..

Un esercizio invero delicato, che richiede una grande concentrazione e, uno dopo l’altro, a forza di ripeterlo, può anche far venire un’emicrania, non dico a grappolo, sarebbe eccessivo, ma certamente più di un leggero mal di testa. Certamente acuito dalla preoccupazione di un dito indice che di punto in bianco, senza un qualsivoglia motivo, senza una ragione che possa differenziarlo da tutti gli altri che, invece, stavano benissimo, decide di arrossarsi e anche di gonfiarsi. Come una nuvola al tramonto, quella che chiamano cumulonembo perché sale su, turgida e imponente.

Già, ecco l’altro segnale del problema che si sta annunciando.

Dopo la dolenzia con rossore, ho visto che il dito si stava gonfiando, ancorché appena appena, ma quanto bastava per dire di una novità per nulla tranquillizzante.

E tutti possono capire i pensieri che mi sono venuti. Il gonfiore che non cessa di gonfiarsi, il rossore che diventa sempre più rosso, e l’uno e l’altro che si estendono dal dito indice a tutti gli altri, poi alla mano e di lì fino al polso, all’avanbraccio, al braccio tutto e via via il busto, l’altro braccio giù fino alla mano, e poi.. Insomma, una perturbazione estrema che viene giù dall’Artico o dall’Atlantico, inarrestabile, davanti alla quale l’unica cosa da fare è rinchiudersi in casa.

E ho pensato all’indice di Dio che sfiora quello di Adamo e gli dà la vita, a quello di E.T. che s’illumina e fa magie.

Niente, non dico di volere un dito con la punta miracolosa, ma che almeno in salute!

Pensieri, d’accordo, ma accompagnati da una sudorazione fredda alle mani e ai piedi e anche a un’accelerazione cardiaca che ho dovuto affrontare con l’armadietto di ansiolitici che per fortuna è sempre preparato per l’emergenza.

Devo spiegare una cosa, odio le farmacie e tutto quello che vendono. Non posso pensare di contaminare il corpo, di qualunque cosa si tratti e quale che sia la modalità di accesso.

E allora le pillole e le gocce dell’armadietto? Forse, non sapete cosa vuol dire svegliarsi con una sudorazione fredda e il cuore che batte come il rullante della batteria di Keith Moon!

Vado a trovare il Dottore tre volte a settimana. L’ho appena intravisto, perché entra dopo che io mi sono disteso ed esce prima che mi rialzi. Siede alle mie spalle e ascolta steso su un divano e gli racconto quello che mi viene da dire.

Bene, continua a dirmi che sta tutto dentro la mia testa e che dovrei far riemergere i ricordi dell’infanzia. Con tutti i soldi che gli do non mi pare una grande illuminazione. E non ha neanche il coraggio di farsi vedere.

Avrei voluto vedere lui con quella punta dell’indice!

Ho pensato, ho riflettuto, ho spremuto le meningi. Il dito stava di fronte a me, impettito e inerme nel suo rossore un poco gonfio, che fosse lui a darmi un’ispirazione, a suggerirmi una strada.

E così mi sono ricordato di quella storia dell’acqua tiepida con il sale grosso. Roba di quando ero bambino, profumi di cucina, di lenzuola lavate e stese, di focolari accesi.., la mamma che diceva che l’acqua tiepida con il sale grosso sgonfiava e purificava.

Seduto accanto al tavolo dove lavoro con il computer, fra i rotoli delle mappe, i libri, i telecomandi, i termometri – uno per la febbre, uno per la temperatura – l’ho immerso in una tazza e ho sentito subito il tepore che lo avvolgeva, e l’ho tenuto lì, non so quanto, al punto che mi sono addormentato e quando mi sono risvegliato, ero lì con il dito ancora immerso che si era sdilinquito come un orologio di Salvador Dalì.

L’ho tirato su, lentamente, con l’ansia di vedere se si fosse risanato, o almeno il rossore si fosse attenuato. Ma niente, era esattamente come prima.

A quel punto, l’ansia si è trasformata in paura e anche qualcosa di più. Ho preso il coraggio a quattro mani, bisognava fare qualcosa, anche sfidando l’ostilità nei confronti della farmacia.

Ci sono andato.

Ho fatto la fila e quando mi sono presentato davanti al farmacista, ho porto verso di lui il dito indice.

Dietro il bancone, il camice bianco, quanto basta per metterti in sudditanza.

Mi ha guardato dritto in faccia, così dritto che ho pensato che fosse un farmacista-analista che appena ti guarda ha già capito il morbo da cui sei affetto e ha già pronta la medicina.

Deve aver colto un’apprensione angosciata, e si è ritratto, con una smorfia che sapeva di insofferenza, disgusto, noia.., tutte concentrate in uno sguardo che è partito verso l’alto e nella fessura contratta della bocca.

“Ma non è neanche un giradito!”.

Fu durante il periodo della pandemia del coronavirus che Antonio Piovasco, di professione meteorologo, ebbe un giradito.

O qualcosa del genere.

Il caso non è stato registrato negli annali dell’amministrazione sanitaria.

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